di Damiano Palano
Questo stralcio è tratto da un saggio compreso nel volume "Destra" curato da Spartaco Puttini e Corrado Fumagalli (Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, pp. 160, euro 12.00).
Questo stralcio è tratto da un saggio compreso nel volume "Destra" curato da Spartaco Puttini e Corrado Fumagalli (Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, pp. 160, euro 12.00).
La maggioranza silenziosa di cui parlava Baudrillard quarant’anni fa era una prima prefigurazione dell’audience che – secondo l’efficace formula avanzata da Bernard Manin alla metà degli anni novanta – sarebbe diventata la principale destinataria dei messaggi dei leader politici dopo la crisi della “democrazia dei partiti” (Manin 1997). Quando Manin formulò la propria proposta, nel corso degli anni novanta, le democrazie mature vivevano il momento culminante della “fine della Storia”. Sconfitte tutte le alternative al progetto liberaldemocratico (e soprattutto l’alternativa socialista), e scomparsi dalla scena (o ridotti all’irrilevanza) i vecchi partiti antisistema, il “pubblico” protagonista delle scelte democratiche poteva apparire in fondo come il composto osservatore di una competizione politica sostanzialmente “centripeta”, nella quale la vittoria elettorale sembrava dipendere dalla conquista dal voto dell’elettore mediano, collocato al centro dello spettro politico e indeciso tra destra e sinistra. E la maggioranza silenziosa – pur irrappresentabile politicamente – pareva essere la severa custode della stabilità politica, contro ogni estremismo.
Vent’anni dopo le cose sono invece molto diverse. Lo stesso Manin ha riconosciuto che l’ipotesi della democrazia del pubblico sopravvalutava la portata dell’erosione dell’identificazione partitica, che, per quanto si sia col tempo certo indebolita, non è però del tutto svanita, o è stata sostituita da altre forme di identificazione (per esempio con il leader). Ma il punto principale è che – dopo l’esplosione della crisi del 2008 – il “pubblico” delle democrazie occidentali si è dimostrato molto più radicale di quanto si fosse pensato. E la maggioranza silenziosa – pur sempre recalcitrante rispetto a ogni stabile rappresentazione – si è rivelata spesso disposta concedere il proprio sostegno elettorale a partiti radicali o addirittura estremisti (almeno secondo i parametri dell’ultimo trentennio). La discussione sulle trasformazioni delle nostre democrazie è naturalmente destinata a proseguire a lungo. Ma è comunque difficile negare che nel corso dell’ultimo decennio la gran parte delle democrazie occidentali sia stata attraversata da forti tensioni, che si sono tradotte nella nascita e nel successo di nuove formazioni politiche, capaci in alcuni casi di far registrare notevoli performance elettorali. La gran parte dei nuovi partiti viene spesso ricondotta alla famiglia populista, ma si tratta di una classificazione non priva di problemi. […] Per quanto esista una differenza fra la tradizione della destra radicale ed il profilo delle nuove formazioni populiste, e nonostante si possano ravvisare anche esperienze politico-ideologiche espressione di un populismo di sinistra, si possono però nutrire ben pochi dubbi sul fatto che la gran parte delle compagini populiste (o neopopuliste) contemporanee si collochi nello spettro politico contemporaneo sul versante di destra. […] Al di là della definizione dei tratti specifici del populismo autoritario o di destra, l’ascesa dei movimenti e dei leader riconducibili a questa famiglia può essere studiata da diversi punti di vista, che considerano per esempio le tendenze populiste come conseguenza della trasformazione dell’offerta politica, del ricorso a determinati strumenti retorici da parte della classe politica, delle modificazioni tecnologiche che investono la relazione tra leader e masse, della presidenzializzazione che coinvolge buona parte dei sistemi politici occidentali, del ruolo che i sistemi elettorali esercitano sull’andamento della competizione politica.
Ma, naturalmente, quel successo può essere anche studiato ponendo lo sguardo principalmente sui settori sociali che sono particolarmente sensibili alle proposte populiste (e nazional-populiste). In questo caso, si tratta dunque di chiedersi chi compone la maggioranza silenziosa che guarda verso il populismo di destra. Sono gli strati sociali spinti ai margini dai processi di globalizzazione? O a dare forza a quella protesta è una reazione culturale ai valori dell’establishment? O le motivazioni che rendono la maggioranza silenziosa sensibile al richiamo della destra vanno cercate altrove? Ovviamente allo stato attuale sarebbe ingenuo ritenere di poter dare risposte definitive, ma una serie di indagini ci consentono di cogliere alcune tendenze.
La maggioranza silenziosa di cui parlava Baudrillard quarant’anni fa era una prima prefigurazione dell’audience che – secondo l’efficace formula avanzata da Bernard Manin alla metà degli anni novanta – sarebbe diventata la principale destinataria dei messaggi dei leader politici dopo la crisi della “democrazia dei partiti” (Manin 1997). Quando Manin formulò la propria proposta, nel corso degli anni novanta, le democrazie mature vivevano il momento culminante della “fine della Storia”. Sconfitte tutte le alternative al progetto liberaldemocratico (e soprattutto l’alternativa socialista), e scomparsi dalla scena (o ridotti all’irrilevanza) i vecchi partiti antisistema, il “pubblico” protagonista delle scelte democratiche poteva apparire in fondo come il composto osservatore di una competizione politica sostanzialmente “centripeta”, nella quale la vittoria elettorale sembrava dipendere dalla conquista dal voto dell’elettore mediano, collocato al centro dello spettro politico e indeciso tra destra e sinistra. E la maggioranza silenziosa – pur irrappresentabile politicamente – pareva essere la severa custode della stabilità politica, contro ogni estremismo.
Vent’anni dopo le cose sono invece molto diverse. Lo stesso Manin ha riconosciuto che l’ipotesi della democrazia del pubblico sopravvalutava la portata dell’erosione dell’identificazione partitica, che, per quanto si sia col tempo certo indebolita, non è però del tutto svanita, o è stata sostituita da altre forme di identificazione (per esempio con il leader). Ma il punto principale è che – dopo l’esplosione della crisi del 2008 – il “pubblico” delle democrazie occidentali si è dimostrato molto più radicale di quanto si fosse pensato. E la maggioranza silenziosa – pur sempre recalcitrante rispetto a ogni stabile rappresentazione – si è rivelata spesso disposta concedere il proprio sostegno elettorale a partiti radicali o addirittura estremisti (almeno secondo i parametri dell’ultimo trentennio). La discussione sulle trasformazioni delle nostre democrazie è naturalmente destinata a proseguire a lungo. Ma è comunque difficile negare che nel corso dell’ultimo decennio la gran parte delle democrazie occidentali sia stata attraversata da forti tensioni, che si sono tradotte nella nascita e nel successo di nuove formazioni politiche, capaci in alcuni casi di far registrare notevoli performance elettorali. La gran parte dei nuovi partiti viene spesso ricondotta alla famiglia populista, ma si tratta di una classificazione non priva di problemi. […] Per quanto esista una differenza fra la tradizione della destra radicale ed il profilo delle nuove formazioni populiste, e nonostante si possano ravvisare anche esperienze politico-ideologiche espressione di un populismo di sinistra, si possono però nutrire ben pochi dubbi sul fatto che la gran parte delle compagini populiste (o neopopuliste) contemporanee si collochi nello spettro politico contemporaneo sul versante di destra. […] Al di là della definizione dei tratti specifici del populismo autoritario o di destra, l’ascesa dei movimenti e dei leader riconducibili a questa famiglia può essere studiata da diversi punti di vista, che considerano per esempio le tendenze populiste come conseguenza della trasformazione dell’offerta politica, del ricorso a determinati strumenti retorici da parte della classe politica, delle modificazioni tecnologiche che investono la relazione tra leader e masse, della presidenzializzazione che coinvolge buona parte dei sistemi politici occidentali, del ruolo che i sistemi elettorali esercitano sull’andamento della competizione politica.
Ma, naturalmente, quel successo può essere anche studiato ponendo lo sguardo principalmente sui settori sociali che sono particolarmente sensibili alle proposte populiste (e nazional-populiste). In questo caso, si tratta dunque di chiedersi chi compone la maggioranza silenziosa che guarda verso il populismo di destra. Sono gli strati sociali spinti ai margini dai processi di globalizzazione? O a dare forza a quella protesta è una reazione culturale ai valori dell’establishment? O le motivazioni che rendono la maggioranza silenziosa sensibile al richiamo della destra vanno cercate altrove? Ovviamente allo stato attuale sarebbe ingenuo ritenere di poter dare risposte definitive, ma una serie di indagini ci consentono di cogliere alcune tendenze.
Damiano Palano
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