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mercoledì 10 maggio 2017

Macron all'Eliseo. Le insidie di un gelido principe azzurro postmoderno




di Damiano Palano

Questa nota sulle presidenziali francesi è apparsa su "CattolicaNews" lunedì 8 maggio 2017.

La lunga corsa verso l’Eliseo si è alla fine conclusa come tutti i sondaggi avevano previsto. Le proporzioni della vittoria del trentanovenne Emmanuel Macron si sono anzi rivelate persino superiori alle attese. Ma erano stati d’altronde già i risultati del primo turno delle presidenziali a indicare una linea di tendenza abbastanza chiara. Il 21,30% ottenuto dalla candidata del Front National, ben distante dal 24% di Macron, aveva infatti mostrato come l’ipotesi di una vittoria di Marine Le Pen al ballottaggio assomigliasse più a uno scenario fantapolitico che a una eventualità effettivamente credibile. E la favola del giovane outsider – una sorta di principe azzurro postmoderno, candidatosi senza l’appoggio di alcun partito – si è conclusa con un successo che un anno fa ben pochi si sarebbero spinti a immaginare.
Il responso delle urne si presta come sempre a varie letture. Una di queste interpreta l’affermazione di Macron come una sconfitta dei «populisti» e come una vittoria dell’Unione europea. E non c’è alcun dubbio che si tratti di una lettura legittima. Se non altro perché nella sua campagna Macron ha brandito con convinzione la bandiera dell’Ue e si è opposto con forza all’ipotesi di abbandonare il sistema di Schengen (oltre che, ovviamente, la moneta unica). Ma per quanto una simile lettura risulti almeno in parte fondata, non si possono trascurare altri elementi, che rendono quantomeno un po’ meno nitido il quadro dell’affermazione di Macron. E non semplicemente perché nella retorica del candidato di En Marche! si possono intravedere i tratti di una specifica variante del populismo, che si nutre della retorica antipolitica, del rifiuto dei partiti e dei miti tecnocratici.
Un dato che è difficile sottovalutare è innanzitutto il collasso delle forze politiche ‘tradizionali’, che fino a questo momento, pur con alterne fortune, avevano costituito il perno della Quinta Repubblica. La sconfitta di François Fillon ha naturalmente qualche attenuante, perché le inchieste giudiziarie hanno avuto un peso tutt’altro che irrilevante nell’uscita di scena del candidato repubblicano (che a gennaio, vale la pena ricordarlo, veniva accreditato dai sondaggi attorno al 30% al primo turno). Al contrario, è davvero senza precedenti la sconfitta di Benoît Hamon, e in effetti il tracollo del Partito Socialista costituisce la più clamorosa rottura di questa tornata elettorale. Se questa tendenza dovesse essere confermata dalle prossime elezioni per l’Assemblea Nazionale, il quadro politico francese apparirebbe infatti drasticamente mutato.
Ma il vero paradosso delle presidenziali del 2017 è probabilmente un altro. Per quanto siano state vinte da un candidato «centrista» (che peraltro rifiuta questa etichetta, come d’altronde quelle di destra e sinistra), queste elezioni hanno visto una sensibile contrazione dello spazio delle forze ‘moderate’, a tutto vantaggio dell’espansione delle posizioni più radicali. Anche per questo è piuttosto semplicistico ritenere che le forze «populiste» siano davvero state sconfitte. Il risultato ottenuto al primo turno dai candidati che – con qualche approssimazione – si possono definire ‘populisti’, ‘sovranisti’ o persino ‘antisistema’ è stato in effetti tutt’altro che trascurabile. Questo dato rappresenta per molti versi una conferma di quella tendenza alla polarizzazione visibile in molti sistemi politici, che in Francia risulta però per gran parte neutralizzata dal sistema elettorale a doppio turno. Certo il 45,8% dato dalla somma delle percentuali ottenute da Le Pen, Nicolas Dupont-Aignan (4.70%) e Jean-Luc Mélenchon (19.58%) non disegna una possibile coalizione politica. Ma fornisce comunque una fotografia dell’ostilità che una parte consistente dell’elettorato francese nutre nei confronti delle forze ‘moderate’ e dei partiti tradizionali. E una prima illustrazione delle resistenze che il nuovo Presidente della Repubblica si troverà di fronte sin dal suo arrivo all’Eliseo.
Rappresentare il conflitto che sta prendendo forma come una radicale contrapposizione tra europeisti ed «euroscettici», o tra sovranazionalisti e sovranisti, rischia però di apparire riduttivo. Senza dubbio sta emergendo una nuova linea frattura, che divide sempre più nettamente gli elettorati a seconda dell’atteggiamento nei confronti dell’Ue. Ma questa frattura si interseca con altre linee di divisione ereditate dalla storia, che – come ci dice chiaramente il caso francese – non perdono la loro rilevanza neppure nella «società liquida». E ciò significa che la nuova linea di frattura europeisti/sovranisti tende a lacerare al loro interno i campi di destra e di sinistra, senza (almeno per il momento) innescare più radicali mutamenti di scenario.
Anche per questo, l’assetto della scena politica francese dei prossimi anni dipenderà molto da ciò che avverrà nelle ali estreme del sistema. In primo luogo, il responso delle urne ha infatti sancito la sconfitta di quella strategia di «de-diabolisation» del Front National che Marine Le Pen ha portato avanti per anni. In altri termini, i risultati delle elezioni hanno mostrato che l’ostilità nei confronti di questo partito – ancora percepito da molti elettori come una minaccia alla democrazia – non sembra poter essere superata da un semplice ‘ammorbidimento’ dei messaggi e della retorica del leader. E probabilmente proprio la sconfitta patita da Marine Le Pen indurrà il Fn a un radicale ripensamento delle proprie strategie. In secondo luogo, nel campo di sinistra, bisognerà capire se la sconfitta del Ps sia soltanto un incidente di percorso o non nasconda invece un travaglio più profondo, e soprattutto se Mélenchon riuscirà a dar vita a un nuovo schieramento, capace di fronteggiare sui territori i candidati socialisti. Il quasi 20% ottenuto al primo turno dal candidato di France Insoumise è in effetti davvero molto più consistente rispetto al risultato ottenuto in altre elezioni presidenziali del passato da candidati di estrema sinistra (come la trotskista Arlette Laguiller nel 2002, o come lo stesso Mélenchon nel 2012). Ma è tutt’altro che scontato che la buona performance del 23 aprile preluda alla nascita di una formazione di «sinistra populista» analoga a Podemos, che Mélenchon ha più volte prefigurato.
La fragilità della destra repubblicana e il tracollo della sinistra socialista avranno d’altronde un peso non irrilevante sulla presidenza di Macron. A giugno, quando sarà eletta l’Assemblea Nazionale, sarà chiaro se il nuovo inquilino dell’Eliseo potrà contare su una maggioranza più o meno coesa, se anche in Francia sarà necessario sperimentare una formula di «grande coalizione», o se invece farà nuovamente capolino lo spettro della «coabitazione», da sempre tallone d’Achille della Quinta Repubblica. Ma c’è probabilmente anche un’altra insidia che il nuovo presidente Macron dovrà fatalmente fronteggiare nel proprio percorso. E da questo punto di vista la vicenda dei due ultimi inquilini dell’Eliseo dovrebbe risultare istruttiva. Sia Sarkozy sia Hollande furono eletti sull’onda di un grande entusiasmo popolare, ma dopo la ‘luna di miele’ delle prime settimane entrambi divennero l’oggetto di critiche spietate e di attacchi quotidiani da parte della stampa. Naturalmente è possibile che per Macron le cose siano diverse. Ma – con un programma incentrato sulla riduzione della spesa pubblica, sul taglio dei dipendenti pubblici, sulla flessibilizzazione del mercato del lavoro e sulla riforma delle pensioni – è davvero improbabile che il nuovo presidente francese non incontri sul proprio cammino più di qualche insidia. Senza un partito alle spalle, e senza neppure una solida maggioranza su cui contare, il sostegno di cui Macron ha potuto beneficiare nella competizione elettorale (forse più per le caratteristiche degli avversari e che per propri reali meriti) potrebbe anzi correre il rischio di dissolversi molto rapidamente.  E il fascino del gelido (e un po’ inquietante) principe azzurro postmoderno che sta per insediarsi all’Eliseo potrebbe rivelarsi persino più effimero di quello dei suoi due predecessori.


Damiano Palano




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