Martedì 17 aprile 2018, nell’ultima tappa del ciclo "Il Mondo in disordine", nella sede
di Brescia dell'Università Cattolica (Via Trieste 17), Massimiliano Panarari,
docente di Comunicazione politica alla Luiss di Roma ed editoralista di diverse
testate, parlerà del ruolo della manipolazione nella politica novecentesca.
Partendo da un suo libro recente e discutendo con Damiano Palano e Gabriele Colleoni («Giornale di Brescia»), tornerà al grande laboratorio della Prima guerra mondiale, per mostrare come proprio le necessità belliche abbiano fatto nascere la propaganda moderna, utilizzata in seguito dai regimi totalitari e dalla comunicazione politica contemporanea. Ma naturalmente si giungerà fino a oggi e alle tempeste delle "fake news".
Partendo da un suo libro recente e discutendo con Damiano Palano e Gabriele Colleoni («Giornale di Brescia»), tornerà al grande laboratorio della Prima guerra mondiale, per mostrare come proprio le necessità belliche abbiano fatto nascere la propaganda moderna, utilizzata in seguito dai regimi totalitari e dalla comunicazione politica contemporanea. Ma naturalmente si giungerà fino a oggi e alle tempeste delle "fake news".
Questa recensione al volume di M. Panarari, Poteri e
informazione. Teorie della comunicazione e storia della manipolazione politica
in Italia (1850-1930), Le Monnier, Firenze, 2017, apparsa su
«Avvenire» del 11 agosto 2017.
Quando nel 1917 gli Stati Uniti fecero il loro
ingresso nella Grande guerra, le città americane furono tappezzate da manifesti
che invitavano all’arruolamento. Il più famoso – che davvero tutti ricordano –
ritraeva il volto arcigno dello Zio Sam, con il dito puntato verso
l’osservatore, sopra una didascalia che recitava: «I want you for U.S. Army».
Oggetto in seguito di miriadi di imitazioni, in realtà anche l’affiche dello Zio
Sam riprendeva (con una grafica certo più accattivante) un precedente manifesto
britannico, commissionato nel 1914 ad Alfred Leete dal Comitato parlamentare
per il reclutamento. Nella versione originale a invitare i concittadini a
unirsi all’esercito del loro Paese non era ovviamente lo Zio Sam, ma il
feldmaresciallo Horatio Herbert Kitchener, allora ministro della guerra e in
passato governatore imperiale dell’Egitto, oltre che vincitore della guerra
anglo-boera. Ad ogni modo, entrambi quei manifesti erano il frutto di uno
sforzo propagandistico senza precedenti. Perché proprio nell’officina della
Grande guerra divenne chiaro che la comunicazione era ormai un’arma
indispensabile, da gestire con tecniche e logiche molto simili a quelle
dell’industria moderna.
Una ricostruzione delle
linee principali di questa trasformazione è offerta dal volume di Massimiliano
Panarari, Poteri e
informazione. Teorie della comunicazione e storia della manipolazione politica
in Italia (1850-1930) (Le Monnier, pp. 157, euro 14.00), che segue in
parallelo la riflessione degli studiosi sugli effetti dei flussi informativi e
le innovazioni adottate nel mondo politico. Panarari mostra in particolare che
anche in Italia la Grande guerra rappresentò un momento di svolta.
All’indomani dell’entrata in guerra, Salvatore
Barzilai, presidente dell’Associazione della Stampa Periodica Italiana, si pose
subito al servizio del governo e fu in effetti nominato ministro da Salandra
nel luglio 1915. Ma una svolta organizzativa si ebbe soprattutto dopo la
tragedia di Caporetto, che portò alla costituzione del «Servizio P», la
Commissione centrale per la propaganda verso il nemico (che vide coinvolti per
esempio Giuseppe Prezzolini, Alfredo Rocco, Gaetano Salvemini e Pietro
Calamandrei). Grazie al supporto di una legislazione restrittiva, i giornali
furono inoltre sottoposti a severi controlli, miranti a garantire la sicurezza
dello Stato. Particolare attenzione venne rivolta alle illustrazioni e alle
fotografie di argomento militare, che potevano essere pubblicate solo a seguito
di autorizzazione. In generale la stampa bellicista pubblicò però soprattutto
fotografie fornite dalla stampa estera, che ritraevano le devastazioni e gli
scenari di guerra. La morte dei soldati italiani non ebbe invece alcuna
rappresentazione fotografia, per evitare la destabilizzazione che quelle immagini
avrebbero provocato sulle famiglie. La rappresentazione del fronte fu piuttosto
affidata alle tavole di Achille Beltrame, che ritraevano la guerra come un
romantico scontro tra eroismi. E la gran parte degli italiani continuò così a
pensare che il conflitto assomigliasse a una «tenzone cavalleresca», che nulla
aveva a che fare con la «guerra totale» che si combatteva nelle trincee. Al
tempo stesso, furono introdotti strumenti di propaganda tra i soldati, con la
produzione di «giornali di trincea», come «Il Grappa» o «La Ghirba» (ideata da
Ardengo Soffici). E furono diffusi veri e propri breviari per una propaganda
efficace tra gli ufficiali addetti alla «sponsorizzazione» dello sforzo bellico
presso i reparti impegnati al fronte.
La fabbrica della propaganda muoveva allora solo i
primi passi. Ma si comprese subito che l’esperienza della guerra non sarebbe
stata solo una parentesi. La prova che diede nel conflitto lo straordinario
apparato propagandistico statunitense contribuì anzi a innescare la marcia
verso l’«americanizzazione» della comunicazione anche in Europa. E così, se il
1914, come voleva Hobsbawm, segnò l’ingresso nel «secolo breve» delle
ideologie, sancì anche la nascita di quella propaganda moderna a cui avrebbero
attinto anche i regimi autoritari e totalitari del Novecento. E forse non fu
allora un caso se George Orwell, quando modellò la sagoma del dittatore di
Oceania, il Grande fratello di 1984, tornò
proprio a quel vecchio manifesto per il reclutamento del 1914. E al dito
puntato con cui il feldmaresciallo Kitchener invitava i cittadini britannici a
entrare nell’esercito di Sua Maestà.
Damiano Palano
Nessun commento:
Posta un commento