di
Damiano Palano
Questa recensione al nuovo libro di Vittorio Emanuele Parsi, Titanic. Il naufragio dell'ordine liberale (Il Mulino, euro 16.00), è apparsa su "Avvenire" il 14 marzo 2018.
Nel
gennaio 1941, mentre il Vecchio continente sprofondava nella barbarie della
Seconda guerra mondiale, Franklin Delano Roosevelt pronunciò quello che fu
subito definito il Discorso delle quattro
libertà. In quell’occasione il presidente americano affermò la necessità di
garantire, per tutti i popoli del mondo, la libertà di parola e di culto, ma
anche la libertà dal bisogno e dalla paura. E, soprattutto, fissò gli elementi
di quello che, dopo il conflitto, sarebbe diventato l’ordine internazionale
liberale: un ordine capace di offrire basi più solide alla pace, grazie a una
nuova organizzazione sovranazionale e mediante strumenti volti a favorire gli
scambi economici e la stabilità dei cambi. Imperniato sull’egemonia di
Washington, l’ordine internazionale liberale iniziò effettivamente a prendere
forma già nell’ultima fase della guerra e si tradusse in un’architettura
fondata su cinque istituzioni principali: le Nazioni Unite, il Fondo monetario
internazionale, la Banca Mondiale, l’Accordo generale sulle tariffe e sul
commercio (molto più tardi sostituito dall’Organizzazione mondiale del
commercio) e l’Alleanza Atlantica. Naturalmente quella sorta di ‘New Deal
globale’ che si delineò a Bretton Woods nel 1944 non coinvolse davvero tutto il
mondo, perché ne rimasero sostanzialmente esclusi tutti i paesi del socialismo
reale. Alimentandosi anche della contrapposizione con il blocco sovietico,
garantì comunque all’Occidente quasi cinquant’anni di crescita economica, di
prosperità e di pace.
Ma proprio nel momento del maggiore successo – come
sostiene Vittorio Emanuele Parsi nel suo appassionato Titanic. Il naufragio dell’ordine liberale (Il Mulino, pp. 219,
euro 16.00) – le cose iniziarono a cambiare. Il 9 novembre 1989, quando il muro
che divideva le due Germanie si dissolse, secondo Parsi anche l’architettura
dell’ordine internazionale liberale iniziò infatti a sgretolarsi. Da quel
momento le istituzioni varate a Bretton Woods furono progressivamente estese al
mondo intero, ma incominciò a venire meno contestualmente un tassello cruciale
del progetto originario. La costruzione del mercato globale era cioè perseguita
mediante lo smantellamento delle regole che avrebbero dovuto organizzare (e vincolare)
i nuovi flussi di merci e capitali. E oggi possiamo vedere le conseguenze
negative di quel processo, che sono principalmente la concentrazione delle
ricchezze e la crisi del ceto medio. «La promessa di una società più ricca di
opportunità», scrive Parsi, è stata dunque «tradita a vantaggio di pochi». E,
più in generale, sono state vanificate tutte le attese riposte dopo il 1989 nel
nuovo «ordine mondiale». Un ordine che, dopo l’11 settembre, non si è certo rivelato
più sicuro, e che ha finito anche col mettere in crisi il patto tra economia
capitalista e democrazia politica.
Come il Titanic, l’ordine
liberale si trova secondo Parsi a navigare in un mare sempre più minaccioso. Le
insidie principali vengono sistematicamente passate in rassegna nel volume, che
rappresenta per questo una preziosa bussola per orientarsi nella transizione. E
sono innanzitutto la nuova distribuzione della potenza, che emerge dall’ascesa
di protagonisti inediti (come ovviamente la Cina), la polverizzazione delle
minacce, di cui il fenomeno terroristico è solo l’aspetto più visibile, e la
tendenza degli stessi Stati Uniti a contestate le regole dell’ordine liberale
(per esempio, come sta facendo Trump, adottando misure protezioniste). Ma agli
occhi di Parsi il rischio maggiore viene proprio dal cuore dell’Occidente. Ed è
la deriva di democrazie che «sembrano incapaci di mantenere la propria rotta,
strette tra i mentori di un populismo identitario e sovranista e i cantori
dell’oligarchia apolide e tecnocratica».
Il quadro che Parsi dipinge è
piuttosto fosco, e la scelta del titolo è d’altronde piuttosto significativa.
Ma il politologo lascia intravedere anche lo spazio per una possibile
inversione di tendenza. All’interno dell’Unione europea, il riequilibrio del
rapporto tra democrazia e mercato – e tra le ragioni della solidarietà e quelle
della produttività – potrebbe infatti passare da una riarticolazione delle sovranità
nazionali. Non per inseguire ambizioni protezioniste, ma per rispondere più
efficacemente all’instabilità che il sistema internazionale scarica proprio sui
singoli Stati. Il rafforzamento della sovranità che Parsi auspica richiede però
condizioni che non sono così scontate. Non solo (e non tanto) perché non è detto
che tutti gli Stati abbiano le risorse strutturali necessarie per adempiere a
questo compito. Ma anche perché non è così certo che la classe politica sempre
più debole e delegittimata che guida oggi le democrazie europee abbia la
capacità, la forza e anche il coraggio necessari per raddrizzare il timone. E per
portare in salvo il nostro Titanic.
Damiano Palano
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