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martedì 10 aprile 2018

La guerra dell'informazione e il potere della manipolazione. Un incontro con Massimiliano Panarari, Gabriele Colleoni e Damiano Palano a Brescia (Università Cattolica - Via Trieste 17) - martedì 17 APRILE 2018 - ore 15.00




Martedì 17 aprile 2018, nell’ultima tappa del ciclo "Il Mondo in disordine", nella sede di Brescia dell'Università Cattolica (Via Trieste 17), Massimiliano Panarari, docente di Comunicazione politica alla Luiss di Roma ed editoralista di diverse testate, parlerà del ruolo della manipolazione nella politica novecentesca. 
Partendo da un suo libro recente e discutendo con Damiano Palano e Gabriele Colleoni («Giornale di Brescia»), tornerà al grande laboratorio della Prima guerra mondiale, per mostrare come proprio le necessità belliche abbiano fatto nascere la propaganda moderna, utilizzata in seguito dai regimi totalitari e dalla comunicazione politica contemporanea. Ma naturalmente si giungerà fino a oggi e alle tempeste delle "fake news".





Questa recensione al volume di M. Panarari, Poteri e informazione. Teorie della comunicazione e storia della manipolazione politica in Italia (1850-1930), Le Monnier, Firenze, 2017,  apparsa su «Avvenire» del 11 agosto 2017.

Quando nel 1917 gli Stati Uniti fecero il loro ingresso nella Grande guerra, le città americane furono tappezzate da manifesti che invitavano all’arruolamento. Il più famoso – che davvero tutti ricordano – ritraeva il volto arcigno dello Zio Sam, con il dito puntato verso l’osservatore, sopra una didascalia che recitava: «I want you for U.S. Army». Oggetto in seguito di miriadi di imitazioni, in realtà anche l’affiche dello Zio Sam riprendeva (con una grafica certo più accattivante) un precedente manifesto britannico, commissionato nel 1914 ad Alfred Leete dal Comitato parlamentare per il reclutamento. Nella versione originale a invitare i concittadini a unirsi all’esercito del loro Paese non era ovviamente lo Zio Sam, ma il feldmaresciallo Horatio Herbert Kitchener, allora ministro della guerra e in passato governatore imperiale dell’Egitto, oltre che vincitore della guerra anglo-boera. Ad ogni modo, entrambi quei manifesti erano il frutto di uno sforzo propagandistico senza precedenti. Perché proprio nell’officina della Grande guerra divenne chiaro che la comunicazione era ormai un’arma indispensabile, da gestire con tecniche e logiche molto simili a quelle dell’industria moderna.
Una ricostruzione delle linee principali di questa trasformazione è offerta dal volume di Massimiliano Panarari, Poteri e informazione. Teorie della comunicazione e storia della manipolazione politica in Italia (1850-1930) (Le Monnier, pp. 157, euro 14.00), che segue in parallelo la riflessione degli studiosi sugli effetti dei flussi informativi e le innovazioni adottate nel mondo politico. Panarari mostra in particolare che anche in Italia la Grande guerra rappresentò un momento di svolta.
All’indomani dell’entrata in guerra, Salvatore Barzilai, presidente dell’Associazione della Stampa Periodica Italiana, si pose subito al servizio del governo e fu in effetti nominato ministro da Salandra nel luglio 1915. Ma una svolta organizzativa si ebbe soprattutto dopo la tragedia di Caporetto, che portò alla costituzione del «Servizio P», la Commissione centrale per la propaganda verso il nemico (che vide coinvolti per esempio Giuseppe Prezzolini, Alfredo Rocco, Gaetano Salvemini e Pietro Calamandrei). Grazie al supporto di una legislazione restrittiva, i giornali furono inoltre sottoposti a severi controlli, miranti a garantire la sicurezza dello Stato. Particolare attenzione venne rivolta alle illustrazioni e alle fotografie di argomento militare, che potevano essere pubblicate solo a seguito di autorizzazione. In generale la stampa bellicista pubblicò però soprattutto fotografie fornite dalla stampa estera, che ritraevano le devastazioni e gli scenari di guerra. La morte dei soldati italiani non ebbe invece alcuna rappresentazione fotografia, per evitare la destabilizzazione che quelle immagini avrebbero provocato sulle famiglie. La rappresentazione del fronte fu piuttosto affidata alle tavole di Achille Beltrame, che ritraevano la guerra come un romantico scontro tra eroismi. E la gran parte degli italiani continuò così a pensare che il conflitto assomigliasse a una «tenzone cavalleresca», che nulla aveva a che fare con la «guerra totale» che si combatteva nelle trincee. Al tempo stesso, furono introdotti strumenti di propaganda tra i soldati, con la produzione di «giornali di trincea», come «Il Grappa» o «La Ghirba» (ideata da Ardengo Soffici). E furono diffusi veri e propri breviari per una propaganda efficace tra gli ufficiali addetti alla «sponsorizzazione» dello sforzo bellico presso i reparti impegnati al fronte.
La fabbrica della propaganda muoveva allora solo i primi passi. Ma si comprese subito che l’esperienza della guerra non sarebbe stata solo una parentesi. La prova che diede nel conflitto lo straordinario apparato propagandistico statunitense contribuì anzi a innescare la marcia verso l’«americanizzazione» della comunicazione anche in Europa. E così, se il 1914, come voleva Hobsbawm, segnò l’ingresso nel «secolo breve» delle ideologie, sancì anche la nascita di quella propaganda moderna a cui avrebbero attinto anche i regimi autoritari e totalitari del Novecento. E forse non fu allora un caso se George Orwell, quando modellò la sagoma del dittatore di Oceania, il Grande fratello di 1984, tornò proprio a quel vecchio manifesto per il reclutamento del 1914. E al dito puntato con cui il feldmaresciallo Kitchener invitava i cittadini britannici a entrare nell’esercito di Sua Maestà.

Damiano Palano

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