di Damiano Palano
Questo articolo è apparso, con il titolo La bolla mortale della nuova democrazia, sul quotidiano "Il Foglio" il 28 aprile 2017.
L’ultimo discorso da Presidente di
Barack Obama, pronunciato a Chicago il 10 gennaio 2017, è passato quasi
inosservato, sommerso dall’attesa per l’imminente avvento alla Casa Bianca di
Donald Trump. Vale la pena rileggerne un passaggio: «Per troppi di noi è
diventato più sicuro ritirarsi nelle proprie bolle […], circondati da persone
che ci assomigliano e che condividono la nostra medesima visione politica e non
sfidano mai le nostre posizioni. […] E diventiamo progressivamente tanto sicuri
nelle nostre bolle, che finiamo con l’accettare solo quelle informazioni, vere
o false che siano, che si adattano alle nostre opinioni, invece di basare le
nostre opinioni sulle prove che ci sono là fuori». Probabilmente nei prossimi
anni dovremo però tornare a rileggere quelle parole. Non tanto per il talento
oratorio di Obama, quanto per l’allarme sui rischi di quelle «bolle» che ci
rassicurano ma che ci danno una visione distorta del mondo. Non solo perché
proprio in quelle «bolle» le fake news trovano un privilegiato bacino
di coltura, ma soprattutto perché la vittoria elettorale di Donald Trump,
al di là degli esiti che avrà il suo mandato presidenziale, sancisce per molti
versi la fine della democrazia del
pubblico e l’atto di nascita di una inedita bubble-democracy. Una democrazia in cui a diventare decisive per
l’esito della competizione (e per la sua stessa logica) sono proprio quelle
«bolle» in cui ciascuno di noi tende a rinchiudersi
Ascesa e declino della «democrazia del
pubblico»
Oltre che per i suoi pregi letterari
la fantascienza di Philip Dick è stata celebrata soprattutto per la sua
capacità di prefigurare il futuro e di anticipare (in modo talvolta strabiliante)
alcune tecnologie contemporanee. Per quanto concerne la raffigurazione delle
dinamiche politiche i libri di Dick devono però essere considerati soprattutto
come un frutto degli anni Cinquanta e Sessanta, della centralità che la
televisione assunse nel corso del Secondo dopoguerra. Prima di altri Dick comprese
infatti che la televisione stava modificando in modo irreversibile le logiche
della politica. Perché i leader potevano finalmente fare a meno di giornali, di
apparati di partito, di intermediari locali, per rivolgersi direttamente al
singolo cittadino, seduto nella poltrona del soggiorno. Per Dick una simile
trasformazione annunciava soprattutto le ombre sinistre di una nuova forma di
manipolazione, che doveva puntare – più che a una vera e propria propaganda –
verso la costruzione di una realtà fittizia. E proprio per questo i leader
del futuro – come i presidenti della Penultima verità e dei Simulacri – sarebbero
stati solo fantocci, attori incaricati di recitare un copione scritto altrove,
o addirittura androidi. Ma il punto più significativo era che il destinatario
della persuasione non era più, come in 1984, una «massa» da sorvegliare,
manipolare e mobilitare, bensì un «pubblico» (relativamente passivo) di
telespettatori da blandire e rassicurare.
Il potere di manipolazione della televisione si rivelò naturalmente
molto lontano da quello che Dick sembrava immaginare nei suoi romanzi. Ma, a dispetto
del pessimismo che incupiva le sue distopie, proprio allora il
«pubblico» iniziò a diventare il riferimento centrale dello spettacolo politico
e il destinatario del messaggio di ogni leader. E più meno negli stessi anni
in cui Dick pubblicava i suoi libri più famosi, anche nel Vecchio
continente alcuni scienziati sociali iniziarono a comprendere che le
trasformazioni comunicative, insieme naturalmente ai mutamenti della società e
all’avvento del benessere economico, stavano modificando le relazioni tra cittadini
e politica. Investendo in modo particolare quello che, fino a quel momento, era
stato il principale organizzatore delle «masse», e cioè il partito politico, il
«moderno Principe» celebrato da Gramsci. A rendersene conto furono per esempio
Otto Kirchheimer, che colse nella rapida trasformazione della socialdemocrazia
tedesca l’annuncio del cath-all-party,
o lo stesso Maurice Duverger, che, dopo avere ritenuto che la costruzione di
grandi partiti di massa fosse una strada obbligata, intravide nel successo
politico di De Gaulle il segnale della futura «personalizzazione» e persino
l’inizio di una «democrazia senza partiti». Ma al di là delle circostanze
specifiche che alimentarono queste riflessioni, il dato che emergeva era la
centralità politica del «pubblico». Ciò significava che il canale televisivo
consentiva all’aspirante leader di rivolgersi ‘direttamente’ agli elettori. Ma
significava anche che incominciavano a dissolversi i «mondi separati» che
avevano rappresentato il bacino di riferimento dei partiti ideologici e
subculturali. E dunque quegli apparati di comunicazione che i partiti di massa
avevano costruito incominciavano a diventare obsoleti, proprio perché non
riuscivano a intercettare il «pubblico», ma solo la piccola enclave degli
iscritti e dei simpatizzanti.
Naturalmente l’avanzata del «pubblico» fu in Europa molto
più lenta che negli Stati Uniti, e si compì pienamente solo tra gli anni
Ottanta e Novanta, in coincidenza con la diffusione delle televisioni commerciali
e la fine della Guerra fredda. Ma alla metà degli anni Novanta fu il politologo
francese Bernard Manin a fissare la logica della «democrazia del pubblico» e a
sostenere che questo nuovo assetto politico stava ormai sostituendo la vecchia
«democrazia dei partiti». Secondo Manin, a partire soprattutto dagli anni
Settanta, una serie di processi aveva gradualmente eroso le basi su cui si era
retto l’edificio della democrazia dei partiti, e si era così indebolito –
talvolta fino a spezzarsi – il legame tra partiti e cittadini. Ciò non
significava che i partiti non erano più considerati degni di fiducia. Più
semplicemente, secondo Manin, era diventata progressivamente più fragile l’identificazione
partitica, ossia quel legame (ideologico e affettivo) di vicinanza a un
determinato partito che per vari decenni aveva spiegato il comportamento di
voto. Una traccia di questa dinamica era la crescente volatilità elettorale,
testimonianza del fatto che i singoli elettori erano ormai disposti a
modificare la propria scelta tra una consultazione e l’altra, e che dunque i
cittadini non erano più ‘vincolati’ dalle rispettive appartenenze. Ma un
indizio ancora più rilevante, secondo Manin, era che gli elettori tendessero a
scegliere, di volta in volta, in base alla personalità del candidato, al suo
programma, alle sue specifiche qualità. Si trattava di quella tendenza alla
«personalizzazione» della politica di cui si parla in Italia almeno da un
quarto di secolo, e le cui cause rimandavano proprio alla centralità della comunicazione
televisiva. Secondo Manin ciò determinava però l’affermazione di una nuova
logica nei rapporti tra elettori e rappresentanti. Nella democrazia del
pubblico, scriveva, «i votanti sembrano rispondere (ai termini particolari
offerti in ciascuna elezione), piuttosto che semplicemente esprimersi
(esprimere le loro identità sociali o culturali)». In altre parole, gli
elettori tendevano a comportarsi come il pubblico di un teatro, che risponde –
con i fischi, con gli applausi, o col silenzio – alla performance di un attore.
In termini analoghi, nella democrazia del pubblico ogni candidato prendeva
l’iniziativa, avanzava una determinata linea di divisione, mentre il «pubblico»
reagiva a questa proposta. E il politico correggeva o manteneva la propria
linea.
Nessun commento:
Posta un commento