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venerdì 2 marzo 2018

Paura in serie. Un libro di Dominique Moïsi sulla geopolitica delle serie




Di Damiano Palano

Questa recensione  a D. Moïsï, Geopolitica delle serie tv. Il trionfo della paura, Armando, Roma, 2017, è apparsa su "Avvenire" il 17 febbraio 2018.

Negli anni della Guerra fredda i film di Hollywood si rivelarono un formidabile strumento del soft power di Washington. Quelle pellicole diffondevano, più che una vera e propria ideologia, le immagini seducenti di un nuovo ‘stile di vita’. Perché rappresentavano un mondo in cui chiunque – come i protagonisti delle commedie americane – poteva godere dei benefici del progresso tecnologico, abitare in case confortevoli e guidare automobili sportive. Naturalmente si trattava di una raffigurazione quantomeno edulcorata. Ma ciò nonostante proprio quelle immagini rappresentarono, nella contrapposizione contro l’impero sovietico, un’arma per molti versi persino più insidiosa di quella rappresentata dall’hard power, e cioè dalla forza militare e dal potere di ‘costringere’. Oggi le cose sono piuttosto differenti. Forse perché il cinema non ha più quel potere seduttivo che ebbe a lungo nel corso del Novecento. Ma anche per i motivi che considera Dominique Moïsi nel suo volume La geopolitica delle serie tv. Il trionfo della paura (Armando, pp. 143, euro. 15.00). Il politologo francese esamina infatti un campione rilevante di serie televisive, nella convinzione che proprio questo genere abbia sostituito negli ultimi quindici anni ciò che il cinema era stato nel secolo scorso. Anzi, secondo Moïsi le serie tv mostrano spesso – se non certo in tutti i casi – una capacità superiore di intercettare gli stati d’animo della società e le ansie del mondo. Lo studioso considera d’altronde le serie tv da una prospettiva specifica, che pone in primo piano la dimensione geopolitica. A suo avviso questi prodotti, qualitativamente spesso molto raffinati, offrono uno strumento indispensabile per capire «le emozioni del mondo», per anticipare il futuro e anche per ricostruire – in modo più o meno idealizzato – il nostro passato (a partire dalle nostre ossessioni presenti).

Delle numerose serie prodotte negli ultimi anni, in realtà Moïsi esamina un campione molto ridotto, che comprende Trono di spade, Downton Abbey, House of Cards, Homeland, Occupied e Balance of Power. Per quanto limitato, il sondaggio consente al politologo di formulare un’ipotesi interessante. Se le serie televisive di oggi continuano a riflettere la visione americana del mondo (benché non tutte siano prodotte a Hollywood), non sono più degli strumenti di soft power. Per alcuni versi, le serie televisive diventano anzi il canale di diffusione di una sorta di egemonia culturale a rovescio, nel senso che diffondono la paura di un mondo in declino. Secondo Moïsi le serie tv hanno cioè attinto a piene mani allo Zeitgeist diffusosi dopo il trauma dell’11 settembre, quando all’improvviso, dopo l’entusiasmo riposto nella globalizzazione, iniziò a crollare la speranza nel futuro. E proprio per questo riflettono una visione ‘realista’ del mondo, qualche volta addirittura cinica, in ogni caso molto distante dall’ottimismo un po’ ingenuo delle classiche pellicole americane.

L’annuncio dell’arrivo dell’inverno in Trono di spade è da questo punto di vista considerato come la metafora della violenza e della decadenza morale, percepite come incombenti sull’Occidente. Mentre la celebre frase del protagonista di House of Cards Frank Undwerwood – secondo cui «la democrazia è davvero sopravvalutata» – fornirebbe la raffigurazione plastica della sfiducia nelle istituzioni che attraversa le nostre società. Negli intrighi di House of Cards il sogno americano è infatti definitivamente fatto a pezzi, perché tutti sono corrotti, cinici, calcolatori e ossessionati dal potere. Ma il punto – osserva Moïsi – è che in questo modo non si riflette soltanto il malessere americano: si contribuisce anche a crearlo e a diffonderlo. Questa sorta di soft power a rovescio nutre cioè il cinismo e la disaffezione che alimentano i populismi. E inoltre autorizza i leader dei regimi autoritari a presentare i rituali la democrazia americana solo come un travestimento retorico, dietro cui si celano lotte personali tra politici senza scrupoli.

La lettura di Moïsi è senz’altro interessante, ma non può che rappresentare solo una prima esplorazione nell’immaginario ‘geopolitico’ delle serie, probabilmente molto più complesso di quanto possa sembrare. Per esempio, dall’esame del politologo francese rimane esclusa quella che alcuni mediologi hanno chiamato la zombie-renaissance, ossia la straordinaria fortuna che dopo l’11 settembre hanno incontrato i ‘vecchi’ «morti viventi» inventati da George A. Romero negli anni Sessanta. Ma non vengono neppure considerate le inquietudini legate agli utilizzi e alle implicazioni delle nuove tecnologie, al centro di una serie come Black Mirror. Ed è invece anche esplorando queste produzioni che probabilmente si può completare la mappa delle «emozioni del mondo».

Damiano Palano




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