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mercoledì 14 marzo 2018

Se l’ordine internazionale liberale cola a picco per voluta mancanza di regole. "Titanic" di Vittorio E. Parsi


di Damiano Palano

Questa recensione al nuovo libro di Vittorio Emanuele Parsi, Titanic. Il naufragio dell'ordine liberale (Il Mulino, euro 16.00), è apparsa su "Avvenire" il 14 marzo 2018.

Nel gennaio 1941, mentre il Vecchio continente sprofondava nella barbarie della Seconda guerra mondiale, Franklin Delano Roosevelt pronunciò quello che fu subito definito il Discorso delle quattro libertà. In quell’occasione il presidente americano affermò la necessità di garantire, per tutti i popoli del mondo, la libertà di parola e di culto, ma anche la libertà dal bisogno e dalla paura. E, soprattutto, fissò gli elementi di quello che, dopo il conflitto, sarebbe diventato l’ordine internazionale liberale: un ordine capace di offrire basi più solide alla pace, grazie a una nuova organizzazione sovranazionale e mediante strumenti volti a favorire gli scambi economici e la stabilità dei cambi. Imperniato sull’egemonia di Washington, l’ordine internazionale liberale iniziò effettivamente a prendere forma già nell’ultima fase della guerra e si tradusse in un’architettura fondata su cinque istituzioni principali: le Nazioni Unite, il Fondo monetario internazionale, la Banca Mondiale, l’Accordo generale sulle tariffe e sul commercio (molto più tardi sostituito dall’Organizzazione mondiale del commercio) e l’Alleanza Atlantica. Naturalmente quella sorta di ‘New Deal globale’ che si delineò a Bretton Woods nel 1944 non coinvolse davvero tutto il mondo, perché ne rimasero sostanzialmente esclusi tutti i paesi del socialismo reale. Alimentandosi anche della contrapposizione con il blocco sovietico, garantì comunque all’Occidente quasi cinquant’anni di crescita economica, di prosperità e di pace. 
Ma proprio nel momento del maggiore successo – come sostiene Vittorio Emanuele Parsi nel suo appassionato Titanic. Il naufragio dell’ordine liberale (Il Mulino, pp. 219, euro 16.00) – le cose iniziarono a cambiare. Il 9 novembre 1989, quando il muro che divideva le due Germanie si dissolse, secondo Parsi anche l’architettura dell’ordine internazionale liberale iniziò infatti a sgretolarsi. Da quel momento le istituzioni varate a Bretton Woods furono progressivamente estese al mondo intero, ma incominciò a venire meno contestualmente un tassello cruciale del progetto originario. La costruzione del mercato globale era cioè perseguita mediante lo smantellamento delle regole che avrebbero dovuto organizzare (e vincolare) i nuovi flussi di merci e capitali. E oggi possiamo vedere le conseguenze negative di quel processo, che sono principalmente la concentrazione delle ricchezze e la crisi del ceto medio. «La promessa di una società più ricca di opportunità», scrive Parsi, è stata dunque «tradita a vantaggio di pochi». E, più in generale, sono state vanificate tutte le attese riposte dopo il 1989 nel nuovo «ordine mondiale». Un ordine che, dopo l’11 settembre, non si è certo rivelato più sicuro, e che ha finito anche col mettere in crisi il patto tra economia capitalista e democrazia politica.
Come il Titanic, l’ordine liberale si trova secondo Parsi a navigare in un mare sempre più minaccioso. Le insidie principali vengono sistematicamente passate in rassegna nel volume, che rappresenta per questo una preziosa bussola per orientarsi nella transizione. E sono innanzitutto la nuova distribuzione della potenza, che emerge dall’ascesa di protagonisti inediti (come ovviamente la Cina), la polverizzazione delle minacce, di cui il fenomeno terroristico è solo l’aspetto più visibile, e la tendenza degli stessi Stati Uniti a contestate le regole dell’ordine liberale (per esempio, come sta facendo Trump, adottando misure protezioniste). Ma agli occhi di Parsi il rischio maggiore viene proprio dal cuore dell’Occidente. Ed è la deriva di democrazie che «sembrano incapaci di mantenere la propria rotta, strette tra i mentori di un populismo identitario e sovranista e i cantori dell’oligarchia apolide e tecnocratica».
Il quadro che Parsi dipinge è piuttosto fosco, e la scelta del titolo è d’altronde piuttosto significativa. Ma il politologo lascia intravedere anche lo spazio per una possibile inversione di tendenza. All’interno dell’Unione europea, il riequilibrio del rapporto tra democrazia e mercato – e tra le ragioni della solidarietà e quelle della produttività – potrebbe infatti passare da una riarticolazione delle sovranità nazionali. Non per inseguire ambizioni protezioniste, ma per rispondere più efficacemente all’instabilità che il sistema internazionale scarica proprio sui singoli Stati. Il rafforzamento della sovranità che Parsi auspica richiede però condizioni che non sono così scontate. Non solo (e non tanto) perché non è detto che tutti gli Stati abbiano le risorse strutturali necessarie per adempiere a questo compito. Ma anche perché non è così certo che la classe politica sempre più debole e delegittimata che guida oggi le democrazie europee abbia la capacità, la forza e anche il coraggio necessari per raddrizzare il timone. E per portare in salvo il nostro Titanic.

 Damiano Palano




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