di Damiano Palano
«Io non sono un figlio del mio tempo, anzi, mi riesce difficile non definirmi addirittura suo nemico». Le parole di Franz Trotta, il protagonista della Cripta dei Cappuccini, potrebbero ben figurare come epigrafe all’Abecedario di Mario Tronti curato da Carlo Formenti (DeriveApprodi, euro 20.00). Nelle sette ore di intervista, che si snodano attraverso venti lemmi, da Amico/Nemico a Zeit, Tronti definisce infatti la propria condizione come quella di un esiliato in patria e respinge persino la qualifica di «intellettuale». E forse proprio come Trotta, qualche volta preferisce anche dire di non capire, o persino di essere sordo, piuttosto «che ammettere di aver sentito rumori volgari». Ma è comunque proprio la condizione di chi segue ciò che avviene attorno a sé come un estraneo, e con «serena disperazione», a illustrare la logica che guida la riflessione più recente di Tronti. E soprattutto a chiarire il senso della traiettoria che lo ha condotto dalla critica di società dei suoi anni giovanili alla critica di civiltà sviluppata – in termini sempre più decisi – nell’ultimo ventennio.
Tronti si è
probabilmente deciso ad accantonare per una volta la forma scritta, che
predilige da sempre, anche per il disagio di essere considerato da molti suoi
lettori soltanto, o soprattutto, come il fondatore dell’operaismo. La speranza
è cioè che l’esposizione del suo pensiero «senza orpelli» possa diradare
qualche equivoco interpretativo e contribuire a chiarire finalmente la logica
di un itinerario, che è risultata negli ultimi anni anche per molti dei suoi
estimatori quasi indecifrabile. Ma, per affrontare adeguatamente l’Abecedario, è necessario tenere presente che i venti lemmi non sono le voci di
un bilancio retrospettivo. Chi si accosti a questo documento alla ricerca di una
sorta di sommario della riflessione condotta nel corso di sei decenni è così
destinato a rimanere deluso. E, a maggior ragione, è destinato a rimanere
deluso chi ricerchi nell’intervista una rievocazione della stagione operaista.
Formenti racconta d’altronde nel volumetto che accompagna il Dvd di avere
suggerito di inserire alla lettera «O» la voce Operaismo e alla lettera «Q» la voce Quaderni rossi, ma di aver visto respinte entrambe le proposte da
Tronti, che ha invece preferito parlare, rispettivamente, di Operai e di Qoelét. Ma l’Abecedario non
è un’autobiografia per frammenti solo perché Tronti non è mai stato incline a
concedere molto a questo genere, o perché – come ha scritto molte volte –
ritiene di avere chiuso la parentesi operaista già mezzo secolo fa, quando uscì
l’ultimo numero di «classe operaia», o al massimo quando licenziò – con il
celebre Poscritto – la seconda
edizione di Operai e capitale. Probabilmente
il vero motivo è che Tronti – come d’altronde ribadisce a più riprese nel corso
del filmato – considera pressoché indispensabile evitare di ripercorrere sempre
lo stesso sentiero e bagnarsi nello stesso fiume. Più che come la conclusione
di un lungo itinerario, i venti lemmi dell’Abecedario
sono così, per molti versi, il sommario di una ricerca da portare avanti, gli
appunti di un diario di viaggio ancora in larga parte da compiere, o da
intraprendere ancora una volta, ma da una prospettiva nuova. E proprio per questo, suonano allora come un
invito a ricominciare di nuovo, ma partendo dalla fine.
Nelle pagine di Dello spirito libero, sviluppando l’idea
di una «rivoluzione conservatrice», a proposito della rottura del ‘17 Tronti ha
scritto infatti che la rivoluzione «non era un evento escatologico», e «non
preparava una ricetta per la cucina dell’avvenire». Si trattava invece, ai suoi
occhi, di «un tentativo, disperato e riuscito, di trattenere un brutto presente
invadente, fermare la guerra, trovare un rimedio alla fame dei contadini, una
risposta alla fatica sfruttata degli operai». La sua sconfitta non fu dovuta
così all’incapacità di tenere il ritmo dello sviluppo capitalistico, ma semmai all’aver
ceduto alla logica della modernizzazione. E l’illusione di poter seguire il
capitale sul terreno della modernizzazione è infatti la principale colpa che
Tronti indirizza tanto a Marx quanto al movimento operaio. «Non si può essere
più moderni del capitalismo», ha scritto. «La modernizzazione […] non poteva
essere cavalcata come tale, perché aveva già in sé un suo segno». E l’errore è
stato di non sapere invertire quel segno. «Il movimento operaio ha sbagliato
quando ha seguito il Marx apologeta della borghesia, e ha individuato la strada
quando ha seguito il Marx critico dell’economia politica». A questa lettura si
connette anche l’attenzione rivolta alla dimensione della spiritualità, che si
riconosce in molti passaggi dell’Abecedario,
ed è d’altronde a questa prospettiva d’insieme che si lega l’interesse per la teologia
politica che contrassegna almeno da un trentennio – dai tempi della sua
collaborazione con la rivista «Bailamme» – la riflessione di Tronti. Il «problema della verità», come sottolinea Pasquale
Serra nel volumetto allegato al Dvd, è infatti strettamente affiancato alla
spietata critica dell’homo democraticus
che si riconosce nelle pagine più recenti. Ma, a ben guardare, il
riconoscimento dell’importanza del «sacro» e della ricerca della «Verità»,
l’ammirazione per l’istituzione millenaria della Chiesa di Roma e persino
l’apprezzamento per la riflessione di Joseph Ratzinger – tutti elementi che
devono ‘disorientare’ molti dei lettori di Tronti – non vanno intesi come
l’esito di un percorso spirituale (che pure c’è probabilmente stato negli
ultimi anni). Nella prospettiva di Tronti – in questo davvero totus politicus – ogni elemento di
pensiero è infatti sempre ricondotto alla dimensione politica, nel senso che scaturisce
sempre dal tentativo ‘politico’ di interpretare il presente, oltre che dalla
ricerca di una strada ‘politica’ realisticamente praticabile. Così, quella
«Verità», di cui Tronti non esita a rivendicare la centralità, è sempre una
«verità di parte», una verità radicata in una specifica «parte» da cui
osservare il mondo. In questo modo Tronti rimane dunque fedele alla giovanile
scoperta del «punto di vista operaio», con cui – rompendo con l’ambizione di
gran parte del marxismo ortodosso di poter guadagnare una visione generale e
non distorta delle dinamiche sociali – fissò il perno della «differenza
italiana». «Ci sono i fatti, e poi ci sono le interpretazioni, per cui la
verità», ribadisce nell’Abecedario,
«si scinde in tante verità parziali, e io cerco appunto una verità di parte». Ma,
rispetto a quella scoperta giovanile, non esita a riconoscere che la «parte» da
cui guardare il mondo non coincide più con la prospettiva di un soggetto
materialmente radicato nella struttura produttiva del capitalismo. La vittoria
dell’homo democraticus, l’ascesa
incontrastata dell’«uomo massa» e il trionfo della civiltà borghese hanno infatti
neutralizzato la radicalità della classe operaia, senza dar forma a un nuovo
antagonista. «Il punto di vista operaio non esiste più», dice Tronti, anche se
«rimane il punto di vista». Un punto di vista che – come scriveva in Dello spirito libero – va ora ricercato
dentro di sé, nella ridotta nell’interiorità, nel deposito della spiritualità.
Ma il punto è che senza «fede» - una fede che per Tronti è sempre politica, nel
senso elevato dell’appartenenza a una «parte» - si rimane privi della
possibilità di agire. E una volta che si è smarrita una «verità di parte»,
quando si è cessato di credere in qualsiasi cosa che non sia contingente, si
finisce col poter credere a tutto.
Forse ancora più
sorprendente, persino per i suoi lettori più assidui, risulta la prossimità di
Tronti alla tradizione del realismo politico, che affiora in particolare nelle
voci Fede, Guerra, Qoelét. Certo Tronti negli ultimi
decenni non ha esitato a riconoscere in Machiavelli, Hobbes, Weber e Schmitt delle
guide e delle costanti fonti di sollecitazione. Ma la sua adesione al
pessimismo antropologico realista appare davvero marcata. Il realismo di Tronti
non è infatti riducibile solo a una concezione che raffigura la politica come
conflitto, come guerra, come esito dei mutevoli rapporti di forza. Il suo realismo
accoglie la sinistra raffigurazione della «natura umana» che affiora dalle
pagine di Machiavelli e Hobbes (ma anche di Sant’Agostino), e che rappresenta
gli esseri umani come irrimediabilmenti segnati da una predisposizione alla
sopraffazione, da una inestinguibile sete di potere, dalla costante tentazione
della violenza, oltre che da una inguaribile diffidenza nei confronti dei
propri simili. Dalla prospettiva di un simile approdo teorico, Tronti non può
allora che criticare l’ambizione a una pacificazione definitiva del mondo, non solo
perché – come in larga parte della tradizione marxista – il conflitto
scaturisca dall’assetto delle relazioni sociali e della ineguale distribuzione
dei mezzi di produzione e della ricchezza – ma perché le origini più remote del
conflitto e della violenza vanno rinvenute a livello antropologico. Lungo
questo percorso Tronti viene così a imboccare una direzione diametralmente
opposta rispetto a quella battuta dal marxismo e oggi da gran parte della
teoria radicale, perché ritiene – come tutti i grandi realisti – che le
«regolarità della politica» vadano in fondo ricercate prima di tutto nelle
profondità della «natura umana», e non nei condizionamenti sociali, economici e
culturali.
L’approdo di Tronti al
realismo politico certo non implica un’adesione – neppure acritica –
all’estetica della Machtpolitik,
perché il riconoscimento del carattere ineliminabile della guerra è soprattutto
il presupposto necessario di una sua «messa in forma», di una sua regolazione. Ma
non si può evitare di riconoscere oggi nel suo sguardo anche quell’ambigua
fascinazione per gli aspetti più crudi della politica che, per esempio, si può
ritrovare in Schmitt. Perché anche per Tronti – come per il giurista di Plettenberg
– un mondo ‘spoliticizzato’, un mondo che riesca a eliminare il conflitto e la
guerra, non è semplicemente ‘irrealistico’, ma è piuttosto un mondo ‘inumano’,
un mondo in cui viene eliminata quella dimensione ‘tragica’ del conflitto (e
forse anche della violenza) in cui si esprime la stessa autentica umanità
dell’essere umano. Ed è proprio in questa chiave che deve essere interpretata la
celebrazione della guerra che Tronti si lascia sfuggire nell’intervista, quando
osserva per esempio che è meglio vivere in tempi di guerra che in tempi di
pace. Una simile celebrazione non va infatti probabilmente interpretata come
l’effetto di una ormai convinta adesione a quella visione del mondo secondo cui
la ricerca di potenza rimane l’unico vero scopo politico da perseguire, e in
cui la guerra è la manifestazione più elevata della vita di ogni consorzio
umano. In quella frase c’è piuttosto la nostalgica rievocazione del Weltbürgerkrieg che ha segnato il
Novecento, della guerra ‘civilizzata’ tenuta a freno dell’equilibrio bipolare,
dei tempi eccezionali in cui, dinanzi all’estremo, la «Storia» poteva aprire un
varco alla «Politica». E c’è soprattutto una sorta di elegia per quel militante
novecentesco, forgiato nelle tempeste d’acciaio del Ventesimo secolo e
cresciuto nello «stato d’eccezione» della guerra civile mondiale, per il quale
la «politica assoluta» era il centro di gravità di un’intera esistenza, e non
solo ‘una’ dimensione accanto alle altre.
Benché l’Abecedario vada inteso come un ritratto del
Tronti di oggi, la presentazione «senza orpelli» offerta nella lunga intervista
è destinata a suggerire più di qualche interrogativo sulla logica del percorso seguito in circa sessant’anni dal pensatore romano. Le posizioni che emergono
dal filmato – in primo luogo proprio l’approdo al realismo politico, ma anche
il ruolo assegnato alla teologia politica, la critica al movimento operaio e
l’accento posto sull’interiorità – appaiono davvero molto lontane dalla
prospettiva del ‘giovane’ di Tronti, e in generale da quel paradigma operaista
di cui Operai e capitale viene
considerato la più solida pietra di fondazione. Forse più ancora delle sue
posizioni politiche – e in particolare del suo ruolo di senatore del Partito
Democratico – la riflessione recente di Tronti deve dunque risultare
‘sconcertante’, o persino intollerabile, per chi valorizza il pensatore della
«differenza italiana». Per questo, è quasi inevitabile essere indotti a riconsiderare
l’intera logica del suo percorso, e forse anche circoscrivere allo spazio di
una parentesi – quasi un ‘incidente di percorso’ – la sua stagione operaista.
Si tratta d’altronde di un’ipotesi di lettura avanzata in diverse occasioni fin
dagli anni Settanta. Spesso con l’ottica un po’ deformante di una polemica
contro il «compromesso storico» (di cui la teoria dell’«autonomia del
‘politico’» sarebbe stata la base dottrinaria), si rilessero le pagine di Operai e capitale alla ricerca di quei
segni di ‘rottura’ o di ‘continuità’, capaci di confermare – a seconda della
prospettiva adottata – la gravità di un tradimento teorico o il profondo
radicamento di una distorsione concettuale destinata a squalificare un’intera
riflessione. Allora qualche lettore ritrovò alla base dell’operaismo di Tronti,
insieme alla tentazione di una «filosofia della storia» da cui Raniero Panzieri
aveva già messo in guardia molti anni prima, una marcata impronta gentiliana. In
termini tutt’altro che critici, Serra ha ripreso di recente una lettura simile.
In diverse occasioni ha infatti polemizzato con chi punta a falsificare la
riflessione più recente del pensatore romano «a partire da un libro scritto nel
1966, e che già nel 1970 Tronti si mette alle spalle, come se in quel libro
fosse consegnata l’intera verità di Tronti, e tutto il resto, il dopo, ed anche
prima, fosse stato scritto per niente». Ma, sempre con l’obiettivo di
‘relativizzare’ la stagione dei «Quaderni rossi» e di Operai e capitale, Serra ha anche invitato a prendere atto che «prima dell’operaismo non c’è il nulla, o
un vuoto, ma un pensiero molto determinato» (Tradizione e libertà. Il pensiero politico di Mario Tronti, in
«Rivista di Politica», 2016, n. 1, p. 150). Almeno una delle fonti importanti
della sua riflessione andrebbe così ritrovata in Ugo Spirito, che di Tronti fu
relatore di tesi negli anni Cinquanta e che avrebbe contribuito a gettare un
‘ponte’ tra Gentile e Marx. Ma forse, ‘relativizzando’ l’operaismo, ci si
potrebbe anche spingere a ritrovare nel percorso di Tronti l’eredità di un
altro filone che ha attraversato la filosofia del Novecento italiano (e contro
cui peraltro il pensatore romano aveva indirizzato le prime polemiche). Perché
nel passaggio dall’operaismo all«‘autonomia del ‘politico’», e poi al realismo
politico, Tronti si è trovato a battere lo stesso sentiero attraversato da
Benedetto Croce, che, ricordando i suoi giovanili interessi per il materialismo
storico, scrisse che il marxismo lo aveva ricondotto «alle migliori tradizioni
della scienza politica italiana, mercé la ferma asserzione del principio della
forza, della lotta, della potenza, e la satirica opposizione alla insipidezze
giusnaturalistiche, antistoriche e democratiche, ai cosiddetti ideali dell’89».
L’Abecedario naturalmente non offre – e non può offrire – una
soluzione alla discussione sulla logica della traiettoria trontiana e sul ruolo
della ‘parentesi’ operaista, ma sicuramente offre materiali importanti, su cui
varrebbe la pena riflettere, magari anche mettendo in discussione griglie di
lettura consolidate. Perché l’intervista suggerisce anche di rileggere a
ritroso l’intero percorso di Tronti. E, soprattutto, invita a ricercare le
tracce – seppur labili – della svolta verso l’idea di una «rivoluzione conservatrice» già nei suoi primi scritti, ossia persino ‘dentro’ la stagione
operaista.
Gli approdi cui Tronti
giunge oggi sono probabilmente destinati a lasciare insoddisfatti, delusi o
persino indispettiti molti di coloro che considerano le ipotesi sull’«autonomia
del ‘politico’» uno strumento utile per ripensare la storia politica del capitalismo
e le relazioni tra «politica» ed «economia», o per coloro che non cessano di
cercare nelle pagine di Operai e capitale
la chiave per rovesciare la logica del presente, oltre che ovviamente per
quanti confidano che la potenza degli algoritmi, rimestando nelle pentole del
capitalismo cognitivo, stia imbandendo un nuovo sontuoso banchetto nelle
osterie dell’avvenire. Per chi ascolti le voci dell’Abecedario da questa prospettiva, l’approdo al classico pessimismo
antropologico del realismo politico deve infatti apparire solo come una
rinuncia al progetto di una trasformazione radicale delle relazioni sociali.
Mentre la concezione realista di una politica piantata sulle due gambe del
conflitto e della mediazione deve suonare a molti solo come un tentativo di far
convivere – l’una accanto all’altra – posizioni teoriche e politiche fra loro
contraddittorie, o magari di legittimare scelte politiche che lo stesso Tronti
non esita a definire ambigue. L’aspetto che deve lasciare insoddisfatti molti
dei lettori – vecchi e nuovi – di Tronti è comunque relativo proprio alla critica di civiltà che traspare dalla
sua riflessione più recente. Non semplicemente perché la critica dell’homo democraticus e la polemica contro
il Sessantotto e il suo individualismo libertario tendono ad avvicinare Tronti
alle vecchie critiche conservatrici alla «ribellione delle masse». Ma perché,
collocando il discorso a un livello antropologico, la vittoria della Zivilisation sulla Kultur sembra un risultato così inattaccabile da precludere ogni
spazio di azione alla politica. E la ricerca di un «punto di vista» dentro se
stessi – e non più dentro una forza collettiva, piantata nel cuore del sistema
produttivo – sembra perciò assomigliare a una dichiarazione d’impotenza.
Ma se la sua ricerca più
recente corre effettivamente almeno alcuni di questi rischi, è molto probabile
che nei prossimi anni dovremo ripartire proprio da quei nodi che Tronti sottolinea.
Quando il vortice destinato a investire il Vecchio continente avrà finito di
inghiottire anche l’ultima ridotta del «mondo di ieri», i venti lemmi
consegnati all’Abecedario avranno
infatti per noi un altro suono. E non è escluso che il paradigma «katecontico»,
da cui il «rivoluzionario conservatore» osserva retrospettivamente il Novecento,
non debba rappresentare per noi quasi un passaggio obbligato, pur con tutte le
sue incognite, le sue ambiguità e i suoi problemi. Tornando alla «serena
disperazione» di Tronti, potremo così riscoprire l’ultima lezione di un grande
maestro del Novecento, e persino il suo monito a non rinunciare alla «Verità» -
e a ricercare nel ‘sacro’ la strada che conduce alla politica – potrà dischiudere
ai nostri occhi un nuovo significato. E forse, proprio allora, riascoltare la
voce di Tronti, e riaccostarsi al padre della «differenza italiana», diventerà per
noi quasi come discendere i gradini che conducono alla nostra Cripta dei Cappuccini.
Damiano Palano
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