di
Damiano Palano
Il giorno di Ferragosto del 1971
l’allora presidente degli Stati Uniti Richard Nixon annunciò da Camp David la
sospensione della convertibilità tra dollaro e oro. Molti lessero allora quella
clamorosa decisione come il segnale dell’imminente declino dell’«impero americano»,
impantanato nella guerra del Vietnam e alle prese con le forti tensioni sociali
interne, con un’inflazione galoppante, con l’aumento della spesa pubblica. La
sospensione della convertibilità – confermata definitivamente nel 1973 –
sembrava inoltre concludere la quasi trentennale vicenda del sistema delineato
a Bretton Woods nel 1944, quando si fissarono i cardini del nuovo ordine
internazionale liberale, fondato sul ruolo egemone degli Usa. Quello che parve
allora un tramonto può invece oggi essere considerato come il momento di avvio
della globalizzazione (o quantomeno della sua fase più recente), oltre che come
il punto di partenza di quella rivoluzione ‘neo-liberale’ che si manifestò
compiutamente con la presidenza di Ronald Reagan a partire dagli anni Ottanta.
L’ordine internazionale liberale si rivelò infatti molto più vitale di quanto
molti avessero previsto, anche se modificò almeno in parte la propria logica. E
proprio allora la partita della Guerra fredda conobbe per molti versi una mossa
decisiva, destinata a rivelare le proprie conseguenze solo più tardi.
È anche per questo che, nel corso degli ultimi anni, molti
studiosi sono tornati alla svolta degli anni Settanta per ripercorrere la
genesi del nuovo assetto ‘neo-liberale’ e per individuare le radici della crisi
contemporanea. Nel suo nuovo libro, L’età
della moneta. I suoi uomini, il suo spazio, il suo tempo (Il Mulino, pp.
197, euro 19.00), Rita di Leo propone invece una rilettura più ambiziosa, che
procede ben più indietro rispetto al 1971 e alla sospensione della
convertibilità tra dollaro e oro. Per comprendere il presente, a suo avviso è certo
indispensabile ricostruire le sequenze cruciali del «secolo breve» e in
particolare la sfida rappresentata dall’Unione Sovietica (di cui di Leo ha in
molti libri messo in luce, come pochi altri, le tensioni interne e le svolte
più importanti). Ma l’ipotesi del libro è che nel Ventesimo secolo si consumi solo
l’atto terminale di un lungo processo di affermazione degli «uomini della
moneta» su altri soggetti e altre logiche che, di volta in volta, ne hanno
contestato l’egemonia.
Nel suo nuovo libro, è inevitabile riconoscere l’ennesima
tappa del percorso compiuto da Rita di Leo nel corso di più di quasi sessant’anni
nei quali le sue ricerche si sono intrecciate con la storia dell’operaismo
italiano, oltre che con la vicenda teorica e politica di Aris Accornero, «intellettuale
della classe operaia» – come l’ha definito recentemente Mario Tronti – che dell’esperienza
operaista fu al tempo stesso protagonista (seppure in incognito) e coscienza
critica. Rita di Leo entrò infatti in contatto con Raniero Panzieri nel 1959,
ben prima che vedesse la luce il primo numero dei «Quaderni rossi», mentre
conduceva una ricerca sui braccianti pugliesi, poi destinata a diventare un
libro (I braccianti non servono. Aspetti
della lotta di classe nella campagna pugliese, Einaudi, Torino, 1961). Grazie
a Panzieri, di Leo conobbe – oltre al folto gruppo di giovani torinesi, che
avrebbe contribuito alla nascita della rivista – anche i romani Asor Rosa,
Umberto Coldagelli e lo stesso Tronti, con cui da quel momento iniziò una
discussione destinata a protrarsi negli anni e a procedere, per molti versi, su
binari paralleli. Sul secondo numero dei «Quaderni rossi» - quello che ospitava
il saggio trontiano La fabbrica e la
società, di solito individuato come il vero punto di origine dell’operaismo
italiano – era pubblicato anche un articolo su Lavoro necessario e valore della forza-lavoro in edilizia in cui di
Leo, sulla scorta di Marx (e della lettura che ne proponeva il giovane Tronti),
cominciava a svolgere i primi elementi di un’inchiesta sul conflitto di classe
tra gli edili. E dopo il 1963, in seguito alla decisione del gruppo romano di
dare vita (insieme alla componente veneta e alla pattuglia raccolta attorno a
Romano Alquati) all’esperienza di «classe operaia», di Leo si dedicò con
intensità all’intervento politico, concentrandosi in particolare su alcune
fabbriche romane. Fu però dopo la fine di «classe operaia», e la conclusione di
un periodo di militanza politica a tempo pieno, che la ricerca di Rita di Leo,
iniziando a riflettere sulla classe operaia in Unione Sovietica, imboccò un
sentiero che avrebbe continuato a percorrere per molti anni. Nel 1969, su
«Contropiano» compariva infatti I
bolscevichi e «Il Capitale», un saggio che per la prima volta esplicitava l’esigenza
di rileggere l’esperienza del socialismo sovietico «dal punto di vista
operaio», a partire dalla Nep fino alla stagione di Stalin. Come si leggeva
nell’incipit di Operai e sistema sovietico, pubblicato l’anno successivo, si
trattava di esaminare l’esperienza sovietica da una prospettiva radicalmente
diversa da quella che aveva indirizzato sia le letture ortodosse, sia quelle trotskiste:
«fare un discorso sull’Urss ha oggi un significato se il discorso è allo stesso
tempo sul capitalismo, se serve a portare avanti l’analisi su una realtà oscura
qual è ancora il rapporto tra operai e capitale. […] Sta diventando chiaro che
la forza del sistema non sta nella proprietà privata dei mezzi di produzione
oppure nella destinazione egoistica del prodotto sociale, ovvero nel caos del
processo economico complessivo, bensì nel semplice e resistentissimo stato di
fatto che vede da un lato la forza lavoro e dall’altro le condizioni sociali
per utilizzarla e ricavarne un valore maggiore del suo costo. Al di là delle
trasformazioni avvenute, il rapporto tra lavoro e capitale sembra rimasto
saldamente ancorato alle sue fondamenta materiali, oggettive, non scalfito da
nulla e tantomeno dall’ideologia del socialismo o dalla esperienza del
socialismo realizzato nell’Urss. […] Il controllo sul valore di scambio della
forza lavoro e l’utilizzo più conveniente del suo valore d’uso hanno
condizionato la costruzione del socialismo né più né meno di quanto è avvenuto
per il capitalismo alle sue origini» (R. di Leo, Operai e sistema sovietico, Laterza, Bari, 1970, pp. 7-9).
Rifiutare l’«ideologia socialista», per di Leo, significava articolare le
ipotesi operaiste anche per studiare le sequenze e le dinamiche dello sviluppo
capitalistico in Unione Sovietica: «L’analisi del rapporto di produzione nei
paesi socialisti mette allo scoperto la sopravvivenza tenace della relazione
fondamentale tra lavoro e capitale; riporta quindi la questione al suo punto di
partenza. Perché e come si produce la subordinazione del lavoro vivo alle
strutture produttive, della classe operaia al potere politico del sistema? Con
il suo tormentato passato, con il suo ricco presente, ha un futuro lo scontro
tra lavoro e capitale?» (ibi, p. 17).
A queste domande Rita di Leo ha cercato di rispondere per
decenni, con libri come Operai e fabbrica
in Unione sovietica nelle lettere alla «Pravda» e al «Trud» (De Donato, Bari,
1973), Il modello Stalin (Feltrinelli,
Milano, 1978), Occupazione e salari nell’Urss
1950-1977 (Etas, Milano, 1980), L’economia
sovietica tra crisi e riforme (1965-1983) (Liguori, Napoli, 1983), Vecchi quadri e nuovi politici. Chi comanda
davvero nell’ex Urss (Il Mulino, Bologna, 1992), L’esperimento profano. Dal capitalismo al socialismo e viceversa (Ediesse,
Roma, 2012) e Cento anni dopo: 1917-2017.
Da Lenin a Zuckerberg (Ediesse, Roma, 2017), oltre che in molti articoli e
saggi che varrebbe la pena raccogliere in volume. A quelle stesse domande, dopo
la conclusione dell’«esperimento profano», se ne sono però aggiunte altre, che
hanno a che vedere con la sconfitta storica del movimento operario e con l’affermazione
di un’antropologia che pare persino refrattaria all’idea stessa del conflitto
di classe. A questi interrogativi Rita di Leo ha cercato alcune risposte alcuni
anni fa nel suo Il ritorno delle élite
(Manifestolibri), ma la risposta più ambiziosa giunge proprio con L’età della moneta.
L’uomo della moneta per di Leo coincide con un modello
antropologico, secondo il quale ogni singolo individuo è valutato per ciò che vale
sul mercato. Inoltre, l’uomo della moneta è anche il rappresentante di una
specifica élite, il cui potere non si basa sulla forza coercitiva, bensì sulle
risorse economiche. Come scrive di Leo in alcune dense pagine: «L’uomo della
moneta è antropologicamente oltre l’uomo economico nella definizione che si
ritrova nella letteratura dei filosofi, degli economisti, dei politologi.
Quella definizione è suggerita dall’irruzione dell’economia mercantile nel
Settecento di Mill e Smith come fenomeno irreversibile, come male/bene nell’Ottocento
di Marx e Walras, come ‘il’ capitalismo nel Novecento di Pareto e Lenin. Quella
definizione contiene di per sé una forma-sostanza che si identifica nel
possesso di beni, in redditi, in salari, in flussi finanziari. L’uomo economico
è per l’appunto valutato per quanto vale sul mercato, e il mercato è indispensabile
al comune esistere quotidiano. Il valore è concreto: esisti per quello che fai
e hai. Sono il fare e l’avere a determinare il tuo valore agli occhi del mondo»
(L’età della moneta, p. 153).
Per una lunga stagione storica, il confronto è così
soprattutto con gli «uomini della spada», e cioè con una logica che fa
discendere la legittimazione del potere dalla forza, prima dalla spada del
cavaliere e poi dagli eserciti mercenari. Per tutta la prima età moderna, gli
uomini della moneta rimangono in una posizione del tutto subalterna rispetto al
potere politico. Ma, nella loro sotterranea lotta contro gli «uomini della
spada». trovano negli intellettuali – gli «uomini del libro» - degli alleati
preziosi, che per secoli utilizzano gli strumenti della critica per dissolvere
le basi culturali della società feudale. Il rapporto tra «spada» e «moneta»,
per quanto problematico, non è però sempre conflittuale, e, anzi, nella
stagione del nazionalismo – mentre i mercanti si trasformano in produttori – si
risolve molto spesso in un saldo compromesso. Ma quando incomincia il tramonto
delle élite aristocratiche – un tramonto che si conclude per molti versi solo
con la Prima guerra mondiale – si profilano per «gli uomini della moneta» nuovi
insidiosi contendenti. Sono naturalmente gli «uomini del lavoro», ossia il
movimento operaio, le prime organizzazioni sindacali, che contestano nei luoghi
stessi della produzione il potere del capitale. E un’insidia ulteriore giunge
dagli «uomini del libro», che – dopo avere contribuito alla dissoluzione del
mondo feudale – si fanno portavoce degli sfruttati in nome di una
trasformazione radicale della società. Naturalmente il 1917 è per di Leo – ben
più che una rivoluzione operaia – la vittoria di un manipolo di «filosofi-re»,
di politici professionali. Se la Nep di Lenin rappresenta il tentativo compiuto
dagli «uomini del libro» di strappare agli uomini della moneta le conoscenze tecniche per
gestire l’economia pianificata, la lunga stagione di Stalin ne sancisce la brusca
interruzione. L’«operaismo» di Stalin si nutre infatti della diffidenza, o
persino del disprezzo, per gli intellettuali. E così la costruzione di una nomenklatura di estrazione
esclusivamente operaia sancisce la rottura dell’alleanza tra intellettuali e
movimento operaio, ma il nuovo ceto dirigente operaio non si rivela tecnicamente
all’altezza del compito, con esiti disastrosi per le ambizioni sovietiche. E il
divorzio tra gli «uomini del lavoro» e gli «uomini del libro» non coinvolge
solo l’Urss di Stalin. Perché da allora prende forma quel ‘lungo addio’
destinato ad allontanare gli intellettuali dal movimento operaio (o quantomeno
dai partiti comunisti). «Fare a meno degli uomini del libro», d’altronde, «è un
preciso obiettivo degli uomini della moneta» (p. 160).
I fattori che entrano in gioco nel «secolo breve» sono
ovviamente molti. Uno di questi è il ruolo cruciale della tecnologia nello
smantellamento del potenziale conflittuale della classe operaia, su cui spesso
le indagini ‘post-operaiste’ hanno insistito, e su cui anche di Leo ha attirato
l’attenzione, per esempio in Cento
anni dopo, dove osserva: «l’informatica
e la globalizzazione, le due brillanti stelle del firmamento tra la fine del Novecento
e l’inizio del XXI secolo, hanno influito nel senso opposto a quello di stelle
dell’avanguardia loro attribuito, giacché nei fatti sono servite ai datori di
lavoro per far rinascere il passato nel rapporto con l’uomo del lavoro. E non
si tratta della semplice attività di comando ripristinata su un esercito
sconfitto, ma della scomparsa dell’esercito. Nei paesi coinvolti la novità è la
fine dell’assembramento operaio in un solo spazio. Gli uomini del lavoro hanno
materialmente perso il proprio essere collettivo e si ritrovano intrappolati
nell’antico rapporto ad personam con
il datore di lavoro. Ciascuno solo con se stesso e di nuovo subalterno senza
sponde di difesa. In un tempo di strepitosi successi della tecnica, dai droni
agli algoritmi, stregoni infallibili, l’antico odio operaio per le macchine ha
un’innegabile ragion d’essere» (R. di Leo, Cento
anni dopo: 1917-2017, p. 27).
Lo snodo che per di Leo è davvero decisivo è proprio quello
che rompe l’alleanza fra intellettuali e mondo del lavoro. La battaglia più
importante vinta dagli «uomini della moneta» sembra infatti proprio quella
combattuta contro il filosofi-re, contro gli «uomini del libro». Ciò che resta
sul tappeto dopo quella vittoria è allora il «vuoto del pensare», o l’illusione
che un pensiero possa essere valutato positivamente o negativamente sulla base
di algoritmi: «Nel nuovo secolo quei fili si sono spezzati, grazie ai
sofisticati giochi matematici come l’arma vincente, sperimentata con successo
dagli artisti degli algoritmi. E dunque che un qualsiasi giro di pensiero possa
essere valutato utile o nocivo sulla base di algoritmi, ha reso il pensiero un
esercizio matematico. Di conseguenza le categorie fondative della cultura
classica europea sono apparse superate proprio come gli stati, i parlamenti, i
partiti i sindacati, i conflitti sociali, nati tutti dalle antiche teste di
antichi uomini del libro. Le nuove teste sono ormai catturate dai numeri e con
essi definiscono lo stato delle cose, con algoritmi che assicurano il risultato
e quel risultato è la prova di aver ben pensato» (L’età della moneta, p. 161). E, come ha scritto in Cento anni dopo, il tempo dell’algoritmo non consente spazio alla critica: «Il
tempo nuovo che sta sorgendo dall’eclissi è l’universo degli algoritmi, i quali
consistono nei passi da fare per raggiungere un risultato entro un tempo
previsto. Passi, risultati, tempi sono espressi in formule matematiche, in
codici propri al campo dell’informatica. Nell’universo degli algoritmi non è
escluso il pensare, ma si pensa attraverso numeri, espressioni, codici. È escluso
il pensare alla Aristotele e alla Dante Alighieri, alla Machiavelli e alla
Hobbes. […] Nel tempo degli algoritmi, i passi, i tempi, i risultati di una
qualsiasi azione comportano una tecnica che appare invincibile in confronto all’uomo
che pensa per pensare. Il quale per ci stesso è divenuto un rischio per l’equilibrio
dell’universo. Come nell’epoca del golem operaio, anche in quella del golem
algoritmico i filosofi-re appaiono alieni cui spetta l’ostracismo. Viene da ciò
l’ipotesi già espressa che si sia esaurita la ragion d’essere delle sirene-Platone,
dei filosofi-re che si attribuivano la capacità di cambiare lo stato delle
cose. A questo ‘risultato’ provvederebbe la tecnica quando se ne presentasse l’esigenza»
(Cento anni dopo: 1917-2017, cit.,
pp. 101-102).
In un paesaggio segnato dall’egemonia dell’uomo della
moneta, il tratto più macroscopico non può che essere il riconoscimento della
‘natura asociale’ dell’uomo come dato ‘originario’. E la conseguenza diventa
fatalmente l’accettazione della solitudine come condizione ineluttabile: «Nell’età
della moneta l’uomo si riconosce primariamente nella condizione originaria di
animale asociale. È una condizione antichissima, tornata sulla scena con le sue
conseguenze. La prima conseguenza è la concezione del mondo della moneta spazza
via i tanti conflitti tra gli uomini nelle tante loro società, e porta non alla
pace kantiana ma ad accettare come ineluttabile l’essere solo dell’individuo.
Dalla sua solitudine ciascuno ricava il proprio stare al mondo, da debole o da
forte, e nel XXI secolo ciò è sempre più visibile e sempre più accettato. Non è
subìto, è accettato» (p. 176). Le domande che per molti versi orientano l’intera
indagine compiuta da di Leo non possono però non coinvolgere il ruolo degli
«uomini del libro», di quei «filosofi-re» che hanno rinunciato al ruolo
politico che per buona parte dell’Ottocento e del Novecento erano stati in
grado di interpretare, e dalla cui capacità di articolare una critica all’altezza
del tempo dell’algoritmo dipende probabilmente anche il futuro della politica nel
XXI secolo: «accecati dalle antiche, classiche certezze dei filosofi-re, non
sono stati capaci di vedere e di capire il percorso che portava all’età della
moneta? Oppure non sono stati essi capaci di sbarrarlo? Forse a impedirlo è stata
la loro fede nell’illuminismo, una fede che ha fatto leggere il Capitale di Marx come il manuale per l’edificazione
della società perfetta mentre era l’analisi del capitalismo. E la prova del
fraintendimento è venuta quando i pianificatori sovietici hanno preso a modello
gli schemi di riproduzione del secondo libro del Capitale per la loro economica senza capitalisti, creando un
capitalismo anomalo ma pur sempre un capitalismo, come si è visto dopo la fine
dell’Urss» (pp. 171-172). E se la risposta a queste domande ha certo una notevole
importanza per comprendere il nostro passato, oltre che per ricostruire le
sequenze che conducono al nostro presente, forse – come suggerisce Rita di Leo
nelle pagine conclusive – si tratta anche di una risposta che coinvolge il
nostro futuro. Perché, «nel secondo decennio del nuovo secolo, la risposta alla
domanda riguarda il futuro degli uomini dei libri: torneranno per sempre nella
caverna, o cominceranno a pensare contro gli algoritmi?».
Damiano Palano