di
Damiano Palano
Nel
suo recente Non è una questione politica (Italosvevo,
pp. 67, euro 10.00) Alfonso Berardinelli si pone un interrogativo sulla scelta
di adottare il termine «populismo» per indicare quegli attori che negli ultimi
due decenni hanno sfidato i partiti tradizionali. «Mi chiedo da anni chi è che
ha deciso di chiamare ‘populismo’ ogni fenomeno politico che incontra il favore
crescente dei cittadini», scrive infatti il critico (affrontando un nodo che, a
dispetto del titolo del volumetto, è ovviamente ‘politico’). E la risposta che
suggerisce è molto semplice: «Ho detto ‘mi chiedo’. Invece c’è poco da
chiedersi, perché si sa già. Da quasi un quarto di secolo una sinistra che ha perso
il ‘senso della storia’ (per dirla con una sua vecchia formula), che ha perso
la sintonia con quanto avviene nelle nostre società e coccola invece le
minoranze snob prendendo per diritti i loro desideri, se la prende con la
volgarità del ‘popolo’» (p. 16). E, in termini ancora più espliciti, ciò
significa per Berardinelli che la sinistra non rappresenta più quelle classi
sociali di cui era stata (o aveva preteso di essere) il principale referente.
«Se la sinistra non rappresenta né le classi lavoratrici né i ceti medi
proletarizzati, allora vuol dire che rappresenta i mendicanti e l’alta
borghesia. Solo che i mendicanti non ce li vedo a sentirsi rappresentati dal
ceto politico di sinistra. E l’alta borghesia che gode di privilegi esclusivi e
inalterati non ha bisogno di sentirsi di sinistra: si sente giustamente (volevo
dire: realisticamente) al di sopra di una sinistra ridotta tanto male. Se le
cose stanno così, perché la sinistra sputa su quei ‘populisti e demagoghi’ che
invece sono votati dalle ‘classi lavoratrici’ e dai ‘ceti medi proletarizzati’?
Che cos’hanno di ripugnante e di deplorevole questi elettori che votano la
Destra perché la Sinistra non li rappresenta? Mah» (pp. 17-18).
La
lettura dell’insorgenza populista abbozzata da Berardinelli non è in fondo
molto diversa da quella proposta – in termini molto più articolati – da Luca
Ricolfi nel suo recente Sinistra e
popolo. Il conflitto politico nell’era dei populismi (Longanesi, pp. 282,
euro 16.90): un libro che certo potrà risultare urticante per molti lettori che
si riconoscono ancora in quello che fino a poco tempo fa si chiamava «il popolo
della sinistra», ma che merita senz’altro un esame attento. Se non altro perché
Ricolfi cerca di fornire una spiegazione di lungo periodo – e non centrata sulle
dinamiche congiunturali, o sulle abilità dei leader – di quel fenomeno che, più
o meno appropriatamente, siamo ormai abituati a chiamare «populismo».
Il tramonto
della sinistra (e della crescita)
Come
nella provocazione di Berardinelli, anche per Ricolfi uno degli aspetti che
aiutano a comprendere il «populismo» consiste nel ‘divorzio’ tra sinistra e
popolo. Un divorzio che comincia a profilarsi, secondo il sociologo, nel
momento in cui si concludono i «trenta gloriosi» della crescita post-bellica. E
le cui cause sono principalmente economiche e geo-politiche. Se la fiammata
liberista degli anni Ottanta viene a modificare il quadro, in realtà – e qui
Ricolfi coglie un aspetto importante – essa si esaurisce piuttosto rapidamente,
al principio degli anni Novanta, sotto i colpi del mutamento geo-politico.
Inizia proprio allora infatti il rallentamento della crescita dei paesi
occidentali: un rallentamento che risaliva già agli anni Settanta, ma che
diventa progressivamente più rilevante perché si tratta, a partire da questo
momento, di un rallentamento soprattutto in termini ‘relativi’, cioè rispetto
ai ritmi di crescita delle economie del resto del mondo. In altre parole, si
entra in una fase in cui la «convergenza» tra le economie del pianeta inizia a
diventare sempre più visibile e nuovi protagonisti iniziano a insidiare il
primato dei paesi industrializzati. «Il tratto distintivo degli ultimi 20-25
anni è l’uscita progressiva delle maggiori economie occidentali dal core della crescita» (p. 82). E questo
processo si svolge in due tappe successive, all’inizio degli anni Novanta e al
principio del XXI secolo. Ad avviare questa dinamica è, secondo Ricolfi, la
combinazione del crollo dell’impero sovietico (con le sue ricadute in termini
ideologici) e dell’ingresso nell’economia mondiale di nuovi attori, nel quadro
delineato dalla progressiva liberalizzazione dei mercati. Proprio l’entusiasmo
innescato da questo cocktail contagia anche la sinistra e induce a
sottovalutare soprattutto due rischi: quello della velocità eccessiva del
processo di integrazione e quello dell’assenza di limitazioni. Sotto il velo di
una globalizzazione pacifica si annidano però una serie di squilibri, relativi
alla modificazione delle relazioni commerciali tra paesi avanzati e paesi emergenti,
alla finanziarizzazione, al surriscaldamento dei prezzi delle materie prime. E
nella crisi del 2008 – che potrebbe anche segnare l’avvio di una «stagnazione
secolare» - affiorano proprio tutti questi squilibri.
Dinanzi a tali mutamenti la sinistra è rimasta
spiazzata due volte. Al principio degli anni Novanta «è stata spiazzata dai
successi del capitalismo, e lo è stata al punto da convertirsi quasi
istantaneamente alla filosofia del mercato» (p. 100). E poi «il sogno di una
sinistra ‘amica del mercato’ si trasforma in un incubo nel 2008, allo scoppio
della crisi, quando ci si avvede che non si tratta di una normale recessione ma
della crisi di un paradigma, o di un modello di sviluppo, come si sarebbe detto
un tempo» (p. 101). Ma alla base di questo spiazzamento sta per Ricolfi
un’incomprensione di fondo di cosa comporti davvero la globalizzazione. «La
sinistra», scrive, «continua a ragionare come se i problemi fossero rimasti
quelli del mondo sostanzialmente chiuso dei primi decenni del dopoguerra» (p.
102). Invece la situazione è completamente modificata, perché oggi la crescita
dipende principalmente dai paesi emergenti e perché i paesi avanzati – proprio
a causa della globalizzazione – vedranno sempre più ridotto, almeno in termini
relativi, il loro primato. E la sinistra si trova spiazzata per molti motivi:
in primo luogo, «la sinistra riformista non può essere contro la
globalizzazione, non solo perché l’ha mitizzata negli anni Novanta, ma perché –
a dispetto di tutti i suoi limiti e le sue storture – essa resta il più
spettacolare meccanismo egualitario che l’umanità abbia conosciuto»; in secondo
luogo, la globalizzazione «entra automaticamente in sintonia con tutti i più
grandi sogni della sinistra: il cosmopolitismo, l’apertura delle frontiere, la
circolazione delle idee (internet), l’uscita dei paesi arretrati dalla povertà,
la diffusione della democrazia, l’avanzata dei diritti umani (anche a costo di
usare la forza)» (p. 103). I conflitti innescati dalla globalizzazione e la
stessa possibilità che si avvii una fase di stagnazione entrano drammaticamente
in collisione, dunque, con il perno dell’immaginario di sinistra. Se non altro
perché l’assenza di crescita rende impraticabile la strada della
redistribuzione delle risorse.
In questa lettura Ricolfi non manca anche di
sottolineare quelli che a suo avviso sono due errori di valutazione intorno
alla genesi della crisi. Secondo il sociologo, innanzitutto, l’aumento delle
diseguaglianze non avrebbe né preceduto né causato l’insorgere della crisi (ma
per la verità in questo caso il discorso è piuttosto vago, e non è ben chiaro a
quali tesi si riferisca nel momento in cui evoca polemicamente l’idea secondo
cui l’aumento delle diseguaglianze avrebbe determinato la crisi). In secondo
luogo, è a suo avviso scorretto ritenere che dopo la crisi ci sarà comunque una
nuova fase di crescita anche per i paesi avanzati. «Il mondo di domani» - è
questo lo snodo cruciale per Ricolfi - «non è nostro, ma dei paesi giovani, che
hanno voglia di progredire e di produrre» (p. 105).
Piuttosto singolarmente, questo quadro – di per sé
piuttosto cupo, e soprattutto determinista – viene corredato da un’appendice
volontarista del tutto in linea con quello che hanno praticato le grandi forze
di sinistra nel corso dell’ultimo secolo. Perché Ricolfi, dopo avere delineato
queste grandi (e incontrastabili) tendenze globali e avere persino dipinto lo
scenario di una «stagnazione secolare», finisce col sostenere che qualche
riforma potrebbe non solo arrestare la dinamica ma persino invertirla. E, dopo
avere descritto il fallimento della sinistra incapace di governare le
conseguenze della globalizzazione, indica allora come modelli positivi la
Germania (e implicitamente le riforme del governo di Gerhard Schröder) e il
Regno Unito di Tony Blair. «Il bivio è chiaro. Se si sceglie di non fare
niente», scrive infatti, «la torta non crescerà più, e forse comincerà persino
a restringersi. Dall’altra c’è solo la strada tedesca, ma anche britannica:
sacrifici e duro lavoro, per competere e tornare a crescere» (p. 105). Ma, al
di là di questo paradosso (che si spiega col fatto che il discorso guarda al
mondo ma di fatto si riferisce all’Italia e alla sinistra italiana), Ricolfi
indica tre processi con cui diventa indispensabile «fare i conti»: la deindustrializzazione delle economie
occidentali, l’apertura delle frontiere, la prospettiva della stagnazione economica. E sono proprio
questi tre cambiamenti che «rendono terribilmente inattuali la destra e la
sinistra, perlomeno quali le abbiamo conosciute nella seconda metà del
Novecento» (p. 111).
Lo spettro
populista
Nell’indagine
sulle radici del ‘divorzio’ tra sinistra e popolo, Ricolfi non evita di fornire
un’interpretazione dell’insorgenza populista. Ovviamente deve definire il
fenomeno, e da questo punto di vista compie la scelta di considerare il
populismo nei termini di una configurazione ideologica, debolmente definita ma
dai tratti comunque chiari, seguendo una proposta che si avvicina molto a
quella delineata negli ultimi anni da Loris Zanatta. Il populismo per Ricolfi è
infatti, innanzitutto, un modo di concepire la società come «una comunità,
dotata di tradizioni, valori, senso di identità che vanno salvaguardati», e
nella quale gli eventuali nemici «sono concepiti alla stregua di germi o
batteri, ovvero veicoli di infezione, più che come forze sociali portatrici di
legittimi interessi» (p. 117). «Nell’immaginario populista», osserva infatti,
richiamandosi alla visione coltivata da Occupy
Wall Street, «banchieri, speculatori, burocrati, mafiosi, politici e
relativi clientes (ma spesso anche
intellettuali e super-tecnici) costituiscono una minoranza di privilegiati e
profittatori di cui il popolo, per sua natura, deve assolutamente liberarsi»
(p. 117). Ma da questa impostazione derivano anche il rifiuto della democrazia
rappresentativa, la convinzione che per governare siano sufficienti «saggezza e
onestà», l’ostilità nei confronti del «cosmopolitismo, e quindi a tutte le
istituzioni e i corpi politici sovranazionali, come l’Onu o l’Unione Europea»,
e dunque, in generale, la preoccupazione «di difendere la comunità stessa dalle
infezioni, non importa se provenienti dall’interno (corruzione dell’élite) o
dall’esterno (invasione degli stranieri)» (p. 118). Ma, a differenza del
fascismo, la «mentalità populista» non avrebbe secondo Ricolfi ambizioni
espansioniste, perché presenterebbe semmai «la tendenza a non intervenire, a
lasciare che ogni popolo viva e si organizzi a proprio modo, senza subire
pressioni o brutali interventi da parte di altri popoli» (pp. 118-119). Al
tempo stesso, il populismo si discosta dal liberalismo, perché non ne condivide
le matrici individualiste, dal momento che considera come unità di riferimento
il «popolo».
La definizione di Ricolfi – per quanto schematica –
non può evitare i limiti di tutte le proposte che ricerchino nel populismo una
comune radice ideologica. In termini molto sintetici, il problema di queste
proposte è duplice: se si arricchisce molto l’immagine idealtipica del
populismo (a partire magari da alcuni casi paradigmatici, come il populismo
russo, quello statunitense o quello latino-americano), si corre il rischio di
dover escludere dal novero una serie di movimenti e attori che vengono di
solito oggi considerati come populisti; se, viceversa, si sfuma la
caratterizzazione, si rischia di disporre alla fine di un manichino talmente
stilizzato da adattarsi a qualsiasi ideologia e a qualsiasi movimento (e
soprattutto a quelli che di solito non sono interpretati come populisti). Ed è
per molti versi questo il duplice rischio che corre Ricolfi, il quale si trova infatti
in qualche modo costretto a escludere dal novero una serie di «populismi
anomali». Non è infatti certo solo frutto di disattenzione il fatto che Ricolfi
– nonostante riprenda almeno in parte la caratterizzazione del populismo dall’analisi
di Zanatta – escluda dalla genealogia dei populismi storici i casi
latino-americani, per esempio di Vargas e di Perón: altrimenti non potrebbe
infatti indicare come tratto caratterizzante del populismo quella tendenza
anti-statale che invece risulta tanto importante ai fini del suo discorso, per
distinguere nettamente il populismo dalla sinistra. Ma, per quanto concerne la
descrizione dei populismi contemporanei, incontra difficoltà analoghe, quando
esclude dal novero una serie di «populismi anomali»: sul versante di destra, i
casi di Orbán in Ungheria e dei gemelli Kaczynski in Polonia, oltre che di
Putin in Russia, perché a essi «non sempre si affiancano le consuete istanze
iper-democratiche, né una chiara vocazione anti-statale, due aspetti
costitutivi del populismo ‘puro’» (p. 135); sul versante di sinistra, i casi di
Syriza in Grecia e di Podemos in Spagna, i quali «pretendono di far convivere
questi tratti populisti con un’analisi sociale (e delle ricette di politica
economica) più o meno nitidamente riconducibile alla comune matrice di
sinistra, marxista, o addirittura comunista». Ma anche riducendo lo spettro in
questo modo, Ricolfi non può eliminare alcune difficoltà, che sono evidenti a
proposito del caso italiano, perché per esempio – ma si tratta davvero solo di
un esempio – il Movimento 5 Stelle, che è certamente quasi una rappresentazione
paradigmatica del populismo, adotta come proprio cavallo di battaglia la
rivendicazione di una misura come il «reddito di cittadinanza», che – anche a
dispetto del nome un po’ fuorviante, con cui di fatto si indica un sussidio a
fasce deboli – è uno strumento di redistribuzione ‘statalista’ pienamente in
linea con la tradizione di sinistra (o almeno di quella sinistra che è il
bersaglio privilegiato dell’attacco di Ricolfi). Inoltre, anche se il M5S ha di
recente scoperto tutti i vantaggi propagandistici della retorica securitaria, è
davvero difficile negare che nel suo patrimonio genetico non alberghino molti
di quei miti del cosmopolitismo che fiorirono attorno alla Rete, e che Ricolfi
interpreta invece come contrassegni della sinistra non condivisi dal populismo.
In realtà il tentativo definitorio rimane comunque solo
una parentesi priva di sostanziali connessioni con il resto del discorso di
Ricolfi, che infatti, nel momento in cui si pone l’obiettivo di spiegare quali
siano le cause dell’ondata populista, accantona del tutto la definizione
proposta in precedenza, a favore di una scelta molto più semplice. Per misurare
«le variazioni del populismo», Ricolfi infatti adotta «una definizione
relativamente ampia del fenomeno (inclusiva dei populismi ‘anomali’ e degli
euroscetticismi di sinistra)» e inoltre assume «come ambito i 27 paesi
rappresentati nel Parlamento europeo nella scorsa legislatura (2009-2014)» (p.
141). Sulla scorta di una simile definizione – che in fondo, non senza qualche
ragione ma certo in modo un po’ semplicistico, finisce con l’equiparare il
populismo all’«euroscetticismo» - Ricolfi registra effettivamente un consistente
aumento delle forze populiste in ben 15 paesi, mentre 5 mostrano un
arretramento e 7 una situazione stazionaria. «Complessivamente, i seggi del
Parlamento europeo attribuiti a forze populiste sono passati dal 25.2 al 34.4%
e, cosa di un certo interesse, il loro aumento ha riguardato sia forze
populiste considerate di destra (come la Lega o il Front National), sia forze
considerate di sinistra (come Podemos o Syriza), sia forze difficilmente
collocabili sull’asse destra-sinistra (come il Movimento Cinque Stelle)» (p.
142).
Al
di là di tutti i problemi di questo primo risultato, che forse risolve in modo
un po’ impressionistico la questione dell’identificazione dell’explanandum, Ricolfi concentra
l’attenzione soprattutto sull’explanans,
e cioè sulla ricerca della variabile in grado di spiegare il fenomeno. E la
risposta chiama in causa un cocktail che combina le preoccupazioni della crisi
e la paura del terrorismo (misurata da vari indicatori). In altre parole – e si
trova qui il nocciolo del discorso di Ricolfi – è la percezione di insicurezza
a «gonfiare le vele» del populismo. E il fatto che la società diventi
progressivamente «a somma zero» tende ad accrescere il bacino del populismo
proprio perché la percezione che si stia aprendo una stagione di conflitto per
risorse scarse, e non più in crescita, genera insicurezza e aumenta la
richiesta di protezione. «Dietro l’ascesa dei partiti populisti c’è una
crescita imponente della domanda di protezione, che a sua volta deriva dalla
sempre più vasta diffusione di sentimenti di insicurezza, preoccupazione,
paura. Ansie che i partiti populisti prendono estremamente sul serio, e cui
rispondono con la loro promessa di protezione» (p. 165).
Se questo spiega il favore verso i populisti, lo
sfavore nei confronti della sinistra è semplicemente legato al fatto che la
sinistra nega la situazione di insicurezza che viene invece percepita dal
«popolo». E la motivazione è dovuta soprattutto al fatto che la sinistra ha
modificato il proprio bacino sociale di riferimento: «La ragione per cui la
sinistra non vede le richieste di protezione del popolo è semplicemente che
quello non è più il suo popolo. La
sinistra che è emersa dalla rivoluzione della Terza via non ascolta le
richieste e i sentimenti del popolo per l’ottimo motivo che essa, quasi ovunque
e non da ieri […], è diventata la rappresentante di un nuovo blocco sociale, al
cui centro non vi sono più né operai, né ceti deboli, né i cosiddetti ultimi»
(p. 171).
Anche se tutto il libro sembra preludere alla tesi
di una definitiva scomparsa della sinistra, in realtà, una volta reintrodotta
la distinzione tra populismo di destra e populismo di sinistra, Ricolfi sembra
concedere qualche speranza di vita anche a una opzione di sinistra, che però
rimane molto distante da quella che ha guidato entusiasticamente la
globalizzazione. «Il ritorno dei popoli» è d’altronde per il sociologo «la
conseguenza logica (e forse prevedibile) di un fallimento: quello delle élite
che hanno preteso di guidare il processo di integrazione fra le economie del
pianeta, ma non hanno ancora trovato un modo per fronteggiarne le conseguenze
più spiazzanti» (pp. 189-190). Se in questo modo non intona dunque un requiem definitivo alla distinzione tra
destra e sinistra, prevede però che sarà un’altra dialettica a imporsi, quella
tra «apertura» e «chiusura». «Da un lato le forze dell’apertura, che promuovono
l’innovazione e gli scambi in tutti i campi: merci, capitali, persone, segni»
(p. 201). «Dall’altro le forze della chiusura, il cui tratto distintivo non è
di volere la chiusura in tutti gli ambiti, ma di volerla in alcuni e non in
altri. Per esse lo Stato nazionale non è il fine ma il mezzo che può assicurare
la protezione della comunità dai pericoli che la minacciano» (pp. 201-202). E
la previsione formulata da Ricolfi, pur con qualche cautela, sul futuro del
fronte della chiusura è netta: nel caso in cui, «globalizzazione, immigrazione
e terrorismo dovessero lacerare in modo profondo il tessuto della vita
sociale», scrive infatti, «tutto fa pensare che solo le forze populiste saranno
in grado di rappresentare la marea montante della domanda di protezione, e che
la loro risposta non potrà che essere qualche tipo di ristabilimento
dell’autorità degli Stati nazionali nei confronti dei grandi regolatori della
politica e della guerra. [...] A quel punto, più che scomparire dal nostro
lessico, termini come destra e sinistra verranno degradati a meri aggettivi, a
comodi qualificatori dei movimenti populisti» (p. 218).
Proprio la previsione secondo cui la divisione tra
apertura e chiusura contribuirà a ridefinire (più che cancellare) la
distinzione tra destra e sinistra coglie probabilmente nel segno, perché
effettivamente la ‘crisi’ della globalizzazione significherà – più che una
marcia indietro rispetto a ciò cui abbiamo assistito negli ultimi anni – una
ridefinizione delle regole, che coinvolgerà le istituzioni internazionali e, va
da sé, l’Unione europea. E proprio questo scenario – che discende d’altronde da
una lettura per larga parte condivisibile delle tendenze di lungo periodo che
attraversano le società occidentali – rappresenta uno degli aspetti più
interessanti del volume.
Molto meno convincente – lo si è visto – è invece la
lettura del populismo che Ricolfi propone. Il sociologo non può infatti portare
fino in fondo la scelta di considerare il populismo come una mentalità o
un’ideologia debole. E in corso d’opera si trova dunque costretto ad
abbandonare la definizione proposta in precedenza, per limitarsi a raccogliere
nel novero dei populismi tutti gli ‘sfidanti’ delle forze tradizionali. Una
simile difficoltà – si potrebbe anche osservare – non inficia più di tanto il
discorso, ma evidentemente pone qualche problema, se non altro perché in questo
modo la linea di distinzione tra chi è populista e chi non lo è diventa davvero
tanto labile da diventare inutilizzabile.
Un mondo
insicuro?
Un
problema che si può ravvisare tra le righe del discorso di Ricolfi non riguarda
però tanto la scarsa distinzione tra populisti e non populisti, quanto
l’incerta linea di demarcazione tra la ‘realtà’ (misurata da indicatori
economici) e le ‘percezioni’ della realtà che i cittadini possono avere (e che
orientano i loro comportamenti e soprattutto le loro scelte elettorali). Per
esempio, quando Ricolfi ricostruisce le dinamiche economiche dell’ultimo mezzo
secolo utilizza dati quantitativi. E anche quando considera l’impatto della
crisi, prende in esame i dati relativi al reddito, all’occupazione, alla
disoccupazione, ossia dati che – come sappiamo – possono prestarsi sempre a
interpretazioni divergenti, ma che, nondimeno, forniscono una base
relativamente certa, se forse non davvero del tutto ‘oggettiva’. Ma quando si
spinge a rilevare il ruolo che hanno la «paura della immigrazione» e la «paura
del terrorismo», ovviamente considera fattori del tutto ‘soggettivi’: fattori
che possono essere misurati da rilevazioni del clima di opinione, ma che non
possono essere confusi con la realtà. E il problema del ragionamento non
risiede nel tipo di cocktail che Ricolfi ravvisa alla base della fortuna del
populismo. D’altronde le percezioni in politica sono state sempre importanti,
hanno anzi sempre avuto un ruolo cruciale nella definizione della realtà, e
dunque non è sorprendete che la fortuna del populismo sia legata soprattutto ad
alcuni percezioni, o che il terrorismo – le cui azioni si giocano sugli effetti
spettacolari e sulla paura che si riesce a generare, molto più che sugli
aspetti materiali della violenza – contribuisca a rafforzare l’immagine di un
mondo insicuro alla base del successo populista. Il problema del discorso di
Ricolfi consiste invece nella conclusione ‘politica’ che fa discendere da
quella spiegazione.
Riassumendo brutalmente lo schema argomentativo di Sinistra e popolo, il populismo secondo
Ricolfi è la conseguenza di una serie di dinamiche strettamente connesse: il «popolo»
ha paura del terrorismo, e questa paura (talvolta alimentata da reali eventi
terroristici) innesca o amplifica la paura nei confronti di tendenze criminose
di cui sono portatori gli stranieri, o che sono comunque attribuite
principalmente alla presenza di cittadini stranieri nel territorio del paese;
una simile percezione di insicurezza – combinata con gli effetti della crisi –
spinge inoltre verso la richiesta di protezione indirizzata dai ceti popolari
alle forze populiste, le quali, a loro volta, issano la bandiera della ‘chiusura’
delle frontiere a ciò che proviene da ‘fuori’. E proprio sulla scorta di una
simile lettura, Ricolfi sostiene dunque che la sinistra non è in grado di
comprendere le richieste di protezione del popolo, semplicemente perché – per
motivi culturali e per il mutamento intervenuto nella propria base elettorale –
non ‘vede’ questi problemi, e, anzi, nega che esistano. Ma in questo modo,
Ricolfi non sembra più ragionare sulle percezioni, perché sembra piuttosto dare
per scontato che effettivamente il problema esista nella realtà. E ciò non
significa che il problema non possa esistere. Ma Ricolfi, di solito così
attento ai dati quantitativi, in questo caso dovrebbe quantomeno dimostrare,
per esempio, che nell’ultimo quarto di secolo – ossia da quando è cominciato il
tracollo politico e culturale della sinistra – il livello di criminalità nelle
nostre città è cresciuto sensibilmente, che il numero di omicidi è cresciuto, che
le rapine, le violenze sessuali e le aggressioni sono aumentate in misura
notevole, e cioè che il livello di insicurezza ha fatto registrare un
incremento reale. Ma – a dispetto della percezione di vivere in un mondo sempre
più violento e insicuro, che quasi ognuno di noi ha – le cose non stanno proprio
così. Dal principio degli anni Novanta a oggi, il numero di omicidi in Italia
non solo è calato, ma è addirittura sceso a meno di un quarto rispetto al
livello di un quarto di secolo fa. Un calo – per quanto meno marcato – si è
verificato inoltre per molti tipi di reato, come le aggressioni a sfondo
sessuale, i furti di auto e i sequestri di persona. Per reati come le rapine e
i furti in appartamento i dati segnalano maggiori oscillazioni, e soprattutto
nel centro-nord gli scippi sembrano far segnare un relativo incremento. Persino
i reati compiuti da stranieri non sembrano registrare un aumento in termini
percentuali, almeno nel corso dell’ultimo decennio. Ma certo – in un quadro
segnato da una complessiva diminuzione della violenza – la rilevanza in termini
relativi di alcuni reati, come i borseggi compiuti da stranieri e i
femminicidi, può crescere. E proprio questo contribuisce probabilmente a
rafforzare la percezione di un aumento dell’insicurezza individuale e sociale.
Ma se la situazione è questa, dovremmo allora chiederci
se la paura ‘percepita’ – un po’ come il caldo ‘percepito’, che ci sembra più
soffocante ogni volta che la tv ce lo descrive – non sia anche un prodotto
‘politico’, o comunque ‘culturale’ (al quale contribuisce la classe politica,
ma nella cui costruzione gioca un ruolo cruciale ovviamente il circuito
mediatico). E dunque dovremmo chiederci se il populismo non sia tanto una
conseguenza dell’aumento della percezione dell’insicurezza, quanto anche una
sua causa, nella misura in cui esso riesce a costruire una rappresentazione
della realtà capace di diventare senso comune e di imporsi con la forza di un
dato di fatto. Se le cose stessero davvero così, la spiegazione di Ricolfi non
perderebbe ovviamente un grammo della propria importanza, proprio perché da
sempre le percezioni della realtà in politica contano almeno quanto (e spesso
di più) della realtà stessa. Ma la sua critica della sinistra invece sì. Non
solo perché di fatto le forze del centro-sinistra hanno nei fatti spesso
raccolto gli allarmi sull’insicurezza, a livello nazionale e a livello locale.
Ma anche per un problema più sostanziale, che ha direttamente a che vedere con
l’accusa mossa da Ricolfi all’indifferenza della sinistra ai problemi della
sicurezza. In altre parole, forse si potrebbe imputare infatti alla sinistra di
non aver saputo contrastare con vigore e con armi adeguate la retorica
dell’insicurezza (e la lettura che imputa ai flussi di profughi che giungono in
Italia l’origine dell’insicurezza). Ma non le si potrebbe imputare la colpa di
avere negato, o sottovalutato, l’esistenza di problemi che sono almeno in parte
il frutto di una rappresentazione della realtà. Perché altrimenti – in chiave
retrospettiva – si dovrebbe rimproverare al partito socialdemocratico e ai
partiti centristi al governo nella Germania degli anni Venti la responsabilità di
non aver seguito i nazionalsocialisti nella loro campagna antisemita, e dunque
di avere negato l’esistenza di un grande complotto ebraico, ossia proprio di
ciò che una parte del «popolo» - nella propria percezione – riteneva fosse la
causa della rovina tedesca.
Se proprio in questa distorsione si può riconoscere
il riflesso della scarsa considerazione che Ricolfi nutre nei confronti del
ceto politico della sinistra italiana, e se dunque l’eccesso polemico ha una
chiara origine ‘politica’ (più che teorica), il libro del sociologo – che rimane
comunque una lettura ricchissima di spunti di riflessione, specie per l’idea di
legare l’insorgenza populista al profilarsi di quella «stagnazione secolare»
destinata probabilmente a segnare i decenni a venire – può anche essere letto
come un documento della fase che stiamo vivendo. Una fase in cui, davvero, iniziamo
a ritenere che la divaricazione tra chiusura e apertura debba diventare molto
più significativa della vecchia divisione tra destra e sinistra. Ma in cui
anche i concetti si fanno più nebulosi e sfuggenti. E in cui la percezione di
vivere in un mondo più insicuro – in un mondo ogni giorno più insidioso,
assediato da barbari e violenza – finisce col diventare più reale della realtà.
Damiano Palano
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