di Damiano Palano
Questa nota sulle presidenziali francesi è apparsa su "CattolicaNews" lunedì 8 maggio 2017.
La lunga
corsa verso l’Eliseo si è alla fine conclusa come tutti i sondaggi avevano
previsto. Le proporzioni della vittoria del trentanovenne Emmanuel Macron si
sono anzi rivelate persino superiori alle attese. Ma erano stati d’altronde già
i risultati del primo turno delle presidenziali a indicare una linea di
tendenza abbastanza chiara. Il 21,30% ottenuto dalla candidata del Front
National, ben distante dal 24% di Macron, aveva infatti mostrato come l’ipotesi
di una vittoria di Marine Le Pen al ballottaggio assomigliasse più a uno
scenario fantapolitico che a una eventualità effettivamente credibile. E la
favola del giovane outsider – una sorta di principe azzurro postmoderno,
candidatosi senza l’appoggio di alcun partito – si è conclusa con un successo
che un anno fa ben pochi si sarebbero spinti a immaginare.
Il responso delle urne si
presta come sempre a varie letture. Una di queste interpreta l’affermazione di
Macron come una sconfitta dei «populisti» e come una vittoria dell’Unione
europea. E non c’è alcun dubbio che si tratti di una lettura legittima. Se non
altro perché nella sua campagna Macron ha brandito con convinzione la bandiera
dell’Ue e si è opposto con forza all’ipotesi di abbandonare il sistema di
Schengen (oltre che, ovviamente, la moneta unica). Ma per quanto una simile lettura
risulti almeno in parte fondata, non si possono trascurare altri elementi, che
rendono quantomeno un po’ meno nitido il quadro dell’affermazione di Macron. E
non semplicemente perché nella retorica del candidato di En Marche! si possono intravedere i tratti di una specifica
variante del populismo, che si nutre della retorica antipolitica, del rifiuto
dei partiti e dei miti tecnocratici.
Un dato che è difficile sottovalutare
è innanzitutto il collasso delle forze politiche ‘tradizionali’, che fino a
questo momento, pur con alterne fortune, avevano costituito il perno della
Quinta Repubblica. La sconfitta di François
Fillon ha naturalmente qualche attenuante, perché le inchieste giudiziarie hanno
avuto un peso tutt’altro che irrilevante nell’uscita di scena del candidato
repubblicano (che a gennaio, vale la pena ricordarlo, veniva accreditato dai
sondaggi attorno al 30% al primo turno). Al contrario, è davvero senza
precedenti la sconfitta di Benoît Hamon, e in effetti il tracollo del Partito
Socialista costituisce la più clamorosa rottura di questa tornata elettorale. Se
questa tendenza dovesse essere confermata dalle prossime elezioni per
l’Assemblea Nazionale, il quadro politico francese apparirebbe infatti drasticamente
mutato.
Ma il vero paradosso
delle presidenziali del 2017 è probabilmente un altro. Per quanto siano state
vinte da un candidato «centrista» (che peraltro rifiuta questa etichetta, come
d’altronde quelle di destra e sinistra), queste elezioni hanno visto una
sensibile contrazione dello spazio delle forze ‘moderate’, a tutto vantaggio
dell’espansione delle posizioni più radicali. Anche per questo è piuttosto
semplicistico ritenere che le forze «populiste» siano davvero state sconfitte. Il
risultato ottenuto al primo turno dai candidati che – con qualche
approssimazione – si possono definire ‘populisti’, ‘sovranisti’ o persino
‘antisistema’ è stato in effetti tutt’altro che trascurabile. Questo dato
rappresenta per molti versi una conferma di quella tendenza alla polarizzazione
visibile in molti sistemi politici, che in Francia risulta però per gran parte
neutralizzata dal sistema elettorale a doppio turno. Certo il 45,8% dato dalla
somma delle percentuali ottenute da Le Pen, Nicolas Dupont-Aignan (4.70%) e
Jean-Luc Mélenchon (19.58%) non disegna una possibile coalizione politica. Ma
fornisce comunque una fotografia dell’ostilità che una parte consistente
dell’elettorato francese nutre nei confronti delle forze ‘moderate’ e dei
partiti tradizionali. E una prima illustrazione delle resistenze che il nuovo
Presidente della Repubblica si troverà di fronte sin dal suo arrivo all’Eliseo.
Rappresentare il
conflitto che sta prendendo forma come una radicale contrapposizione tra
europeisti ed «euroscettici», o tra sovranazionalisti e sovranisti, rischia
però di apparire riduttivo. Senza dubbio sta emergendo una nuova linea
frattura, che divide sempre più nettamente gli elettorati a seconda
dell’atteggiamento nei confronti dell’Ue. Ma questa frattura si interseca con
altre linee di divisione ereditate dalla storia, che – come ci dice chiaramente
il caso francese – non perdono la loro rilevanza neppure nella «società
liquida». E ciò significa che la nuova linea di frattura europeisti/sovranisti
tende a lacerare al loro interno i campi di destra e di sinistra, senza (almeno
per il momento) innescare più radicali mutamenti di scenario.
Anche per questo,
l’assetto della scena politica francese dei prossimi anni dipenderà molto da
ciò che avverrà nelle ali estreme del sistema. In primo luogo, il responso
delle urne ha infatti sancito la sconfitta di quella strategia di
«de-diabolisation» del Front National che Marine Le Pen ha portato avanti per
anni. In altri termini, i risultati delle elezioni hanno mostrato che l’ostilità
nei confronti di questo partito – ancora percepito da molti elettori come una
minaccia alla democrazia – non sembra poter essere superata da un semplice
‘ammorbidimento’ dei messaggi e della retorica del leader. E probabilmente proprio
la sconfitta patita da Marine Le Pen indurrà il Fn a un radicale ripensamento
delle proprie strategie. In secondo luogo, nel campo di sinistra, bisognerà
capire se la sconfitta del Ps sia soltanto un incidente di percorso o non
nasconda invece un travaglio più profondo, e soprattutto se Mélenchon riuscirà
a dar vita a un nuovo schieramento, capace di fronteggiare sui territori i
candidati socialisti. Il quasi 20% ottenuto al primo turno dal candidato di
France Insoumise è in effetti davvero molto più consistente rispetto al
risultato ottenuto in altre elezioni presidenziali del passato da candidati di
estrema sinistra (come la trotskista Arlette Laguiller nel 2002, o come lo
stesso Mélenchon nel 2012). Ma è tutt’altro che scontato che la buona
performance del 23 aprile preluda alla nascita di una formazione di «sinistra
populista» analoga a Podemos, che Mélenchon ha più volte prefigurato.
La fragilità della destra
repubblicana e il tracollo della sinistra socialista avranno d’altronde un peso
non irrilevante sulla presidenza di Macron. A giugno, quando sarà eletta
l’Assemblea Nazionale, sarà chiaro se il nuovo inquilino dell’Eliseo potrà
contare su una maggioranza più o meno coesa, se anche in Francia sarà
necessario sperimentare una formula di «grande coalizione», o se invece farà
nuovamente capolino lo spettro della «coabitazione», da sempre tallone
d’Achille della Quinta Repubblica. Ma c’è probabilmente anche un’altra insidia
che il nuovo presidente Macron dovrà fatalmente fronteggiare nel proprio
percorso. E da questo punto di vista la vicenda dei due ultimi inquilini
dell’Eliseo dovrebbe risultare istruttiva. Sia Sarkozy sia Hollande furono
eletti sull’onda di un grande entusiasmo popolare, ma dopo la ‘luna di miele’
delle prime settimane entrambi divennero l’oggetto di critiche spietate e di
attacchi quotidiani da parte della stampa. Naturalmente è possibile che per
Macron le cose siano diverse. Ma – con un programma incentrato sulla riduzione
della spesa pubblica, sul taglio dei dipendenti pubblici, sulla
flessibilizzazione del mercato del lavoro e sulla riforma delle pensioni – è
davvero improbabile che il nuovo presidente francese non incontri sul proprio
cammino più di qualche insidia. Senza un partito alle spalle, e senza neppure
una solida maggioranza su cui contare, il sostegno di cui Macron ha potuto
beneficiare nella competizione elettorale (forse più per le caratteristiche
degli avversari e che per propri reali meriti) potrebbe anzi correre il rischio
di dissolversi molto rapidamente. E il
fascino del gelido (e un po’ inquietante) principe azzurro postmoderno che sta
per insediarsi all’Eliseo potrebbe rivelarsi persino più effimero di quello dei
suoi due predecessori.
Damiano
Palano
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