di
Damiano Palano
«La
sovranità viene dal popolo, ma non torna più indietro». Questa vecchia battuta
riassume in fondo l’essenza della retorica che negli ultimi anni ci siamo
abituati a chiamare «populista». I leader e i movimenti che sfidano l’establishment
si proclamano infatti portavoce del popolo ‘tradito’: un popolo al quale una
minoranza – di volta in volta, le élite economiche, la classe politica, la
«cricca» della burocrazia, la tecnocrazia – ha sottratto lo scettro del potere.
Alle molte analisi che hanno tentato di interpretare il fenomeno si aggiunge
ora quella proposta da Ilvo Diamanti e Marc Lazar nel loro Popolocrazia. La metamorfosi delle nostre democrazie Laterza, pp.
163, euro 15.00). I due politologi si concentrano in special modo sull’Italia e
la Francia, senza però rinunciare a individuare delle tendenze generali, che
sarebbero destinate a modificare i tratti dei nostri sistemi politici.
E sostengono innanzitutto – in contrasto per esempio con quanto sostengono due studiosi del fenomeno come Cas Mudde e Jan-Werner Müller – che il populismo non può essere considerato come un’ideologia, e neppure come un’ideologia «sottile». Si tratta piuttosto di una «sindrome», o anche – come ha suggerito Pierre-André Taguieff – di «uno stile politico suscettibile di dare forma a diversi materiali simbolici». Ma quando propongono il neologismo «popolocrazia», Diamanti e Lazar intendono soprattutto riferirsi a una trasformazione che scaturisce da due processi paralleli. In primo luogo, si tratta di un effetto dell’ascesa dei movimenti populisti, che criticano la democrazia rappresentativa in nome di un popolo sovrano, sacralizzato, mitizzato e defraudato da élite corrotte. In secondo luogo, la «popolocrazia» è legata strettamente alla metamorfosi della democrazia rappresentativa, prodotta – oltre che dalla critica ai partiti e al Parlamento – dalle possibilità di connettersi ‘orizzontalmente’ fornite dai nuovi media. A emergere dalla crisi dei corpi intermedi, dalla disaffezione verso le organizzazioni della rappresentanza, dall’attacco agli «esperti» è dunque «una società ‘im-mediata’, ostile a ogni mediazione con i governi e i poteri». E in questo contesto la sfiducia diventa la principale risorsa su cui far leva per conquistare voti e spazi d’azione politica. La «popolocrazia» è allora un sistema che ‘istituzionalizza’ una serie di tendenze: la personalizzazione dei partiti e dei sistemi di governo, l’ascesa di metodi di comunicazione ‘orizzontali’ e l’adozione da parte di tutti gli attori dello stile populista. Ed è principalmente un assetto in cui il populismo «diventa una cifra sociale e culturale» capace di insinuarsi in ogni ambito e in ogni organizzazione.
E sostengono innanzitutto – in contrasto per esempio con quanto sostengono due studiosi del fenomeno come Cas Mudde e Jan-Werner Müller – che il populismo non può essere considerato come un’ideologia, e neppure come un’ideologia «sottile». Si tratta piuttosto di una «sindrome», o anche – come ha suggerito Pierre-André Taguieff – di «uno stile politico suscettibile di dare forma a diversi materiali simbolici». Ma quando propongono il neologismo «popolocrazia», Diamanti e Lazar intendono soprattutto riferirsi a una trasformazione che scaturisce da due processi paralleli. In primo luogo, si tratta di un effetto dell’ascesa dei movimenti populisti, che criticano la democrazia rappresentativa in nome di un popolo sovrano, sacralizzato, mitizzato e defraudato da élite corrotte. In secondo luogo, la «popolocrazia» è legata strettamente alla metamorfosi della democrazia rappresentativa, prodotta – oltre che dalla critica ai partiti e al Parlamento – dalle possibilità di connettersi ‘orizzontalmente’ fornite dai nuovi media. A emergere dalla crisi dei corpi intermedi, dalla disaffezione verso le organizzazioni della rappresentanza, dall’attacco agli «esperti» è dunque «una società ‘im-mediata’, ostile a ogni mediazione con i governi e i poteri». E in questo contesto la sfiducia diventa la principale risorsa su cui far leva per conquistare voti e spazi d’azione politica. La «popolocrazia» è allora un sistema che ‘istituzionalizza’ una serie di tendenze: la personalizzazione dei partiti e dei sistemi di governo, l’ascesa di metodi di comunicazione ‘orizzontali’ e l’adozione da parte di tutti gli attori dello stile populista. Ed è principalmente un assetto in cui il populismo «diventa una cifra sociale e culturale» capace di insinuarsi in ogni ambito e in ogni organizzazione.
Probabilmente il
neologismo che Diamanti e Lazar propongono non piacerà a tutti. Nell’accezione
originaria della parola «democrazia» erano infatti già impliciti molti degli
elementi che dovrebbero qualificare la nuova «popolocrazia», se non altro
perché il demos nell’Atene del VI e V
secolo era inteso in contrapposizione con le élite privilegiate. E l’«appello
al popolo», cui ricorrono oggi molti leader e movimenti alla ricerca di
consensi, non è dunque un elemento nuovo. Anzi, si tratta probabilmente di un
tassello costitutivo – insieme ad altri – di quell’insieme di dottrine,
aspirazioni e pratiche che hanno costituito soprattutto nel corso degli ultimi
tre secoli l’ideologia democratica. Ma non c’è dubbio che la loro analisi
fotografi in modo efficace lo stato delle nostre democrazie. Nella «società
della sfiducia», l’appello al popolo sembra infatti diventare davvero l’unica
risorsa di legittimazione su cui gli attori politici possono contare. Per
capire dove stiamo andando sarebbe comunque necessario anche interrogarsi sulle
radici da cui nasce la sfiducia. Dovremmo per esempio chiederci se la critica indirizzata
all’establishment (nelle sue diverse forme) scaturisca solo da motivazioni
‘congiunturali’, come la crisi economica, o non abbia invece cause più
profonde, come per esempio lo sviluppo di un’attitudine ‘critica’, che spinge
il cittadino postmoderno a diffidare di ogni autorità.
Ma c’è anche un’altra
questione che varrebbe la pena affrontare. Per Diamanti e Lazar la
«popolocrazia» è in fondo una trasformazione che dilata ulteriormente i tratti
di quella che il politologo francese Bernard Manin definì «democrazia del
pubblico»: una democrazia in cui le identificazioni partitiche si dissolvono e
in cui i leader si rivolgono agli elettori come al pubblico di un teatro,
avanzando proposte in cerca di un applauso (ossia del voto). Al di là
dell’efficacia della formula, molti ritengono che le cose siano però un po’
diverse. Le appartenenze ideologiche e partitiche sono effettivamente in crisi da
trent’anni, ma l’elettorato non è diventato davvero un pubblico omogeneo. Le
identificazioni (magari solo negative, cioè ‘contro’ qualcuno e qualcosa)
continuano cioè a orientare le scelte dei cittadini. E paradossalmente – pur in
assenza di ideologie – tali identità tendono a diventare negli ultimi anni ancora
più marcate. Lo stesso utilizzo di strumenti ‘orizzontali’ come i social
network sembra inoltre rafforzare questa tendenza, contribuendo a spingere i
sistemi politici occidentali verso una crescente polarizzazione. Invece di
assomigliare a un pubblico omogeneo, l’elettorato delle nostre democrazie
sembra allora composto da tanti segmenti autoreferenziali. E forse anche per
questo l’«appello al popolo» tende ad assumere toni sempre più radicali.
Damiano Palano
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