di Damiano Palano
Questa recensione al volumetto di Pierre Rosanvallon Pensare il populismo (Castelvecchi, pp. 40, euro 5.00), è uscito su "Avvenire" il 16 gennaio 2018.
Nel
maggio 1967, in occasione di un celebre convegno organizzato presso la London
School of Economics, Isaiah Berlin osservò che il dibattito sul populismo
rischiava di rimanere vittima del «complesso di Cenerentola», perché gli
studiosi sembravano sempre vagare alla ricerca di un caso paradigmatico di
populismo, capace di calzare perfettamente la ‘scarpetta’ di una definizione
teorica. La formula di Berlin coglieva in effetti un punto fortemente
problematico, e d’altronde anche oggi, a mezzo secolo di distanza, l’oggetto
«populismo» appare persino più sfuggente di quanto non risultasse allora.
La
discussione su cosa sia davvero il populismo, e su quali siano i casi storici
da avvicinare all’«essenza» del fenomeno, si protrae infatti da decenni senza
giungere a soluzioni condivise. In questo dibattito si inserisce anche il
volumetto di Pierre Rosanvallon Pensare
il populismo (Castelvecchi, pp. 40, euro 5.00), che rappresenta un altro
piccolo tassello della riflessione dedicata dallo studioso francese alle
trasformazioni della democrazia. Da più di trent’anni Rosanvallon è infatti
impegnato a scrivere una «storia concettuale del politico», centrata non solo
sui mutamenti intervenuti a livello istituzionali e sociale, ma soprattutto sul
modo in cui viene pensata la «vita in comune». Con questa impostazione, lo
studioso si è prima rivolto al passaggio della Rivoluzione francese e alle
diverse modalità con cui il popolo sovrano è stato immaginato. E più di
recente, in particolare nel suo famoso Controdemocrazia.
La politica nell’età della sfiducia, ripubblicato ora con una nuova
introduzione di Luca Scuccimarra (Castelvecchi, pp. 286, euro 18.50), si è
dedicato alle difficoltà che contrassegnano le dinamiche dei sistemi politici
occidentali.
In Pensare il populismo gli elementi di
questa inesausta ricerca sono ‘distillati’ in alcune pagine densissime che
affrontano il tema del «populismo»: un tema che è sfuggente proprio perché è il
«popolo» stesso ad essere inafferrabile. Per Rosanvallon non è comunque
sufficiente deprecare il populismo come una deformazione, facendo della parola
uno spauracchio. Ma piuttosto va riconosciuto, al tempo stesso, come il sintomo
di un disagio e l’espressione di un’illusione che opera mediante tre
semplificazioni. In primo luogo, con una semplificazione politica, perché
concepisce il popolo come unitario ed evidente. In secondo luogo, con una
semplificazione procedurale, contestando il sistema rappresentativo e
appellandosi direttamente al popolo. In terzo luogo, semplificando la
concezione del legame sociale, perché «pensa che ciò che costituisce la
coesione di una società sia la sua identità e non la qualità interna dei
rapporti sociali». Ma in realtà, scrive Rosanvallon, la realizzazione della
democrazia passa dalla complicazione e non dalla semplificazione. «Nessuno può
pretendere di essere il ‘detentore’ del popolo, nessuno può pretendere di
essere il suo portavoce». Anche se la democrazia si fonda sul principio
maggioritario, la maggioranza non rappresenta cioè tutta la società. E per
realizzare concretamente la democrazia è dunque necessario dare voce alle altre
forme in cui il popolo si articola e si presenta. Oggi uno dei problemi
principali non è d’altronde solo autorizzare una decisione, ma anche «produrre
una vita comune» che non può esaurirsi solo nell’effervescenza elettorale. Per
questo, «complicare la democrazia», dando voce alle molte
articolazioni del popolo, per Rosanvallon vuol dire anche «trovare i mezzi per
produrre un legame comune che fornisca senso, produrre una società che non sia
un semplice insieme di individui».
Damiano Palano
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