di Damiano Palano
Questa recensione al volume di M. Panarari, Poteri e informazione. Teorie della comunicazione e storia della manipolazione politica in Italia (1850-1930), Le Monnier, Firenze, 2017, apparsa su
«Avvenire» del 11 agosto 2017.
Quando nel 1917 gli Stati Uniti fecero
il loro ingresso nella Grande guerra, le città americane furono tappezzate da
manifesti che invitavano all’arruolamento. Il più famoso – che davvero tutti
ricordano – ritraeva il volto arcigno dello Zio Sam, con il dito puntato verso l’osservatore,
sopra una didascalia che recitava: «I want you for U.S. Army». Oggetto in
seguito di miriadi di imitazioni, in realtà anche l’affiche dello Zio Sam riprendeva (con una grafica certo più
accattivante) un precedente manifesto britannico, commissionato nel 1914 ad
Alfred Leete dal Comitato parlamentare per il reclutamento. Nella versione
originale a invitare i concittadini a unirsi all’esercito del loro Paese non
era ovviamente lo Zio Sam, ma il feldmaresciallo Horatio Herbert Kitchener,
allora ministro della guerra e in passato governatore imperiale dell’Egitto,
oltre che vincitore della guerra anglo-boera. Ad ogni modo, entrambi quei manifesti
erano il frutto di uno sforzo propagandistico senza precedenti. Perché proprio
nell’officina della Grande guerra divenne chiaro che la comunicazione era ormai
un’arma indispensabile, da gestire con tecniche e logiche molto simili a quelle
dell’industria moderna.
Una ricostruzione delle linee
principali di questa trasformazione è offerta dal volume di Massimiliano
Panarari, Poteri e informazione. Teorie
della comunicazione e storia della manipolazione politica in Italia (1850-1930)
(Le Monnier, pp. 157, euro 14.00), che segue in parallelo la riflessione degli
studiosi sugli effetti dei flussi informativi e le innovazioni adottate nel
mondo politico. Panarari mostra in particolare che anche in Italia la Grande
guerra rappresentò un momento di svolta. All’indomani dell’entrata in guerra, Salvatore
Barzilai, presidente dell’Associazione della Stampa Periodica Italiana, si pose
subito al servizio del governo e fu in effetti nominato ministro da Salandra
nel luglio 1915. Ma una svolta organizzativa si ebbe soprattutto dopo la
tragedia di Caporetto, che portò alla costituzione del «Servizio P», la
Commissione centrale per la propaganda verso il nemico (che vide coinvolti per
esempio Giuseppe Prezzolini, Alfredo Rocco, Gaetano Salvemini e Pietro
Calamandrei). Grazie al supporto di una legislazione restrittiva, i giornali
furono inoltre sottoposti a severi controlli, miranti a garantire la sicurezza
dello Stato. Particolare attenzione venne rivolta alle illustrazioni e alle fotografie
di argomento militare, che potevano essere pubblicate solo a seguito di autorizzazione.
In generale la stampa bellicista pubblicò però soprattutto fotografie fornite
dalla stampa estera, che ritraevano le devastazioni e gli scenari di guerra. La
morte dei soldati italiani non ebbe invece alcuna rappresentazione fotografia,
per evitare la destabilizzazione che quelle immagini avrebbero provocato sulle
famiglie. La rappresentazione del fronte fu piuttosto affidata alle tavole di
Achille Beltrame, che ritraevano la guerra come un romantico scontro tra
eroismi. E la gran parte degli italiani continuò così a pensare che il
conflitto assomigliasse a una «tenzone cavalleresca», che nulla aveva a che fare
con la «guerra totale» che si combatteva nelle trincee. Al tempo stesso, furono
introdotti strumenti di propaganda tra i soldati, con la produzione di
«giornali di trincea», come «Il Grappa» o «La Ghirba» (ideata da Ardengo
Soffici). E furono diffusi veri e propri breviari per una propaganda efficace
tra gli ufficiali addetti alla «sponsorizzazione» dello sforzo bellico presso i
reparti impegnati al fronte.
La
fabbrica della propaganda muoveva allora solo i primi passi. Ma si comprese
subito che l’esperienza della guerra non sarebbe stata solo una parentesi. La
prova che diede nel conflitto lo straordinario apparato propagandistico
statunitense contribuì anzi a innescare la marcia verso l’«americanizzazione»
della comunicazione anche in Europa. E così, se il 1914, come voleva Hobsbawm,
segnò l’ingresso nel «secolo breve» delle ideologie, sancì anche la nascita di
quella propaganda moderna a cui avrebbero attinto anche i regimi autoritari e
totalitari del Novecento. E forse non fu allora un caso se George Orwell, quando
modellò la sagoma del dittatore di Oceania, il Grande fratello di 1984, tornò proprio a quel vecchio
manifesto per il reclutamento del 1914. E al dito puntato con cui il feldmaresciallo
Kitchener invitava i cittadini britannici a entrare nell’esercito di Sua Maestà.
Damiano Palano
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