Questa nota sul referendum per l'autodeterminazione della Catalogna è apparsa su Cattolica News il 5 ottobre 2017.
Ottant’anni dopo il tragico
bombardamento di Guernica, la prova di forza a cui assistiamo tra la
Generalitat catalana e il governo di Madrid torna a far aleggiare sulla Spagna
le ombre del passato. Ogni paragone con il dramma della guerra civile rimane
ovviamente – e fortunatamente – fuori luogo, eppure la sensazione di molti è
che con il referendum di domenica si sia messo in moto un processo molto
difficile da controllare.
Nella ricostruzione delle
ragioni che hanno portato allo stallo di questi giorni sono state ampiamente
ricordate le profonde radici culturali e le motivazioni economiche alla base
dell’indipendentismo catalano. E in effetti si tratta di aspetti che non
possono essere trascurati. L’identità culturale e linguistica catalana ha
radici che affondano nella storia spagnola, oltre che in un movimento
intellettuale e politico consolidatosi a partire dalla seconda metà
dell’Ottocento e passato attraverso la lunga stagione della dittatura. La
conquista dell’autonomia linguistica del catalano – di cui durante il
franchismo era proibito l’utilizzo – è stata anche per questo una bandiera
nella lotta contro Madrid. La rivendicazione di una maggiore autonomia fiscale
rappresenta inoltre da decenni un punto critico dei rapporti con lo Stato
spagnolo. Pur gestendo scuola, ospedali e polizia locale, il bilancio catalano
dipende infatti dai trasferimenti del governo centrale. E se i suoi cittadini
pagano in tasse ogni anno circa 60 miliardi, la Generalitat ne riceve dallo
Stato circa 50. L’inizio del conflitto con
Madrid parte in effetti proprio da queste due rivendicazioni. L’affiancamento
del catalano al castigliano e una più consistente autonomia nella gestione del
gettito fiscale sono il cuore del nuovo Statuto varato nel 2006 dalla
Generalitat, nel quale la Catalogna viene definita come una “nazione”, seppur
operante nel quadro dello Stato spagnolo. Il testo ottiene l’approvazione del
Parlamento di Madrid, allora a maggioranza socialista, seppur con qualche
sensibile attenuazione. Ma il punto di rottura si ha solo nel 2010, quando la
Corte costituzionale, intervenendo sul ricorso promosso dal Partito Popolare di
Rajoy (allora all’opposizione), di fatto riscrive lo Statuto, eliminando in
larga parte l’autonomia fiscale e negando al catalano il medesimo rango della
lingua castigliana. Da allora inizia il lungo braccio di ferro tra Barcellona e
Madrid, passato per la grande manifestazione indipendentista dell’11 settembre
2012 e dal sondaggio consultivo del 9 novembre 2014 (in cui il l’80% dei
votanti, pari però solo al 30% degli aventi diritto, si esprime a favore
dell’indipendenza).
La bocciatura da parte della
Corte costituzionale dello Statuto del 2006 spiega però solo in parte la
dinamica degli ultimi anni. E soprattutto non spiega interamente perché le
formazioni catalaniste siano passate nell’arco di pochi anni dalle tradizionali
posizioni autonomiste a rivendicazioni esplicitamente indipendentiste. Un
fattore tutt’altro che secondario è infatti la crisi che coinvolge in tutta
Europa i partiti tradizionali e che porta al successo nuove formazioni, un po’
sbrigativamente chiamiate spesso “populiste”. La virata verso l’indipendentismo
può infatti essere pienamente compresa solo all’interno di questo quadro.
A partire proprio dal 2010, lo
scoppio della bolla immobiliare, l’esplosione della disoccupazione e i tagli al
welfare sanciti prima dal governo
Zapatero e poi dal governo Rajoy alimentano un clima di sfiducia e risentimento
nei confronti della classe politica, che porta alla nascita di nuove forze
“anti-casta” come Podemos e Ciudadanos. Anche Convergéncia i Unió (CiU), la coalizione per
decenni alla guida della Generalitat e
principale espressione dell’autonomismo catalano, finisce però con l’essere minacciata
dal nuovo clima, se non altro perché il suo leader storico, Jordi Pujol, viene
coinvolto in vari scandali giudiziari. Per far fronte a questa situazione CiU e
il suo nuovo leader Artur Mas iniziano, in occasione delle elezioni autonomiche
del 2012, a virare verso posizioni indipendentiste. E, contemporaneamente, incomincia
ad aumentare nell’opinione pubblica anche il sostegno al progetto
indipendentista.
In vista delle elezioni del
settembre 2015, seguendo la nuova onda, si modifica il quadro del sistema
politico catalano. Anche per effetto del terremoto politico che sta
sconvolgendo la Spagna e la stessa Catalogna (dove a Barcellona le elezioni amministrativa
vedono l’affermazione di una coalizione di sinistra radicale vicina a Podemos),
Convergéncia i
Unió si divide in due componenti: una contraria a ogni ipotesi secessionista
(Unió Democratica de Catalunya), l’altra, Convergència Democràtica de
Catalunya, guidata da Mas e a capo di una coalizione indipendentista, Junts pel
Sí (JxSí), che comprende anche Esquerra Republicana de Catalunya (Erc), un
partito repubblicano di centro-sinistra. Nel complesso le forze indipendentiste
ottengono il 47% dei suffragi, ma riescono a conquistare la maggioranza
assoluta dei seggi. Il governo si forma comunque solo dopo mesi di trattative,
grazie al sostegno di una formazione di sinistra radicale catalanista come
Candidatura d’Unitat Popular (Cup), decisiva con i suoi 10 seggi per sostenere
una maggioranza. E a tenere faticosamente insieme questo fronte tanto
eterogeneo – che va dalla destra fino all’estrema sinistra – è proprio un programma
che promette di giungere all’indipendenza entro un anno e mezzo.
Il
nuovo governo della Generalitat, guidato da una figura minore come Carles Puidgemont
(preferito al troppo ingombrante Mas), risulta però estremamente debole,
costantemente minacciato dalla difficile convivenza delle componenti che lo
sostengono. Ed è in fondo anche la
fragilità delle leadership alla guida oggi sia della Catalogna sia della Spagna
a spiegare la dinamica di questi giorni. Per un verso la fragilità della coalizione
che sostiene Puidgemont – e che trova la propria ragion d’essere solo nella
prospettiva dell’annunciata indipendenza – chiarisce infatti l’accelerazione del
referendum di domenica. Ma, per l’altro, la debolezza del governo Rajoy,
formatosi dopo le elezioni del 26 giugno 2016 (vinte dal PP, ma senza
maggioranza), spiega la posizione di netta chiusura a ogni dialogo da parte di
Madrid. Perché l’atteggiamento duro del governo spagnolo certo ha contribuito a
rafforzare le posizioni degli indipendentisti in Catalogna. Ma, polarizzando la
discussione tra “unionisti” e “indipendentisti”, ha probabilmente irrobustito nel
resto del Paese la popolarità (tutt’altro che solida) di Rajoy, che può
erigersi in questo modo a salvaguardia dell’unità dello Stato e della
Costituzione democratica. Probabilmente, proprio puntando sulla
“catalano-fobia” cresciuta negli ultimi anni in Spagna, Rajoy è riuscito ad
arginare la crisi di consensi del Pp, dovuta anche ai numerosi scandali che
hanno colpito il partito. E questo atteggiamento di chiusura ha favorito, a
partire dal 2011, lo spostamento su posizioni fortemente critiche nei confronti
degli autonomisti dello stesso Partito socialista (che anche per la sua
contrarietà al referendum catalano non aveva trovato un accordo con Podemos per
la formazione di un governo dopo le elezioni del dicembre 2015).
La logica dello scontro potrebbe rivelarsi alla fine
difficile da gestire per entrambi i contendenti. Ma i margini di dialogo
sembrano ormai davvero ridotti al minimo. Dopo il discorso del re Filippo e
l’annuncio dell’imminente dichiarazione di indipendenza da parte di Puidgemont,
lo scenario più probabile rimane l’intervento da parte di Madrid, con lo
scioglimento del Parlamento della Generalitat, l’indizione di nuove elezioni e
probabilmente l’arresto dei leader catalanisti.
Molti osservatori – tra cui lo stesso Puidgemont, ma
anche il leader di Podemos Pablo Iglesias – hanno invocato nei giorni scorsi un
ruolo di mediazione da parte dell’Unione europea. Non tanto perché l’Europa
possa entrare in una questione che, evidentemente, rientra tra gli affari
interni dello Stato spagnolo. Quanto perché probabilmente proprio questa strada
rimane l’unica per attenuare lo scontro, per riportare i contendenti sul
binario del dialogo, per evitare che, sull’onda della contrapposizione e della
tensione emotiva di questi giorni, si giunga a decisioni irrevocabili. E forse
anche per evitare il rischio che l’incertezza politica scateni il panico sulle
piazze finanziarie del Vecchio continente. Ma è tutt’altro che scontato che
l’Europa di oggi – lacerata da molte linee di divisione – trovi davvero la
forza per rispondere a una crisi nata da due debolezze e per gestire uno stallo
politico dalle conseguenze difficilmente prevedibili.
Damiano Palano
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