di Damiano Palano
Questa recensione al volume di
Waldemar Gurian, Società secolare e
religioni politiche, a cura di Umberto Lodovici, è apparsa su “Avvenire”
del 6 ottobre 2017, con il titolo Gurian:
la politica e il dovere dello scrittore cattolico.
Nel 1933 la casa editrice Vita e Pensiero pubblicò un
volume dal titolo Il Bolscevismo,
firmato da Waldemar Gurian, un giovane intellettuale cattolico tedesco poco più
che trentenne. Il volume proponeva una chiave di lettura originale del regime
politico nato dalla rivoluzione russa, che anticipava molte delle future
riflessioni sui caratteri del «totalitarismo». Dopo la Seconda guerra mondiale,
il testo fu nuovamente riproposto al pubblico italiano, ma il suo autore rimase
sostanzialmente sconosciuto, così come gran parte della sua riflessione. Un
invito importante a riscoprire la personalità di Gurian viene invece ora dall’antologia
Società secolare e religioni politiche,
curata da Umberto Lodovici e pubblicata dall’editrice Historica nella nuova
collana «Lo scrittoio del Segretario» diretta da Alessandro Campi (pp. 238,
euro 17.00).
All’indomani della morte, avvenuta prematuramente nel
1954, la «Review of Politics», che aveva fondato quindici anni prima, scrisse
che «il destino personale e storico» aveva posto Gurian «al centro del vortice
del XX secolo». Era nato infatti nel 1902 in Russia, a San Pietroburgo, da una
famiglia ebrea, ma all’età di nove anni aveva lasciato il paese natale per
trasferirsi a Berlino, insieme alla madre, che si convertì al cattolicesimo e
nel 1914 fece battezzare il figlio. Tranne che negli anni del primo conflitto
mondiale (durante i quali dovette spostarsi in Olanda), svolse i propri studi
in Germania, conseguendo il dottorato nel 1923 sotto la guida di Max Scheler.
Non intraprese la carriera accademica, ma iniziò un’intensa attività
pubblicistica, che si protrasse fino all’avvento al potere del nazionalsocialismo,
quando fu costretto a emigrare prima in Svizzera e poi negli Usa. Ricostruendo
la trama delle sue relazioni si scopre che Gurian fu soprattutto – come scrisse
Hannah Arendt nel necrologio per l’amico – un uomo di grandi amicizie. Il suo percorso
si era intrecciato per esempio con quello di Carl Schmitt, di cui aveva letto
alla metà degli anni Venti Cattolicesimo
romano e forma politica, restandone affascinato. Ma si legò anche alla
rivista «Die Schildgenossen» e a Romano Guardini, di cui Gurian apprezzava
soprattutto l’idea che concepiva la libertà in armonia con l’obbedienza. Negli
anni della repubblica di Weimar, Gurian riteneva infatti che la crisi della
società liberale potesse essere arginata solo con il recupero di un ordine
tradizionale. In questa prospettiva il «pubblicista cattolico» – come scrisse
in un saggio raccolto nell’antologia – doveva prendere nettamente le distanze
dal modello secolarizzato e dall’esempio illuminista, di cui Voltaire era il
paradigma. E doveva soprattutto esprimere un giudizio sulla propria epoca,
offrire un orientamento, senza assecondare l’opinione pubblica confermandone le
convinzioni.
L’entusiasmo che lo aveva avvicinato a Schmitt fu di
breve durata. Già nella seconda metà degli anni Venti il giurista divenne
infatti ai suoi occhi l’esempio di un «cattolicesimo secolarizzato», se non addirittura
di un «nichilismo conservatore». La diffidenza doveva inoltre tramutarsi in
avversione nel 1933, quando Schmitt appoggiò il regime hitleriano. Da quel
momento Gurian divenne il più severo critico di Schmitt, che definì il
«giurista della corona» del nazionalsocialismo. Parallelamente, l’incontro con Jacques
Maritain indusse Gurian a ripensare la giovanile critica della democrazia, che
cominciò a concepire come un sistema di governo capace di tutelare i diritti
umani.
Dopo il suo trasferimento negli Stati Uniti, nel 1937,
divenne un punto di riferimento per molti intellettuali emigrati dal Vecchio
continente, che trovarono nelle pagine della «Review of Politics» un luogo in
cui riflettere sul passato e sul futuro. Chiamato a insegnare nella prestigiosa
Notre Dame University, continuò a svolgere la propria interpretazione del
totalitarismo come «religione politica». La sua ipotesi era che si dovessero
distinguere nettamente i regimi autoritari da quelli totalitari. «I movimenti
totalitari», osservava per esempio in un saggio del 1952, erano «fondamentalmente
movimenti religiosi», che non puntavano semplicemente a conquistare il potere o
a promuovere un mutamento socio-economico, ma piuttosto a ottenere un dominio
pieno su ogni sfera della vita, «a una rifondazione della natura umana e della
società». E due anni dopo, discutendo con Hannah Arendt, precisò che le diverse
forme di totalitarismo erano «religioni politico-sociali secolarizzate», che
con il loro potere «sostituiscono Dio e le religioni istituzionali come la
Chiesa». Naturalmente quella interpretazione del totalitarismo era il frutto
della «guerra civile mondiale». Ma anche oggi, molti decenni dopo, quelle ipotesi
continuano a rivelarsi ricchissime di sollecitazioni. E anche per questo i
vecchi scritti di Gurian meritano di essere riscoperti.
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