di Damiano
Palano
Questa recensione al volume di C. Lasch, La ribellione delle élite. Il tradimento della democrazia (Neri Pozza, Vicenza, 2017), è apparsa su "Avvenire" del 17 novembre 2017,
«Una volta era la ‘ribellione delle
masse’ che minacciava l’ordine sociale e le tradizioni di civiltà della cultura
occidentale. Ai nostri tempi, invece, la minaccia principale sembra venire da
chi si trova al vertice della gerarchia sociale, non dalle masse». L’intuizione
che stava alla base dell’ultimo libro di Cristopher Lasch, pubblicato postumo
nel 1995 (pochi mesi dopo la scomparsa dell’autore), coglieva con straordinaria
lungimiranza i primi segnali della rivolta ‘populista’ contro l’establishment
che vent’anni dopo avrebbe investito pressoché tutti i sistemi politici
occidentali. Anche per questo La rivolta
delle élite. Il tradimento delle élite (Neri Pozza, pp. 255, euro 17.00)
appare oggi un testo ricco di stimoli. Non certo perché la lettura che Lasch
proponeva allora debba essere accolta senza esitazioni. Ma perché la sua
prospettiva ci aiuta a decifrare almeno alcune ragioni che stanno alla base del
terremoto politico contemporaneo.
Civettando con Ortega y Gasset e la sua
celebre Ribellione delle masse, Lasch
ne rovesciava l’impianto. Per l’intellettuale spagnolo – che aveva scritto all’indomani
della rivoluzione bolscevica e nel pieno della «mobilitazione totale» degli
anni Venti e Trenta – erano le «masse» a minacciare la civiltà occidentale. L’«uomo-massa»,
insofferente verso qualsiasi disciplina e ossessionato dall’odio per tutto ciò
che è diverso, era infatti incapace di assumersi qualsiasi responsabilità. Ed
era dunque un «figlio viziato della storia umana». Per Lasch la minaccia
proveniva invece proprio dalle élite, dai gruppi che controllano i flussi
comunicativi e finanziari, che guidano le logiche della produzione culturale e
fissano i termini del dibattito pubblico. Nella sua lettura erano queste élite
ad aver perso la fede nei valori dell’Occidente e a mostrare molti dei vizi che
Ortega aveva ravvisato nella sagoma sinistra dell’«uomo-massa». Dopo la
tempesta degli anni Sessanta e Settanta, le «masse» si erano infatti allontanate
da qualsiasi interesse per la rivoluzione, spostandosi su posizioni per molti
versi ‘conservatrici’. Ma, al contrario di quanto aveva sostenuto Ortega,
avevano mostrato di avere «un senso del limite» molto più sviluppato rispetto
alle élite. In questo modo Lasch difendeva la cosiddetta middle America, spesso raffigurata come il simbolo di una rozza
opposizione al ‘progresso’. Ma attaccava soprattutto la «nuova classe
dirigente» degli analisti simbolici, il suo stile di vita, la sua
autocelebrazione meritocratica, le ossessioni salutiste e la fissazione per il «politicamente
corretto». E il punto non era né l’aumento del divario tra ricchi e ceto medio (via
via più impoverito), né la riduzione della mobilità sociale. Il problema era
piuttosto che la nuova «aristocrazia del talento» tendeva a mettere in atto una
sorta di ‘secessione’ dal resto della società. Le nuove élite, scriveva infatti
Lasch, «si sono estraniate totalmente dalla vita comune». E molti dei suoi
componenti, ormai integrati in un mondo globalizzato, «non si sentono
coinvolti, per il bene o per il male, nel destino dell’America».
Contro queste tendenze Lasch tornava a
riscoprire la vecchia tradizione del populismo americano di fine Ottocento.
Quel movimento era nato negli Stati dell’Ovest dopo la fine della Guerra di
secessione e aveva condotto alla fondazione del People’s Party negli anni
Novanta dell’Ottocento. Dal punto di vista politico, il movimento aveva difeso
la piccola proprietà contadina, il mondo artigiano e il commercio al dettaglio
contro lo strapotere delle ferrovie, del sistema creditizio e delle grandi
corporation. Ma non si trattava di una forma di socialismo, bensì di un
movimento per cui il diritto di proprietà e l’indipendenza personale erano le
basi per l’esercizio dei doveri del cittadino e della stessa democrazia. La
centralizzazione politica e la produzione su larga scala erano infatti intesi
come processi che indebolivano la fiducia in se stessi. E così scoraggiavano i
cittadini dall’assumersi la responsabilità delle proprie azioni.
Un secolo dopo Lasch riprendeva proprio
quella vecchia lezione. La ‘secessione’ delle nuove élite non andava d’altronde
a minare proprio il senso della responsabilità individuale, ossia quel sentimento
che spinge i cittadini a partecipare in prima persona alla vita democratica. «Ai
nostri giorni», scriveva infatti, «il pericolo più grave per la democrazia
viene dall’indifferenza, non dall’intolleranza o dalla superstizione». Spesso
siamo persino «così occupati a difendere i nostri diritti (conferitici, nella
maggior parte dei casi, per decreto giudiziario) che ci diamo ben poco pensiero
delle nostre responsabilità». E per quanto non sia forse interamente
condivisibile, questa diagnosi coglie ancora oggi, nell’epoca della «passioni
tristi», un aspetto davvero centrale del disagio delle democrazie mature.
Damiano Palano
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