Di Damiano Palano
Questa recensione a D. Moïsï, Geopolitica delle
serie tv. Il trionfo della paura, Armando, Roma, 2017, è apparsa su "Avvenire" il 17 febbraio 2018.
Negli
anni della Guerra fredda i film di Hollywood si rivelarono un formidabile
strumento del soft power di
Washington. Quelle pellicole diffondevano, più che una vera e propria
ideologia, le immagini seducenti di un nuovo ‘stile di vita’. Perché
rappresentavano un mondo in cui chiunque – come i protagonisti delle commedie
americane – poteva godere dei benefici del progresso tecnologico, abitare in
case confortevoli e guidare automobili sportive. Naturalmente si trattava di una
raffigurazione quantomeno edulcorata. Ma ciò nonostante proprio quelle immagini
rappresentarono, nella contrapposizione contro l’impero sovietico, un’arma per
molti versi persino più insidiosa di quella rappresentata dall’hard power, e cioè dalla forza militare
e dal potere di ‘costringere’. Oggi le cose sono piuttosto differenti. Forse
perché il cinema non ha più quel potere seduttivo che ebbe a lungo nel corso
del Novecento. Ma anche per i motivi che considera Dominique Moïsi nel suo volume
La geopolitica delle serie tv. Il trionfo
della paura (Armando, pp. 143, euro. 15.00). Il politologo francese esamina
infatti un campione rilevante di serie televisive, nella convinzione che
proprio questo genere abbia sostituito negli ultimi quindici anni ciò che il
cinema era stato nel secolo scorso. Anzi, secondo Moïsi le serie tv mostrano
spesso – se non certo in tutti i casi – una capacità superiore di intercettare
gli stati d’animo della società e le ansie del mondo. Lo studioso considera d’altronde
le serie tv da una prospettiva specifica, che pone in primo piano la dimensione
geopolitica. A suo avviso questi prodotti, qualitativamente spesso molto
raffinati, offrono uno strumento indispensabile per capire «le emozioni del
mondo», per anticipare il futuro e anche per ricostruire – in modo più o meno
idealizzato – il nostro passato (a partire dalle nostre ossessioni presenti).
Delle numerose serie prodotte
negli ultimi anni, in realtà Moïsi esamina un campione molto ridotto, che comprende
Trono di spade, Downton Abbey, House of Cards,
Homeland, Occupied e Balance of Power.
Per quanto limitato, il sondaggio consente al politologo di formulare
un’ipotesi interessante. Se le serie televisive di oggi continuano a riflettere
la visione americana del mondo (benché non tutte siano prodotte a Hollywood),
non sono più degli strumenti di soft
power. Per alcuni versi, le serie televisive diventano anzi il canale di
diffusione di una sorta di egemonia culturale a rovescio, nel senso che
diffondono la paura di un mondo in declino. Secondo Moïsi le serie tv hanno cioè
attinto a piene mani allo Zeitgeist
diffusosi dopo il trauma dell’11 settembre, quando all’improvviso, dopo
l’entusiasmo riposto nella globalizzazione, iniziò a crollare la speranza nel
futuro. E proprio per questo riflettono una visione ‘realista’ del mondo, qualche
volta addirittura cinica, in ogni caso molto distante dall’ottimismo un po’
ingenuo delle classiche pellicole americane.
L’annuncio dell’arrivo
dell’inverno in Trono di spade è da
questo punto di vista considerato come la metafora della violenza e della
decadenza morale, percepite come incombenti sull’Occidente. Mentre la celebre
frase del protagonista di House of Cards
Frank Undwerwood – secondo cui «la democrazia è davvero sopravvalutata» – fornirebbe
la raffigurazione plastica della sfiducia nelle istituzioni che attraversa le
nostre società. Negli intrighi di House
of Cards il sogno americano è infatti definitivamente fatto a pezzi, perché
tutti sono corrotti, cinici, calcolatori e ossessionati dal potere. Ma il punto
– osserva Moïsi – è che in questo modo non si riflette soltanto il malessere
americano: si contribuisce anche a crearlo e a diffonderlo. Questa sorta di soft power a rovescio nutre cioè il
cinismo e la disaffezione che alimentano i populismi. E inoltre autorizza i
leader dei regimi autoritari a presentare i rituali la democrazia americana
solo come un travestimento retorico, dietro cui si celano lotte personali tra
politici senza scrupoli.
La lettura di Moïsi è
senz’altro interessante, ma non può che rappresentare solo una prima esplorazione
nell’immaginario ‘geopolitico’ delle serie, probabilmente molto più complesso
di quanto possa sembrare. Per esempio, dall’esame del politologo francese
rimane esclusa quella che alcuni mediologi hanno chiamato la zombie-renaissance, ossia la
straordinaria fortuna che dopo l’11 settembre hanno incontrato i ‘vecchi’
«morti viventi» inventati da George A. Romero negli anni Sessanta. Ma non
vengono neppure considerate le inquietudini legate agli utilizzi e alle
implicazioni delle nuove tecnologie, al centro di una serie come Black Mirror. Ed è invece anche esplorando
queste produzioni che probabilmente si può completare la mappa delle «emozioni
del mondo».
Damiano Palano
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