di
Damiano Palano
Questa recensione al volume di Corrado Stefanachi, America invulnerabile e insicura. La politica estera degli Stati Uniti nella stagione dell’impegno globale: una lettura geopolitica (Vita e Pensiero, pp. 396, euro 28.00), è apparsa su "Avvenire" il 3 gennaio 2018.
Nel
1893, intervenendo in un convegno organizzato a margine dell’Esposizione
Universale di Chicago, il giovane storico Frederick J. Turner illustrò una tesi
fulminante sull’esperienza politica degli Stati Uniti. «Fino ai nostri giorni»,
osservava Turner, «la storia americana è stata in grande misura la storia della
colonizzazione del grande West». La presenza di terre libere a Ovest non era
stata cioè soltanto un fatto geografico. La proiezione verso la Frontiera aveva
influito anche sulla formazione dei caratteri culturali e politici della
giovane nazione americana. Le radici europee, combinandosi con il contesto
della Frontiera, avevano dato origine alla nuova cultura americana,
contrassegnata da un ruvido individualismo, dallo spiccato senso pratico e dalla
fiducia riposta nel principio secondo cui il lavoro della terra dava diritto
alla proprietà. E il successo dell’esperimento democratico – così lontano dai
modelli europei – doveva essere spiegato proprio come risultato di quello
specifico contesto ambientale. Se Turner in questo modo celebrava l’«eccezionalità» americana, lanciava però anche un allarme.
Nell’ultimo decennio dell’Ottocento – segnalava infatti – la «Frontiera» non
esisteva più, perché tutte le aree coltivabili tra la costa atlantica e il
Pacifico erano ormai state colonizzate. E ciò rappresentava un rischio
formidabile. La Frontiera aveva consentito di neutralizzare i conflitti sociali
e di riequilibrare le diseguaglianze. Ma la ‘chiusura’ dello spazio cambiava
completamente le cose. I conflitti potevano diventare distruttivi, mentre l’american way of life rischiava di scomparire per sempre.
Nel
suo volume America invulnerabile e
insicura. La politica estera degli Stati Uniti nella stagione dell’impegno
globale: una lettura geopolitica (Vita e Pensiero, pp. 396, euro 28.00),
Corrado Stefanachi prende le mosse proprio dall’impatto che la fine della
Frontiera ebbe sulle classi dirigenti americane. La percezione di vivere in uno
spazio «chiuso», come mostra il politologo nella sua ambiziosa ricostruzione,
modificò infatti il quadro «geopolitico» della sicurezza americana. La
geopolitica non è d’altronde determinata solo dai condizionamenti geografici,
ma è anche il frutto della percezione che – in connessione con i mutamenti
tecnologici – gli attori politici hanno dello spazio. E sul finire
dell’Ottocento alcuni mutamenti modificarono completamente la percezione dello
spazio degli americani. L’esaurimento della Frontiera alimentò cioè una sorta
di claustrofobia politica, che spinse ad abbandonare il tradizionale
isolazionismo. Cominciò proprio allora a fare proseliti l’idea che si dovesse
aprire la «porta del mondo» (principalmente verso l’Estremo Oriente). Ma, di lì
a poco, le classi dirigenti americane si resero conto anche che il mondo era
ormai piccolo e soprattutto «saturo». In altre parole, le élite americane si
persuasero che, in un mondo ‘chiuso’ e sempre più affollato, Washington dovesse
impegnarsi attivamente per ricreare una «distanza di sicurezza» e per impedire
la conquista imperiale dello spazio euroasiatico.
Stefanachi
mostra in particolare come l’apparente paradosso geopolitico di una potenza al
tempo stesso «invulnerabile» e «insicura» spieghi molte scelte compiute dagli
Stati Uniti in più di un secolo di storia, dalla fine dell’Ottocento fino ai
giorni nostri.
E naturalmente non può evitare di interrogarsi – ma solo nelle
pagine finali – sul destino dell’internazionalismo americano e sulla promessa
di neo-isolazionismo che ha
contribuito a portare Donald Trump alla Casa Bianca. Più che un vero
isolazionismo, quello di cui Trump sembra farsi portatore è però un
nazionalismo che trova il suo modello in Andrew Jackson, il settimo presidente degli
Stati Uniti. Forse, suggerisce Stefanachi, seppur in modo molto cauto, siamo perciò
di fronte a un nazionalismo che «non smania per andare a contrarre impegni
politici in giro per il mondo», ma che tende comunque a vedere la politica
globale come «un’arena competitiva, in cui può essere necessario impegnarsi per
promuovere i propri interessi fondamentali». In altri termini, il nazionalismo
di Trump rappresenterebbe una nuova declinazione del vecchio paradosso
geopolitico americano. Una declinazione che riflette però la nuova percezione
di una potenza che, in un mondo sempre più affollato di rivali insidiosi, si
sente probabilmente ancora meno sicura che in passato.
Damiano Palano