domenica 9 luglio 2017

Il fascino discreto del complotto. Un libro di Rob Brotherton sulle "menti sospettose"




di Damiano Palano

Questa recensione al volume di R. Brotherton, Menti sospettose. Perché siamo tutti complottisti (Bollati Boringhieri, Torino, 2017), è apparsa su «Avvenire» del 30 giugno 2017.

In un racconto pubblicato nel 1926 sulla «Yale Review», Julian Huxley immaginò la storia di uno scienziato che scopriva il modo per poter controllare le menti dei propri simili grazie alla telepatia. Resosi conto di essere diventato a sua volta molto sensibile al dominio psichico, lo studioso escogitava un rimedio infallibile. Per difendersi dai ‘raggi’ telepatici era infatti sufficiente proteggere la testa con una sottile lamina di metallo, grazie per esempio a un cappellino di carta stagnola. Proprio per questo il cappellino di stagnola è diventato, soprattutto negli Stati Uniti, il simbolo per indicare tutti quegli individui che vedono ovunque immaginarie cospirazioni, o che ritengono che le trame di un potere invisibile si stendano come una piovra sulle nostre società. Ma, se i cultori delle «teorie del complotto» sono spesso considerati poco più che degli svitati, dei paranoici ottenebrati dalle loro fissazioni, il volume di Rob Brotherton, Menti sospettose. Perché siamo tutti complottisti (Bollati Boringhieri, pp. 318, euro 26.00), punta invece a ribaltare questa immagine. Sintetizzando i risultati di ricerche condotte in campo psicologico, Brotherton cerca infatti di dimostrare che i «complottisti» non sono una minoranza di bizzarri individui paranoici, relegati ai margini della società. E che, in qualche modo, siamo un po’ tutti complottisti.



Secondo lo studioso è possibile individuare un tipo di «mentalità complottista», molto simile a qualsiasi altro tratto della personalità e caratterizzato principalmente dalla convinzione riposta in una serie di ipotesi generali su come funziona il mondo. Il «complottista» non crede cioè solo a una specifica teoria del complotto, ma tende di solito ad accettare più teorie del complotto (talvolta tra loro persino in contraddizione). Inoltre, cerca di spiegare tutto ciò che accade nel mondo come se si trattasse delle minuscole tessere di un grande mosaico. Ma i tratti della mentalità complottista sono in ogni caso molto più comuni di quanto si tenda a pensare. Perché, per esempio, si tratta di una mentalità strettamente correlata alla tendenza a concepire i conflitti storici come uno scontro tra bene e male, non diversamente da quanto suggerisce molto spesso la retorica politica. E perché i meccanismi psicologici che la caratterizzano, benché siano più marcati in alcuni individui, sono condivisi più o meno da tutti. Per esempio il meccanismo di proiezione, per cui tendiamo a considerare i nostri gusti e le nostre preferenze come caratteristiche molto diffuse. O il pregiudizio di proporzionalità, che in caso di grandi eventi ci spinge a ricercare cause proporzionali (e a non accontentarci di piccole casualità). O il pregiudizio di conferma, che, quando siamo in cerca di prove per una determinata ipotesi, ci induce inconsapevolmente a scegliere solo quei fatti che rafforzano le nostre convinzioni, facendoci tralasciare tutto ciò che invece non torna.



Il libro di Brotherton ci suggerisce dunque di guardare i «complottisti» con meno sufficienza, sia perché non c’è poi una differenza così marcata tra «noi» e «loro», sia perché, almeno in qualche caso, i loro sospetti possono rivelarsi fondati (a dispetto di spiegazioni persino bislacche). Ma le ricerche di cui lo psicologo espone i risultati sono utili anche per approfondire con maggiore rigore la discussione sulle fake news e sulla «post-verità». La responsabilità non è infatti tanto (o soltanto) delle informazioni che ci vengono proposte, quanto soprattutto del tipo di informazione che ognuno di noi cerca. Anche se siamo sommersi da una selva di fonti differenti, quando clicchiamo online su un determinato link, o quando leggiamo le opinioni dei nostri «amici» sui social network, quasi sempre siamo alla ricerca solo di conferme a ciò che sappiamo. In altre parole, il pregiudizio di conferma è costantemente all’opera, rafforzato anche da un pregiudizio di assimilazione, che ci induce talvolta persino a filtrare tutto quello che non si adatta a ciò in cui già crediamo. E questo significa che, oltre alle «bolle» comunicative che costruiscono attorno a noi una sorta di «mondo su misura», anche il nostro cervello può incapsulare le nostre convinzioni in una «bolla» protettiva altrettanto resistente.

Damiano Palano

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