di Damiano Palano
Questa recensione al volume di R. Brotherton,
Menti sospettose. Perché siamo tutti
complottisti (Bollati Boringhieri, Torino, 2017), è apparsa su «Avvenire» del 30 giugno 2017.
Secondo lo studioso è possibile individuare un tipo di
«mentalità complottista», molto simile a qualsiasi altro tratto della
personalità e caratterizzato principalmente dalla convinzione riposta in una
serie di ipotesi generali su come funziona il mondo. Il «complottista» non
crede cioè solo a una specifica teoria del complotto, ma tende di solito ad
accettare più teorie del complotto (talvolta tra loro persino in
contraddizione). Inoltre, cerca di spiegare tutto ciò che accade nel mondo come
se si trattasse delle minuscole tessere di un grande mosaico. Ma i tratti della
mentalità complottista sono in ogni caso molto più comuni di quanto si tenda a
pensare. Perché, per esempio, si tratta di una mentalità strettamente correlata
alla tendenza a concepire i conflitti storici come uno scontro tra bene e male,
non diversamente da quanto suggerisce molto spesso la retorica politica. E
perché i meccanismi psicologici che la caratterizzano, benché siano più marcati
in alcuni individui, sono condivisi più o meno da tutti. Per esempio il meccanismo
di proiezione, per cui tendiamo a
considerare i nostri gusti e le nostre preferenze come caratteristiche molto
diffuse. O il pregiudizio di
proporzionalità, che in caso di grandi eventi ci spinge a ricercare cause
proporzionali (e a non accontentarci di piccole casualità). O il pregiudizio di conferma, che, quando
siamo in cerca di prove per una determinata ipotesi, ci induce
inconsapevolmente a scegliere solo quei fatti che rafforzano le nostre
convinzioni, facendoci tralasciare tutto ciò che invece non torna.
Il libro di
Brotherton ci suggerisce dunque di guardare i «complottisti» con meno
sufficienza, sia perché non c’è poi una differenza così marcata tra «noi» e
«loro», sia perché, almeno in qualche caso, i loro sospetti possono rivelarsi
fondati (a dispetto di spiegazioni persino bislacche). Ma le ricerche di cui lo
psicologo espone i risultati sono utili anche per approfondire con maggiore
rigore la discussione sulle fake news
e sulla «post-verità». La responsabilità non è infatti tanto (o soltanto) delle
informazioni che ci vengono proposte, quanto soprattutto del tipo di
informazione che ognuno di noi cerca. Anche se siamo sommersi da una selva di
fonti differenti, quando clicchiamo online su un determinato link, o quando
leggiamo le opinioni dei nostri «amici» sui social network, quasi sempre siamo alla
ricerca solo di conferme a ciò che sappiamo. In altre parole, il pregiudizio di conferma è costantemente
all’opera, rafforzato anche da un pregiudizio di assimilazione, che ci induce talvolta persino a filtrare tutto quello
che non si adatta a ciò in cui già crediamo. E questo significa che, oltre alle
«bolle» comunicative che costruiscono attorno a noi una sorta di «mondo su
misura», anche il nostro cervello può incapsulare le nostre convinzioni in una «bolla»
protettiva altrettanto resistente.
Damiano Palano
Damiano Palano
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