di Damiano Palano
Questa recensione al volume di Andrea Mossa, Il nemico ritrovato. Carl Schmitt gli Stati Uniti (Academia University Press, pp. 296, euro 24.00), è apparsa su "Avvenire" del 18 maggio 2017.
Nel 1947, dopo essere stato assolto
dall’accusa di avere partecipato alla pianificazione della guerra in uno dei
processi secondari di Norimberga, Carl Schmitt fece ritorno nella cittadina
natale di Plettenberg. Qui visse per quasi quarant’anni una sorta di lungo
esilio in patria. E commiserandosi, con un certo amaro compiacimento, definiva
«San Casciano» il proprio rifugio. Non solo per richiamare il destino di Machiavelli,
che dopo la restaurazione dei Medici si era ritirato a San Casciano, in Val di
Pesa. Ma anche per accostare la propria avventura intellettuale a quella di San
Cassiano di Imola, che, al principio del IV secolo, fu ucciso a colpi di
stiletti dagli studenti cui aveva insegnato a scrivere. Anche Schmitt riteneva
infatti di essere stato una vittima dei propri allievi, come era avvenuto per
il martire cristiano. E, in particolare, riteneva che le attenzioni che gli
Alleati gli avevano riservato dopo la fine della guerra fossero in gran parte
responsabilità proprio di alcuni suoi ex-allievi, che – dopo la fuga dalla
Germania e l’approdo negli Stati Uniti – lo avevano dipinto come un ideologo
del regime nazionalsocialista e come l’ispiratore della politica espansionista
di Hitler.
Effettivamente alcuni dei vecchi
estimatori di Schmitt, una volta trasferitisi al di là dell’Atlantico, si erano
trasformati nei suoi più energici accusatori. Probabilmente la riflessione dell’antico maestro non fu però
dimenticata da quei giovani che, nella Germania degli anni Venti, si erano
formati sui suoi testi. Ed è a partire da questo sospetto che nel corso degli
ultimi anni sono state proposte varie ipotesi sull’influenza ‘sotterranea’ che
Schmitt avrebbe esercitato sul dibattito americano e su alcuni «dialoghi
nascosti» di cui il giurista sarebbe stato protagonista (in particolare con Leo
Strauss). Proprio all’esplorazione di queste relazioni è dedicato il bel volume
di Andrea Mossa, Il nemico ritrovato.
Carl Schmitt gli Stati Uniti (Academia University Press, pp. 296, euro
24.00). Pur rifiutando la tesi dei «dialoghi nascosti», Mossa riconosce che vi
furono diversi «dialoghi interrotti», in particolare con ex-allievi come
Waldemar Gurian e Otto Kirchheimer, o con intellettuali del calibro di Hans
Morgenthau, Carl Joachim Friedrich e Sigmund Neumann, oltre che con Strauss. Ed
esclude invece che il pensiero di Schmitt possa avere esercitato un’influenza
significativa su economisti come Joseph Schumpeter e Friedrich von Hayek.
L’aspetto più originale del libro è però il tentativo di
portare in superficie le tracce del «dialogo mancato» tra Schmitt e Hannah
Arendt. In questo caso Mossa non si limita certo a segnalare che un simile
dialogo non avvenne mai. Piuttosto, punta a dimostrare che per l’autrice delle Origini del totalitarismo il confronto
con Schmitt fu fondamentale. Non tanto perché Arendt fosse ‘nascostamente’
schmittiana, quanto perché la sua riflessione sulla politica può essere
considerata come una replica – in alcuni casi persino puntuale – alle tesi del
giurista di Plettenberg. Ovviamente è quasi impossibile trovare prove
inoppugnabili per sostenere questa tesi, e Mossa ne è consapevole. Le scarse
citazioni di Schmitt (peraltro spesso singolarmente lusinghiere) che ricorrono
nelle opere di Arendt sembrerebbero anzi escludere questa lettura. Ma
esaminando a fondo la biblioteca della filosofa e i suoi quaderni di appunti,
emergono prove piuttosto convincenti. Che mostrano per esempio come Arendt
avesse metodicamente appuntato il Nomos
della terra. O come le sue riflessioni sul fondamento della politica –
destinate a confluire in Vita activa
– fossero almeno in parte state concepite come una risposta a Schmitt. Ed è
forse questa scoperta che può consentire di rileggere le pagine di Arendt da
una nuova prospettiva. Magari anche provando a ipotizzare come sarebbe proseguito
quel «dialogo mancato».
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