di Damiano Palano
Questa recensione al libro di A. Floridia, Un’idea deliberativa della democrazia.
Genealogia e principi (Il Mulino, Bologna, 2017), è apparsa su «Avvenire» il 7 luglio 2017.
Nel 1975 tre importanti scienziati sociali come
Michel Crozier, Samuel P. Huntington e Joji Watanuki prepararono per la
Commissione Trilaterale un rapporto destinato a segnare un’epoca. Il titolo
della relazione – La crisi della
democrazia – lasciava pochi dubbi su quale fosse la diagnosi sullo stato di
salute dei paesi industrializzati. Fra i motivi della «crisi» i tre studiosi
consideravano una molteplicità di fattori, ma sottolineavano soprattutto le
implicazioni negative della crescita della partecipazione e della diffusione di
aspettative sempre più elevate tra i cittadini. Il «sovraccarico» di richieste
indirizzate verso il sistema politico metteva infatti a rischio la
sopravvivenza delle istituzioni liberal-democratiche. Per questo era necessario
introdurre misure capaci di ridurre le pressioni provenienti dalla società e, al
tempo stesso, di rafforzare la capacità decisionale degli esecutivi. Il modello
istituzionale che il rapporto alla Trilaterale suggeriva era così quello di una
forte democrazia ‘governante’, un modello definito spesso (un po’
impropriamente) ‘decisionista’, che assegna ai cittadini solo il compito di
scegliere il governo mediante la competizione elettorale. E che tende spesso a
considerare come intralci all’esercizio dell’attività di governo le lunghe
discussioni parlamentari, i negoziati tra le parti, le pratiche concertative,
la ricerca di un ampio compromesso.
Una strada molto differente è invece percorsa dalla
concezione deliberativa della democrazia, sviluppata da filosofi e politologi
come Jürgen Habermas, John Rawls, Bernard Manin, Joshua Cohen e James Fishkin.
Nel suo Un’idea deliberativa della
democrazia. Genealogia e principi (il Mulino, pp. 385, euro 29.00), Antonio
Floridia ricostruisce con grande precisione le diverse sequenze della
discussione cresciuta negli ultimi trent’anni. Le origini più remote di questa
concezione possono essere forse fatte risalire ad alcune pagine di James
Madison, e qualche sollecitazione giunse inoltre anche dalle teorie
partecipative degli anni Sessanta e Settanta del Novecento. Ma in realtà l’idea
della democrazia come deliberazione si definisce piuttosto recentemente, al
principio degli anni Ottanta, a partire da alcuni contributi di teorici come
Jane Mansbridge e Benjamin Barber. Al di là delle origini intellettuali, che
Floridia costruisce puntigliosamente, a contrassegnare questa concezione è
soprattutto l’idea secondo cui la democrazia deve essere intesa come
deliberazione: e cioè come una discussione volta a soppesare i pro e i contro delle
soluzioni ai diversi problemi di una comunità. Una deliberazione pubblica è
perciò uno scambio di ragioni e di argomenti: un dialogo inclusivo nel corso
del quale le posizioni originarie dei partecipanti si modificano, consentendo
di raggiungere soluzioni sostenute da un ampio consenso e fondate sulle
conoscenze di una pluralità di attori.
Naturalmente non è sempre scontato che il dialogo debba produrre un’intesa, ma la logica deliberativa sostiene che, facendo a meno del confronto, ci si indirizzi fatalmente verso l’antagonismo distruttivo tra «amici» e «nemici». Proprio per questo la concezione deliberativa della democrazia si colloca agli antipodi rispetto non solo alle tentazioni ‘tecnocratiche’ e alle visioni ‘decisioniste’, ma anche alle celebrazioni – vecchie e nuove – della democrazia diretta. Una democrazia che affidi le decisioni a una ricca e argomentata discussione deve infatti fondarsi su una pluralità di soggetti (organizzazioni, partiti e reti associative) capaci di formare e strutturare un discorso pubblico, oltre che di essere a loro volta luoghi di partecipazione e deliberazione. E proprio per questo – come scrive Floridia riecheggiando Madison – la teoria deliberativa della democrazia può essere considerata anche come la più solida celebrazione dell’antica virtù della mediazione.
Damiano Palano
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