martedì 24 aprile 2018
Per i Cinque Stelle è l'ora cruciale. Un'intervista sulla "Vita del popolo"
di Bruno Desidera
Questa intervista è stata pubblicata sul settimanale “La Vita del Popolo” il 20 aprile 2018
Il Movimento ha vinto le elezioni, ma ora deve decidere se accettare le alleanze e la sfida del Governo. Riuscirà però a mantenere il consenso di tutti gli “scontenti”, di destra, centro e sinistra, che lo hanno premiato? Ne parliamo con il prof. Damiano Palano, docente all’Università Cattolica. Che è “scettico sulla possibilità di un’alleanza con la Lega”.
Tutto o niente. E’ l’ora del dunque, per il Movimento 5 Stelle. Uscito vincitore solo parzialmente dalle elezioni del 4 marzo (è il primo partito ma non ha i numeri per governare), si trova ora a gestire una delicata trattativa per trovare alleati. Un cammino che si sta rivelando accidentato e aperto a tutti gli esiti. Intanto, è importante interrogarsi sulle ragioni del successo dei 5 Stelle e sulle possibili future evoluzioni. Lo facciamo con il prof. Damiano Palano, docente di Scienza politica all’Università Cattolica del Sacro Cuore, autore di varie ricerche e pubblicazioni sul movimento fondato da Beppe Grillo.
L’affermazione del M5S è stata una delle principali notizie delle recenti elezioni politiche. Se lo aspettava, almeno in questi termini? Quali a suo avviso le ragioni principali?
Tutte le rilevazioni dei mesi precedenti avevano indicato una crescita dei consensi al Movimento 5 Stelle, anche se non nelle proporzioni emerse il 4 marzo. Dunque non è stata una sorpresa assoluta, nonostante l’affermazione sia stata di qualche punto percentuale superiore alle attese. Le motivazioni sono molte. La formazione pentastellata ha innanzitutto consolidato il proprio bacino di elettori “storici”, nel senso che è riuscita in gran parte a conservare il consenso di coloro che già nel 2013 avevano votato per il partito di Grillo. Ma è stata in grado di incrementare i propri voti anche in altre aree. Innanzitutto conquistando il sostegno di elettori che nel recente passato si erano astenuti. Inoltre intercettando il voto di delusi del centro-sinistra (e di coloro che avevano confidato nella “rottamazione” renziana). E catalizzando infine il consenso di elettori che, soprattutto al Sud, avevano guardato prevalentemente al centro-destra. In sostanza, la forza del M5S sta nel suo essere davvero un partito “pigliatutti”, ossia un partito capace di rivolgersi a tutto l’elettorato e di superare la divaricazione tra destra e sinistra. Ciò non significa però che non esista più questa distinzione, e cioè che gli elettori abbiano davvero abbandonato queste categorie. Significa piuttosto che i 5 Stelle sono al tempo stesso di destra e di sinistra, hanno cioè potuto rivolgersi ai delusi di tutti gli schieramenti, dimostrandosi efficacissimi “imprenditori della sfiducia”.
In alcuni articoli ha parlato di “metamorfosi” del M5S e ultimamente di “oligarchia”. In che senso il movimento è una forza politica oligarchica e per certi aspetti “leninista”? In che modo tale modalità organizzativa è compatibile con la nostra Costituzione e più in generale con la democrazia liberale?
Ogni partito, anche i partiti che in buona fede aspirano a funzionare in modo pienamente democratico, si trovano a fronteggiare una tendenza ‘fisiologica’ alla formazione di un’oligarchia interna. A innescare questa tendenza è la stessa necessità di darsi un’organizzazione efficiente. Che richiede per esempio una specializzazione dei compiti, ma che comporta anche che, più o meno rapidamente, emergano, rispetto alla “massa” dei militanti e anche dei rappresentanti, i leader dotati di maggiori abilità oratorie, di migliore reputazione, di specifiche abilità. Ovviamente anche il Movimento 5 Stelle ha dovuto fronteggiare questa “legge ferrea”, come la chiamava Michels, che tende a produrre una oligarchia di dirigenti. Ma non dobbiamo dimenticare che quello fondato da Grillo è sempre stato un partito anomalo. Da una parte, aveva i tratti di un “partito-movimento”: forti istanze partecipative, meccanismi di democrazia diretta, controllo sugli eletti, meccanismi di rotazione delle cariche, ruolo della base (soprattutto a livello locale). Dall’altra, è stato sempre un “partito-azienda”, con un ruolo chiave di Grillo e della Casaleggio Associati nella selezione delle candidature, nella definizione dei programmi nazionali, nel mantenimento della disciplina interna, nella gestione della comunicazione. Il suo carattere “leninista” (un leninismo che però si riferisce solo alla forma-partito, non all’ideologia) è relativo proprio alla grande centralizzazione della macchina comunicativa e alla disciplina interna: se il vertice non avesse accentrato la gestione della comunicazione e se non avesse imposto con pugno di ferro il rispetto della linea (ricorrendo anche alle espulsioni), il M5S non sarebbe sopravvissuto al successo elettorale del 2013 e si sarebbe disgregato in varie componenti. Nel corso degli ultimi cinque anni, l’ingresso in Parlamento ha però modificato la fisionomia. Il “partito-movimento” è quasi scomparso (soprattutto a livello locale), sostituito invece dal partito degli eletti. La “legge ferrea” ha fatto emergere prima un “direttorio” di una manciata di deputati. La gerarchia interna è stata maggiormente formalizzata. E la necessità della competizione elettorale ha portato a identificare in Luigi Di Maio un “capo politico”, al quale è stato conferito un potere enorme sulle candidature, sui programmi, sulle alleanze. Questa “oligarchia” nata dentro le istituzioni non ha affatto intaccato la struttura del “partito-azienda”. Ma non è escluso che, prima o poi, possa verificarsi qualche attrito tra le due componenti.
Abbandonata la logica del “Niente alleanze” i 5 Stelle si stanno proponendo sia alla Lega che al Pd. In che modo la base elettorale del M5S potrebbe vivere questo passaggio?
Si tratta di un passaggio cruciale, che quasi certamente scontenterà molti sostenitori. Anche se il “compromesso” è inevitabile, soprattutto con un sistema elettorale in gran parte proporzionale, i partiti che abbiamo di fronte oggi – e soprattutto i 5 Stelle – non possono contare su una salda identificazione con i propri elettori, né tanto meno su un consolidato bagaglio “ideologico” o “subculturale”, come per esempio quello su cui facevano affidamento i partiti della “Prima Repubblica”. Per questo, qualsiasi alleanza facciano, l’eventuale ingresso in un governo di coalizione – anche al di là della performance dell’esecutivo – metterebbe a durissima prova la base di consenso del partito guidato da Di Maio. Anche se è molto improbabile che gli elettori che hanno deciso di votare per i pentastellati possano tornare alle precedenti collocazioni.
Lo scenario apparso finora più probabile è stato un’alleanza Lega-5Stelle. Eppure non le sembra che i due elettorati siano per certi aspetti espressione di “due Italie”, esemplificate nella duplice proposta del reddito di cittadinanza e della flat tax? Come potranno coesistere? Un Governo 5 Stelle sarebbe una buona notizia per il “ricco” Nord?
Personalmente rimango scettico sulla possibilità di un’alleanza Lega-5 Stelle. Senza dubbio ci sono differenze tra i due elettorati. Non penso però che le differenze sui programmi economici debbano essere enfatizzate, anche se è evidente che esse sono nette. Ovviamente la flat tax al 15% non è realizzabile (almeno in tempi rapidi), e anche il “reddito di cittadinanza” (che non è altro che un sussidio di disoccupazione) avrebbe costi che in questo momento non sembrano sostenibili. In altre parole, sono entrambi impegni a lungo termine. Ma proprio per questo Lega e 5 Stelle potrebbero rilanciare la loro realizzazione al futuro, puntando su altre cose e dunque “giustificando” il compromesso. Il punto è che, alleandosi con la Lega, Di Maio rischierebbe di alienarsi il consenso di quella fetta di elettori di sinistra e di centro-sinistra che probabilmente non sarebbe disposta a cedere su alcune questioni. Alleandosi con la Lega, i 5 Stelle perderebbero cioè la loro capacità di intercettare voti sia da destra, sia da sinistra. Più probabilmente, Lega e 5 Stelle hanno oggi la percezione di poter diventare i protagonisti di un nuovo bipolarismo. Ma un governo di coalizione farebbe tramontare subito questa prospettiva, a meno che non si formi un brevissimo governo “di scopo”. Un’ipotesi che, a mio avviso, rimane poco probabile.
E d’altra parte cosa ha in comune il M5S con il Pd?
Con il Pd il Movimento 5 Stelle ha in realtà in comune più di quanto possa sembrare. Il Pd renziano aveva di fatto recepito la battaglia contro la “casta” e i suoi privilegi. In campo internazionale e sulla stessa Unione europea, la linea di Di Maio è molto lontana da quella “euroscettica” di qualche tempo fa. E persino il “reddito di cittadinanza” non è del tutto incompatibile con alcune proposte (non maggioritarie) presenti nell’area del Pd. Ma la questione è che in questo momento il Pd non ha più né un’identità comune (se mai l’ha davvero avuta) né una linea programmatica unitaria. Alcuni guardano a Macron, mentre altri guardano al Labour di Corbyn. Il partito non sembra inoltre neppure in grado di esprimere una leadership adeguata alla situazione, anche perché la “rottamazione” e la leadership carismatica di Renzi costituiscono esperienze da cui è difficile tornare indietro. Per tutti questi motivi, al di là delle dichiarazioni sulla volontà di rimanere all’opposizione, il Pd sarà determinante per la formazione del governo. Anche se è molto probabile che esplodano le fratture interne maturate in questi anni.
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