di Damiano Palano
Nei suoi ultimi interventi Zygmunt
Bauman amava citare la frase di Gramsci sull’«interregno», secondo cui nelle
fasi di crisi organica il vecchio muore, ma il nuovo non può nascere. E in
effetti non c’è dubbio che quella formula appaia particolarmente calzante per
descrivere le dinamiche, le incertezze e gli stati d’animo della transizione in
cui ci troviamo a vivere. Anche perché la transizione, oltre a investire il
nostro modo di vita, incide sullo stato di salute dei nostri sistemi politici. Lo
riconosce anche Luciano Violante, nel suo ultimo volume, Democrazie senza memoria (Einaudi, pp. 124, euro 12.00), che per
molti versi sviluppa e completa un ragionamento iniziato con i precedenti Politica e menzogna (2013) e Il dovere di avere dei doveri (2014).
Dal suo autorevole punto di osservazione – di uomo politico, di studioso di
diritto e di magistrato – Violante passa in rassegna tutte le diverse minacce
che, a suo avviso, mettono a rischio le democrazie occidentali. Se il 1989
sembrò sancire il trionfo della democrazia, osserva infatti Violante, in realtà
quel successo si è trasformato nel suo rovescio. «La democrazia occidentale»,
scrive, «si è rivestita dei propri allori e ha considerato se stessa come
un’ineluttabile certezza» (p. 11). È entrato in crisi il rapporto tra
capitalismo e democrazia; la politica è stata ridotta a pura tecnica di
governo, favorendo così il disinteresse della popolazione; la «tecnicizzazione»
della politica ha innescato la deresponsabilizzazione delle opposizioni; nel
dibattito politico le componenti emotive della discussione sono diventate
soverchianti rispetto alle argomentazioni. E processi come la globalizzazione,
la frammentazione sociale, la diffusione del terrorismo hanno contribuito ad
aumentare la sfiducia e l’indifferenza. Se tutto ciò ha in parte favorito
l’arresto dell’espansione a livello globale della democrazia (e la nascita di
nuovi autoritarismi), i problemi riguardano però anche il cuore dei sistemi
occidentali, perché proprio qui hanno iniziato a diffondersi fenomeni che mettono
sotto accusa il «sistema»: «denunciare il sistema,
presentarsi avvolti in un’aureola virginale, dichiararsi estranei alle brutture
della politica, criticarlo aspramente anche se di quel sistema si fa parte da
decenni, è diventata una giaculatoria. Caratteri costanti di questa denuncia
sono l’invocazione di un rinnovamento totale, la critica feroce alle élites e l’annuncio del superamento
della distinzione fra destra e sinistra, proprio quando le vicende degli ultimi
anni confermano la permanente validità di tale contrapposizione» (p. 34). Ma in
questo quadro la novità non è l’indicazione nel sistema del «nemico interno»,
bensì, secondo quanto scrive Violante, il fatto che «l’attacco è ora condotto
in prima persona da chi del sistema fa stabilmente parte o aspira a farne
parte», perché questi «agisce come il naufrago che si aggrappa alla scialuppa
strapiena e rischia di colare a picco» (p. 35).
Non
è difficile riconoscere, dietro questo attacco generico alla demagogia,
all’antipolitica e a ciò che Violante – seguendo l’uso ormai invalso –
definisce «populismo», una neppure troppo implicita critica a Matteo Renzi, al
«renzismo» e alla retorica della «rottamazione». Ma il discorso di Violante va
ben al di là di una polemica politica interna allo schieramento del
centro-sinistra. L’allarme che lancia riguarda infatti le conseguenze deleterie
che a suo avviso possono determinare la diffusione del linguaggio violento
(soprattutto in Rete), l’estensione del confine del «dicibile, il ricorso alla
«delegittimazione» come strumento ordinario della dialettica politica, il
discredito nei confronti delle élite e della scienza. Perché «lo spostamento della
fiducia verso partiti che si fondano sul nazionalismo etnico, sul linguaggio
dell’odio e sulla mancanza di rispetto potrebbe dare impulso a un’involuzione
di carattere autoritario» (p. 56). E perché, in questo quadro, l’abituale
ricorso alla menzogna rischia di contribuire ad aggravare la situazione.
Il
rimedio che Violante indica parte dai cittadini – specialmente dal «dovere
dell’onestà» - e, ancora una volta, dai partiti, che dovrebbero tornare a
essere «luogo di elaborazione di idee, di programmi e di piattaforme
elettorali» (p. 124), e che dovrebbero essere protagonisti di «processi di rappresentanza» e non più solo di
«processi di identificazione» (p.
121). Naturalmente si potrebbe obiettare a Violante che i partiti – nella loro
stagione aurea – hanno sempre svolto più una funzione di identificazione che di
reale rappresentanza (e che una tale identificazione talvolta induceva i
cittadini a chiudere un occhio sulle carenze in fatto di onestà). Ma il
discorso di Violante è ovviamente soprattutto un appello alla ricostituzione di
partiti radicati sui territori e capaci di assumersi pienamente le
responsabilità della propria funzione direttiva. Ed è in questo senso che vanno
lette le sue parole: «Tanto i partiti quanto l’intera nazione, per vivere in democrazia,
hanno bisogno di ricostruire comunità politiche responsabili e consapevoli del
ruolo che sono tenute a svolgere nella storia del paese di cui fanno parte.
Soltanto queste comunità politiche sono in grado di tenere unita la nazione,
superare l’isolamento individuale, proporre un’alternativa sana al rapporto
malato fra leader narcisista e popolo senza rappresentanza» (p. 124).
L’enfasi
marcata che Violante pone sull’unità della nazione può apparire sorprendente, non
tanto perché il mondo intellettuale da cui proviene ha spesso trascurato questa
dimensione, quanto perché gran parte dei problemi che vivono oggi le democrazie
europee deriva dalle tensioni tra la dimensione ‘nazionale’ e la dimensione
sovrastatale rappresentata dall’Unione europea. E d’altronde il ritorno del
nazionalismo – che andrebbe distinto tanto dal populismo, quanto dal ‘sovranismo’
(seppure siano tra loro spesso legati) – trova alimento proprio dalla critica
indirizzata contro l’Ue, la cui direzione di marcia appare – a torto o a ragione
– sottratta a qualsiasi influenza da parte delle opinioni pubbliche e dei
cittadini del Vecchio continente. Forse, ancor più che l’enfasi sui partiti
come soggetti capaci di garantire l’unità nazionale, a contrassegnare il
discorso di Violante è l’accento posto sull’importanza della memoria. «Molti
cambiamenti ci sono di fronte», scrive infatti l’ex Presidente della Camera dei
Deputati: i «fenomeni che chiamiamo crisi potrebbero essere forse soltanto
passaggi. Saranno crisi se non interverremo, se lasceremo correre; saranno
passaggi se avremo la capacità di dirigere i processi» (p. VII). Per evitare
che la crisi degeneri, osserva Violante, è necessaria «la memoria della
democrazia, delle sue sconfitte e delle sue vittorie, dei suoi valori e delle
sue difficoltà», ed è anche necessario «che questa memoria passi di generazione
in generazione», perché «altrimenti si resta prigionieri dei pregiudizi» (p.
VII). E come precisa verso la conclusione: «Se assistiamo inerti e senza
memoria ai processi che si svolgono sotto i nostri occhi, il declino della
democrazia sarà inevitabile. Occorre invece cogliere i segni del nuovo,
collocarli in una rinnovata visione del mondo e impegnarsi ad attuare i valori
della democrazia in un contesto profondamente cambiato. Se l’epoca è nuova, non
è sufficiente mettere a lucido i vecchi arnesi, rispolverare le vecchie
cassette degli attrezzi e abbandonarsi alle nostalgie. Innovare alcune volte
significa scoprire vie nuove, altre volte significa recuperare ciò che di
positivo si è perduto» (p. 99).
Le parole di Violante denotano quantomeno la consapevolezza che le difficoltà che stiamo incontrando negli ultimi anni andrebbero affrontate seriamente, e che non si tratta di piccoli incidenti di percorso, o di insidie del tutto congiunturali, destinate a essere dimenticate nel volgere di qualche mese. Ma il pamphlet di Violante, per la verità, non contribuisce granché a capire dove vada ricercata quella sorta di «terza via» tra memoria e innovazione in cui si potrebbe trovare la strada per mutare la «crisi» in «passaggio». E non si tratta certo di un nodo da poco, anche perché, a ben guardare, negli ultimi trent’anni, tutti coloro che inalberavano la bandiera del «nuovo» contro il grigio, ostile, corrotto conservatorismo allignante in ogni piega della società, alla prova dei fatti si sono trovati a sostenere più o meno sempre le stesse ricette, magari colorate con qualche slogan più o meno evocativo. Ma ciò non toglie che le considerazioni di Violante non debbano essere prese sul serio, valutate con attenzione e magari – soprattutto a proposito di alcuni aspetti particolarmente problematici – anche contestate puntualmente.
Se
la lettura di Violante coglie alcuni aspetti cruciali della trasformazione
contemporanea, c’è però una questione – relativa proprio al nesso tra
democrazia e memoria – che dovrebbe essere presa più seriamente in
considerazione. Perché forse dovremmo avere l’onestà intellettuale di
riconoscere che non è detto che la crisi che stiamo vivendo sia davvero un
«interregno», che rappresenti effettivamente il preludio di una nuova stagione
storica, e che il guscio del futuro debba prima o poi dischiudersi per consegnarci
una nuova stagione di progresso e giustizia. Proprio per questo dovremmo
prendere invece in considerazione l’ipotesi meno consolatoria. Cioè che quel logoramento
delle istituzioni democratiche di cui molti hanno riconosciuto la gravità nel
corso degli ultimi anni sia in realtà il segno di un declino, destinato a
condurre – in forma più o meno brutale e repentina, ma comunque irreversibile –
verso altre forme istituzionali. E non è affatto scontato che, in questa
transizione, la memoria della democrazia, invocata con molto buon senso da
Luciano Violante, possa rivelarsi davvero utile.
Damiano Palano
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