di
Damiano Palano
Un
paio d’anni fa, in Dentro e contro.
Quando il populismo è di governo (Laterza, Roma – Bari, 2015), Marco
Revelli forniva una lettura delle dinamiche che avevano condotto Matteo Renzi a
Palazzo Chigi e dunque alla nascita di una sorta di inedito «populismo
istituzionale». Nell’introduzione a quel volume, guardando ai primi due anni di
governo dell’ex sindaco di Firenze, Revelli formulava anche una previsione, che
intravedeva già nell’immediato futuro il profilarsi di difficoltà che avrebbero
potuto rendere effimeri i successi renziani: «la marcia si è fatta, col tempo,
meno trionfale. Le fragilità culturali e i difetti di carattere hanno scavato
in quel piedistallo di consenso che le elezioni europee gli avevano regalato.
Lo stesso partito che aveva scalato
per scalare il paese si va facendo
ogni giorno più volatile ed evanescente, man mano che la leadership carismatica
si attenua e stenta a funzionare come polarità aggregante dall’alto, mentre i
potentati locali vanno assomigliando a premoderne marche di confine. È comunque
ipotizzabile, visti i cattivi venti che spirano dall’alto d’Europa, che il suo
cammino – sia pure più tortuoso e impervio – continui, sostenuto da un’oligarchia
sovrana ancora potente e, a livello continentale, ancora scarsamente
contrastata. Oppure è possibile, come temono (o sperano) in molti, che Matteo
Renzi non riesca a portare in fondo il proprio progetto per sedersi infine sul
trono che si è costruito. Che, come il cattivo giocatore di poker costretto a
rilanciare continuamente la posta a ogni mano perduta, alla resa dei conti […]
finisca per inciampare. E faccia default, consegnando il paese – e noi stessi –
a un altro, persino più aggressivo e demagogo di lui. In ogni caso, ci
troveremmo comunque in una post-democrazia dal profilo inedito. E – questo è
certo – assai meno desiderabile» (p. XI).
Come sappiamo, il 4
dicembre 2016 l’avventura di Renzi si è conclusa (probabilmente per sempre),
anche se il «default» paventato da Revelli non si è – fortunatamente –
verificato. Nel tempo trascorso dalla pubblicazione di Dentro e contro la situazione non si è però modificata solo in
Italia, perché l’onda ‘populista’ - in particolare con la vittoria di Donald
Trump e l’esito del referendum britannico sull’uscita dall’Ue – ha raggiunto in
buona parte dell’Occidente livelli che solo due anni fa sembravano quantomeno
improbabili. Nel suo nuovo libro
Populismo 2.0 (Einaudi, pp. 155, euro 12.00) – per molti versi un ulteriore
capitolo di quel ‘diario politico’ in pubblico che Revelli tiene da qualche
anno – lo sguardo si estende proprio alle democrazie mature, ormai indirizzate
verso una deriva ‘postdemocratica’ e sempre più affollate di movimenti e
partiti definiti, più o meno propriamente, «populisti». Revelli non rifiuta
l’etichetta, ma non può evitare di porsi il problema di ‘cosa’ sia davvero il
«populismo». Il dibattito degli scienziati sociali non ha infatti sciolto la
questione, e le proposte sono così davvero molto lontane dal raggiugere una
visione condivisa (per un orientamento si può dare un’occhiata a D. Palano, Populismo, Bibliografica, Milano, 2017).
Il politologo olandese Cas Mudde ritiene per esempio di poter riconoscere nel
populismo un’ideologia debolmente strutturata, mentre altri, come Marco Tarchi,
lo considerano piuttosto una «mentalità», e cioè come un modo di concepire la
politica e il suo funzionamento. Un altro importante filone di studi – tra cui
spiccano le ricerche di Margaret Canovan e Pierre-André Taguieff – intende
invece il populismo prevalentemente come uno stile politico, contrassegnato
soprattutto dall’appello al popolo, mentre la nota e discussa teoria di Ernesto
Laclau propone di individuare nel populismo il paradigma della logica
discorsiva che guida la formazione delle identità politiche.
Per Revelli il
populismo è invece soprattutto il «sintomo» della malattia che investe la
democrazia rappresentativa. Il vecchio populismo americano di fine Ottocento
era infatti una «malattia infantile della democrazia», legata al fatto che
«ancora la ristrettezza del suffragio e le barriere classiste tenevano fuori dal gioco una parte della
cittadinanza» (p. 3). Mentre il populismo 2.0 di oggi insorge, come «malattia
senile della democrazia», «quando l’estenuazione dei processi democratici e il
ritorno in forza di dinamiche oligarchiche nel cuore delle democrazie mature
rimettono ai margini o tradiscono il mandato di un popolo rimasto ‘senza
scettro’» (pp. 3-4). In entrambi i casi, comunque, «la ‘sindrome populista’ […]
è il prodotto di un deficit di rappresentanza» (p. 4). Ma, in ogni caso,
Revelli sottolinea che non si tratta di un’ideologia o di un movimento analogo
ad altri ismi, bensì di una sorta di
stato d’animo: «è un’entità molto più impalpabile e meno identificabile entro
specifici confini e involucri. È uno stato d’animo. Un mood. La forma informe che assumono il disagio e i conati di
protesta nelle società sfarinate e lavorate dalla globalizzazione e dalla
finanza totale […] nell’epoca dell’assenza di voce e di organizzazione» (p.
10).
Nella sua indagine
Revelli parte dal successo di Trump, ed è proprio l’esito imprevisto delle
elezioni presidenziali americane a illustrare uno dei tratti del populismo 2.0.
Il voto per Trump non è infatti «la rivolta dei poveri», bensì «la vendetta dei
deprivati», di «quelli che hanno perso qualcosa», e cioè «il proprio primato di
maschio, un pezzo del proprio reddito, non importa quanto alto questo fosse, il
proprio status sociale, il riconoscimento del proprio lavoro, il rispetto per
la propria fede, il proprio Paese e il suo ruolo nel mondo, la sua potenza, la
sua egemonia» (p. 64). E mentre il populismo delle origini cercava la risposta
alle proprie domande in «uno scarmigliato uomo delle montagne» come Andrew
Jackson, il populismo 2.0 spinge le masse ad affidarsi a un miliardario, un
esponente dell’alto della società,
come Donald Trump. La chiave di lettura centrata sull’insorgenza populista come
«vendetta dei deprivati» guida Revelli anche nell’indagine sulla Brexit, sulle
sorti del Front National francese e sull’ascesa di Alternative für Deutschland,
anche se in tutti questi casi la paura nei confronti dei flussi migratori
sembra spesso diventare preponderante rispetto a ogni considerazione puramente
economico-sociale. Ma il viaggio di Revelli non può non concludersi proprio
sulle sorti dei tre neo-populismi italiani: il «telepopulismo» berlusconiano,
il «cyberpopulismo» grillino, il «populismo dall’alto» di Matteo Renzi. E
proprio a proposito degli esiti del referendum costituzionale del 4 dicembre
Revelli formula una lettura forse in parte forzata, anche se indubbiamente
fondata su alcuni elementi reali. «Il ‘populismo dall’alto’ sperimentato per
quasi un triennio», scrive infatti, «si è infranto su una volontà popolare
mossasi, in basso, in direzione ostinata e contraria», «come se, con quel voto,
per una sorta di nemesi politica, i fautori della riforma e sponsor primari del
referendum fossero stati riportati a forza nell’ambito della deprecata (e
minoritaria) élite, e il Popolo si fosse ripreso la propria autonomia dal
Governo» (pp. 141-142). O, in termini ancora più radicali: «Significa che le
parti dolenti della nostra società, i settori più fragili e più provati, il
mondo del lavoro e i ceti medi impoveriti, quelli che stanno fuori dalle
narrative di potere, sentono la Carta costituzionale come ‘loro’: un ombrello e
una protezione sotto cui ripararsi» (pp. 145-146).
Ma al di là di questa
lettura, è particolarmente significativa l’interpretazione che Revelli fornisce
del populismo contemporaneo come risposta del basso della società globale a quella «guerra» dichiarata dall’alto di cui parlava Luciano Gallino. E
dunque come conseguenza della sconfitta patita dal movimento operaio
novecentesco proprio nei luoghi in cui si era concentrata la sua forza:
«Quell’ex protagonista che aveva alimentato il simbolismo e l’immaginario oltre
al consenso elettorale e all’apparato organizzativo di tutte le articolate
sinistre del ‘secolo del lavoro’ è ora un’ampia componente del nucleo duro,
forse non maggioritaria ma sicuramente coriacea, dell’estesa galassia in cui si
esprime l’insorgenza populista attuale. Ad esso si è aggiunta negli ultimi anni
la massa eterogenea di quello che invece tradizionalmente fu il principale
fattore di equilibrio, di stabilità e di ‘moderazione’ delle società
occidentali: la ‘guardia bianca’ delle democrazie rappresentative. Impoverita,
questa, ferita, e declassata, non tanto dai tagli salariali e dalla
marginalizzazione del lavoro (in parte anche da questo) ma soprattutto
dall’inversione di segno che hanno avuto nella crisi le rendite finanziarie.
[…] Formano, tutti insieme, una moltitudine di insoddisfatti e di arrabbiati –
di ‘traditi’, soprattutto, o di autopercepiti tali –, trasversalmente
distribuiti nelle società occidentali, estranei alle tradizionali culture
politiche perché nessuna di esse riflette più la loro nuova condizione.
Spaesati essi stessi rispetto alla propria inedita condizione di homeless della politica. Umiliati dalla
distanza che vedono crescere nei confronti dei pochi che stanno sulla cuspide
della piramide (pochi, ma gli unici visibili nello spazio mediatico che ha
sostituito tutti i precedenti spazi pubblici). Privi di un linguaggio adeguato
a comunicare il proprio racconto, persino a strutturare un racconto di sé, e
per questo consegnati al risentimento e al rancore» (pp. 152-153).
Anche se le parole
con cui descrive la «moltitudine di insoddisfatti e di arrabbiati» alla base
della fortuna del populismo 2.0 possono suonare retoriche, o eccessivamente
catastrofiste (come d’altronde spesso accade nei libri del ricercatore
piemontese), Revelli coglie però nel segno quando ritrova il fattore capace di
spiegare l’insorgenza dei «nuovi barbari» nel ‘vuoto’ politico che contrassegna
molte democrazie occidentali. Se si vuole sottrarre il termine all’utilizzo che
ne viene fatto nella polemica quotidiana, si dovrebbe infatti riconoscere che
il populismo – lungi dall’essere un ismo
analogo a molti altri, come opportunamente sottolinea Revelli – è una logica
del discorso politico, che qualsiasi movimento può teoricamente fare propria, e
che è in grado di stabilire una linea di separazione tra popolo ed élite, ma
anche di definire ‘cosa’ sia il popolo. E soprattutto si dovrebbe riconoscere
che la logica populista è in grado di diventare uno strumento particolarmente
allettante per tutti quei soggetti politici – non necessariamente di ‘destra’ –
che ambiscano a occupare uno spazio lasciato libero dalla dissoluzione delle
vecchie identità politiche, dalla disgregazione del sistema partitico, dalla
rottura del rapporto tra società e ceto politico. Ma proprio per questo motivo,
il populismo ha probabilmente in mano ancora molte carte da giocare, e non è
affatto indirizzato verso il viale del tramonto, come qualcuno ha sostenuto
dopo l’esito delle elezioni in Olanda e in Francia. Perché davvero, come coglie
bene lo sguardo di Revelli, lo sfaldamento delle tradizioni politiche europee,
lo sgretolamento del tessuto identitario, o anche il disallineamento fra
identità e partiti, contribuisce giorno dopo giorno a rendere più ampia la
voragine che si apre nel cuore delle democrazie occidentali.
Damiano Palano
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