di
Damiano Palano
Questa recensione al libro di David Armitage, Guerre civili. Una storia attraverso le idee (Donzelli, pp. 247, euro 27.00), è apparsa su "Avvenire" il 5 gennaio 2018.
I
Romani, ricordava Agostino nella Città di
Dio, vollero erigere un tempio alla dea Concordia, ma furono spesso
«travolti sino alla guerra civile dalla furia della Discordia». Ai suoi occhi i
conflitti fratricidi che avevano lacerato Roma erano d’altronde il simbolo
della città terrena, in contrasto con la città di Dio. E come Agostino, anche
molti pensatori politici successivi avrebbero continuato a guardare alle guerre
civili di Roma (e a dialogare con gli storici latini), oltre che per indagare
le cause della decadenza dell’Impero, soprattutto per riflettere sulle malattie
del corpo politico e sulle condizioni dell’ordine sociale. Proprio per questo
la ricostruzione condotta da David Armitage nel suo Guerre civili. Una storia attraverso le idee (Donzelli, pp. 247,
euro 27.00) parte da Roma, escludendo il mondo greco. Secondo Armitage i Romani
non furono infatti i primi a subire il dramma dei conflitti intestini, ma
furono certamente i primi a ‘inventare’ la «guerra civile». Furono cioè i primi
a definire come «civile» un conflitto tra concittadini, la cui intensità poteva
persino eguagliare quella di una vera e propria guerra. Per quanto influenzati
da Tucidide e dai suoi racconti sulle lotte intestine delle città greche, rimasero
sempre convinti che la guerra civile che avevano sperimentato fosse qualcosa di
diverso e di inedito. E a un certo punto si persuasero anzi che ci fosse addirittura
un nesso paradossale tra quel tipo di conflitto e la stessa «civiltà».
Molti
secoli dopo, Hobbes, Locke e Grozio avrebbero continuato a concepire la guerra
civile nei termini in cui gli storici romani l’avevano descritta. Gli europei
della prima modernità videro anzi nei conflitti del loro tempo una replica
delle lotte di Roma. E utilizzarono l’antica espressione «guerra civile» per
indicare – come per esempio Hobbes – la causa di «stragi, desolazione, mancanza
di tutte le cose». In seguito intervennero alcuni mutamenti, ma a dispetto di
queste svolte il modello romano non cessa neppure oggi di esercitare
un’influenza. Il concetto di «guerra civile» ereditato dalla tradizione romana
permea infatti anche il lessico delle organizzazioni internazionali e della
politica contemporanea. Anzi, si tratta di un’idea che è diventata oggi molto
più importante che in passato. Nell’ultimo quarto di secolo, quasi tutte le
guerre sono state infatti «civili», perché sono state combattute ‘dentro’ e
‘attraverso’ gli Stati anche da parte di forze irregolari e spesso con il
coinvolgimento di attori internazionali.
Ma il punto è che il concetto di
«guerra civile» è tutt’altro che neutrale. E il suo stesso utilizzo è uno
strumento di conflitto. Quella formula può essere per esempio utilizzata per
evitare di prendere posizione su una questione giudicata come ‘interna’ a un
singolo Stato. E dalla definizione di un conflitto come «guerra civile» possono
discendere inoltre cruciali conseguenze giuridiche e finanziarie. In altre
parole, ciò significa che la formula è destinata ad alimentare conflitti che
hanno conseguenze talvolta drammatiche per intere popolazioni. Armitage
naturalmente non propone soluzioni. Ma si limita a mettere in discussione
l’idea che si debba ricercare una definizione univoca di «guerra civile». Per
costruire una «stasiologia», e cioè una teoria che si occupi specificamente dei
conflitti civili, è cioè necessario riconoscere che la formula «guerra civile»
è stata piegata nella storia a molteplici utilizzi e che è sempre al centro di
inesauribili contestazioni. E forse solo grazie a una simile consapevolezza,
secondo Armitage, si può sfuggire al «potere incantatore» del concetto.
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