Di
Damiano Palano
Nell’estate
del 1869 lo studente Sergej Nečaev lasciò la Svizzera, dove era scappato per
sottrarsi all’arresto della polizia zarista, e tornò in Russia. Un mandato di
Bakunin lo dichiarava rappresentante dell’«Unione rivoluzionaria mondiale», un’organizzazione
in realtà del tutto inesistente. Giunto a Mosca con una simile investitura, il
giovane riuscì a creare una piccola società segreta, formata per lo più da
studenti dell’Accademia agraria e sottomessa alle direttive di un fantomatico
«Comitato». Quando uno dei pochi affiliati, Ivàn Ivànovic Ivanov, si ribellò ai
suoi metodi autoritari, Nečaev decise di ucciderlo. E coinvolse nell’omicidio,
avvenuto il 21 novembre 1869, altri quattro membri della società, di cui in
quel modo intendeva cementare l’affiliazione. La brutalità dell’esecuzione e le
circostanze in cui era maturata conferirono un’immediata notorietà al caso,
anche perché nel corso delle indagini vennero alla luce alcuni documenti
teorici di Nečaev, che aprivano uno squarcio inquietante su un estremismo
completamente privo di morale e votato alla causa suicida della distruzione
della vecchia società. Nel primo articolo del Catechismo del rivoluzionario, probabilmente il testo più noto di
Nečaev, si leggeva infatti: «Il
rivoluzionario è un uomo perduto. Non ha interessi personali, né affari
privati, né sentimenti, né affetti, né proprietà, neppure un nome. Tutto in lui
è assorbito da un unico interesse esclusivo, da un unico pensiero, da un’unica
passione: la rivoluzione».
Nel
1977, mentre l’Italia entrava nella stagione più cupa del terrorismo, Vittorio
Strada, curando il volume di Aleksandr Herzen A un vecchio compagno, ricostruiva l’affaire Nečaev e soprattutto la discussione che la vicenda aveva innescato
tra gli intellettuali russi. A quarant’anni di distanza, nel suo nuovo libro Il dovere di uccidere. Le radici storiche
del terrorismo (Marsilio, pp. 203, euro 16.00), Strada torna ad
approfondire quelle riflessioni, mostrando che il «terrore» rappresentò quasi
una sorta di lacerante ossessione per la Russia tra Otto e Novecento. Destinato
a diventare celebre anche per la trasposizione letteraria che ne fece
Dostoevskij nei Demoni, il caso di
Nečaev fu d’altronde solo uno dei primi episodi di una lunga catena di
violenze. Il crescendo del terrorismo ebbe un primo momento culminante con
l’assassinio dello zar Alessandro II nel 1881. Ma divenne un fenomeno di massa nel
primo decennio del nuovo secolo, quando le vittime di attentati (che erano
state un centinaio nella seconda metà dell’Ottocento) divennero circa
diciassettemila. Più che le dinamiche della violenza politica, a Strada
interessa però la discussione che giunse a legittimare il ricorso all’azione terroristica.
Il terrorismo diventava – come scrisse Pëtr Tkačev, il teorico del giacobinismo
russo – l’«unico mezzo di rinascita morale e sociale» del paese. E la
fascinazione per questo strumento non rimase patrimonio solo delle formazioni
che si richiamavano alla tradizione populista, come il Partito socialista
rivoluzionario, responsabile dell’escalation di attentati dell’inizio del
Novecento. I bolscevichi ne ereditarono almeno alcune componenti. Dopo la
rivoluzione, come ricorda Strada, Bucharin esaltò per esempio la violenza come
strumento di una «costrizione extraeconomica» e come «metodo per fabbricare
l’umanità comunista col materiale umano dell’epoca capitalista». Ma, come
scrisse negli anni Venti Nikolaj Berdjaev, la giustificazione della violenza in
nome di un bene superiore finì con l’essere ripresa anche da avversari del
bolscevismo, come il filosofo Ivan Il’in. Si trattò senza dubbio, come scrive
Strada, di «una tragedia all’interno della tragedia vissuta da un intero popolo
e da un’intera epoca sotto il segno della violenza e del terrore». Ma non fu certo
solo una storia russa. Ed è forse per questo che ancora oggi – pur dinanzi a un
terrorismo dal volto molto diverso – quelle discussioni meritano di essere
lette.
Damiano Palano
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