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sabato 19 agosto 2017

La forma politica del vuoto. Il «populismo 2.0» secondo Marco Revelli




 di Damiano Palano

Un paio d’anni fa, in Dentro e contro. Quando il populismo è di governo (Laterza, Roma – Bari, 2015), Marco Revelli forniva una lettura delle dinamiche che avevano condotto Matteo Renzi a Palazzo Chigi e dunque alla nascita di una sorta di inedito «populismo istituzionale». Nell’introduzione a quel volume, guardando ai primi due anni di governo dell’ex sindaco di Firenze, Revelli formulava anche una previsione, che intravedeva già nell’immediato futuro il profilarsi di difficoltà che avrebbero potuto rendere effimeri i successi renziani: «la marcia si è fatta, col tempo, meno trionfale. Le fragilità culturali e i difetti di carattere hanno scavato in quel piedistallo di consenso che le elezioni europee gli avevano regalato. Lo stesso partito che aveva scalato per scalare il paese si va facendo ogni giorno più volatile ed evanescente, man mano che la leadership carismatica si attenua e stenta a funzionare come polarità aggregante dall’alto, mentre i potentati locali vanno assomigliando a premoderne marche di confine. È comunque ipotizzabile, visti i cattivi venti che spirano dall’alto d’Europa, che il suo cammino – sia pure più tortuoso e impervio – continui, sostenuto da un’oligarchia sovrana ancora potente e, a livello continentale, ancora scarsamente contrastata. Oppure è possibile, come temono (o sperano) in molti, che Matteo Renzi non riesca a portare in fondo il proprio progetto per sedersi infine sul trono che si è costruito. Che, come il cattivo giocatore di poker costretto a rilanciare continuamente la posta a ogni mano perduta, alla resa dei conti […] finisca per inciampare. E faccia default, consegnando il paese – e noi stessi – a un altro, persino più aggressivo e demagogo di lui. In ogni caso, ci troveremmo comunque in una post-democrazia dal profilo inedito. E – questo è certo – assai meno desiderabile» (p. XI).
Come sappiamo, il 4 dicembre 2016 l’avventura di Renzi si è conclusa (probabilmente per sempre), anche se il «default» paventato da Revelli non si è – fortunatamente – verificato. Nel tempo trascorso dalla pubblicazione di Dentro e contro la situazione non si è però modificata solo in Italia, perché l’onda ‘populista’ - in particolare con la vittoria di Donald Trump e l’esito del referendum britannico sull’uscita dall’Ue – ha raggiunto in buona parte dell’Occidente livelli che solo due anni fa sembravano quantomeno improbabili. Nel suo nuovo libro Populismo 2.0 (Einaudi, pp. 155, euro 12.00) – per molti versi un ulteriore capitolo di quel ‘diario politico’ in pubblico che Revelli tiene da qualche anno – lo sguardo si estende proprio alle democrazie mature, ormai indirizzate verso una deriva ‘postdemocratica’ e sempre più affollate di movimenti e partiti definiti, più o meno propriamente, «populisti». Revelli non rifiuta l’etichetta, ma non può evitare di porsi il problema di ‘cosa’ sia davvero il «populismo». Il dibattito degli scienziati sociali non ha infatti sciolto la questione, e le proposte sono così davvero molto lontane dal raggiugere una visione condivisa (per un orientamento si può dare un’occhiata a D. Palano, Populismo, Bibliografica, Milano, 2017). Il politologo olandese Cas Mudde ritiene per esempio di poter riconoscere nel populismo un’ideologia debolmente strutturata, mentre altri, come Marco Tarchi, lo considerano piuttosto una «mentalità», e cioè come un modo di concepire la politica e il suo funzionamento. Un altro importante filone di studi – tra cui spiccano le ricerche di Margaret Canovan e Pierre-André Taguieff – intende invece il populismo prevalentemente come uno stile politico, contrassegnato soprattutto dall’appello al popolo, mentre la nota e discussa teoria di Ernesto Laclau propone di individuare nel populismo il paradigma della logica discorsiva che guida la formazione delle identità politiche.
Per Revelli il populismo è invece soprattutto il «sintomo» della malattia che investe la democrazia rappresentativa. Il vecchio populismo americano di fine Ottocento era infatti una «malattia infantile della democrazia», legata al fatto che «ancora la ristrettezza del suffragio e le barriere classiste tenevano fuori dal gioco una parte della cittadinanza» (p. 3). Mentre il populismo 2.0 di oggi insorge, come «malattia senile della democrazia», «quando l’estenuazione dei processi democratici e il ritorno in forza di dinamiche oligarchiche nel cuore delle democrazie mature rimettono ai margini o tradiscono il mandato di un popolo rimasto ‘senza scettro’» (pp. 3-4). In entrambi i casi, comunque, «la ‘sindrome populista’ […] è il prodotto di un deficit di rappresentanza» (p. 4). Ma, in ogni caso, Revelli sottolinea che non si tratta di un’ideologia o di un movimento analogo ad altri ismi, bensì di una sorta di stato d’animo: «è un’entità molto più impalpabile e meno identificabile entro specifici confini e involucri. È uno stato d’animo. Un mood. La forma informe che assumono il disagio e i conati di protesta nelle società sfarinate e lavorate dalla globalizzazione e dalla finanza totale […] nell’epoca dell’assenza di voce e di organizzazione» (p. 10).
Nella sua indagine Revelli parte dal successo di Trump, ed è proprio l’esito imprevisto delle elezioni presidenziali americane a illustrare uno dei tratti del populismo 2.0. Il voto per Trump non è infatti «la rivolta dei poveri», bensì «la vendetta dei deprivati», di «quelli che hanno perso qualcosa», e cioè «il proprio primato di maschio, un pezzo del proprio reddito, non importa quanto alto questo fosse, il proprio status sociale, il riconoscimento del proprio lavoro, il rispetto per la propria fede, il proprio Paese e il suo ruolo nel mondo, la sua potenza, la sua egemonia» (p. 64). E mentre il populismo delle origini cercava la risposta alle proprie domande in «uno scarmigliato uomo delle montagne» come Andrew Jackson, il populismo 2.0 spinge le masse ad affidarsi a un miliardario, un esponente dell’alto della società, come Donald Trump. La chiave di lettura centrata sull’insorgenza populista come «vendetta dei deprivati» guida Revelli anche nell’indagine sulla Brexit, sulle sorti del Front National francese e sull’ascesa di Alternative für Deutschland, anche se in tutti questi casi la paura nei confronti dei flussi migratori sembra spesso diventare preponderante rispetto a ogni considerazione puramente economico-sociale. Ma il viaggio di Revelli non può non concludersi proprio sulle sorti dei tre neo-populismi italiani: il «telepopulismo» berlusconiano, il «cyberpopulismo» grillino, il «populismo dall’alto» di Matteo Renzi. E proprio a proposito degli esiti del referendum costituzionale del 4 dicembre Revelli formula una lettura forse in parte forzata, anche se indubbiamente fondata su alcuni elementi reali. «Il ‘populismo dall’alto’ sperimentato per quasi un triennio», scrive infatti, «si è infranto su una volontà popolare mossasi, in basso, in direzione ostinata e contraria», «come se, con quel voto, per una sorta di nemesi politica, i fautori della riforma e sponsor primari del referendum fossero stati riportati a forza nell’ambito della deprecata (e minoritaria) élite, e il Popolo si fosse ripreso la propria autonomia dal Governo» (pp. 141-142). O, in termini ancora più radicali: «Significa che le parti dolenti della nostra società, i settori più fragili e più provati, il mondo del lavoro e i ceti medi impoveriti, quelli che stanno fuori dalle narrative di potere, sentono la Carta costituzionale come ‘loro’: un ombrello e una protezione sotto cui ripararsi» (pp. 145-146). 
Ma al di là di questa lettura, è particolarmente significativa l’interpretazione che Revelli fornisce del populismo contemporaneo come risposta del basso della società globale a quella «guerra» dichiarata dall’alto di cui parlava Luciano Gallino. E dunque come conseguenza della sconfitta patita dal movimento operaio novecentesco proprio nei luoghi in cui si era concentrata la sua forza: «Quell’ex protagonista che aveva alimentato il simbolismo e l’immaginario oltre al consenso elettorale e all’apparato organizzativo di tutte le articolate sinistre del ‘secolo del lavoro’ è ora un’ampia componente del nucleo duro, forse non maggioritaria ma sicuramente coriacea, dell’estesa galassia in cui si esprime l’insorgenza populista attuale. Ad esso si è aggiunta negli ultimi anni la massa eterogenea di quello che invece tradizionalmente fu il principale fattore di equilibrio, di stabilità e di ‘moderazione’ delle società occidentali: la ‘guardia bianca’ delle democrazie rappresentative. Impoverita, questa, ferita, e declassata, non tanto dai tagli salariali e dalla marginalizzazione del lavoro (in parte anche da questo) ma soprattutto dall’inversione di segno che hanno avuto nella crisi le rendite finanziarie. […] Formano, tutti insieme, una moltitudine di insoddisfatti e di arrabbiati – di ‘traditi’, soprattutto, o di autopercepiti tali –, trasversalmente distribuiti nelle società occidentali, estranei alle tradizionali culture politiche perché nessuna di esse riflette più la loro nuova condizione. Spaesati essi stessi rispetto alla propria inedita condizione di homeless della politica. Umiliati dalla distanza che vedono crescere nei confronti dei pochi che stanno sulla cuspide della piramide (pochi, ma gli unici visibili nello spazio mediatico che ha sostituito tutti i precedenti spazi pubblici). Privi di un linguaggio adeguato a comunicare il proprio racconto, persino a strutturare un racconto di sé, e per questo consegnati al risentimento e al rancore» (pp. 152-153).
Anche se le parole con cui descrive la «moltitudine di insoddisfatti e di arrabbiati» alla base della fortuna del populismo 2.0 possono suonare retoriche, o eccessivamente catastrofiste (come d’altronde spesso accade nei libri del ricercatore piemontese), Revelli coglie però nel segno quando ritrova il fattore capace di spiegare l’insorgenza dei «nuovi barbari» nel ‘vuoto’ politico che contrassegna molte democrazie occidentali. Se si vuole sottrarre il termine all’utilizzo che ne viene fatto nella polemica quotidiana, si dovrebbe infatti riconoscere che il populismo – lungi dall’essere un ismo analogo a molti altri, come opportunamente sottolinea Revelli – è una logica del discorso politico, che qualsiasi movimento può teoricamente fare propria, e che è in grado di stabilire una linea di separazione tra popolo ed élite, ma anche di definire ‘cosa’ sia il popolo. E soprattutto si dovrebbe riconoscere che la logica populista è in grado di diventare uno strumento particolarmente allettante per tutti quei soggetti politici – non necessariamente di ‘destra’ – che ambiscano a occupare uno spazio lasciato libero dalla dissoluzione delle vecchie identità politiche, dalla disgregazione del sistema partitico, dalla rottura del rapporto tra società e ceto politico. Ma proprio per questo motivo, il populismo ha probabilmente in mano ancora molte carte da giocare, e non è affatto indirizzato verso il viale del tramonto, come qualcuno ha sostenuto dopo l’esito delle elezioni in Olanda e in Francia. Perché davvero, come coglie bene lo sguardo di Revelli, lo sfaldamento delle tradizioni politiche europee, lo sgretolamento del tessuto identitario, o anche il disallineamento fra identità e partiti, contribuisce giorno dopo giorno a rendere più ampia la voragine che si apre nel cuore delle democrazie occidentali.

 Damiano Palano

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