Nel
corso dei decenni, l’espressione «anni di piombo» - entrata nel nostro
lessico dopo il film omonimo di Margarethe von Trotta – è andata
progressivamente a identificare quel lungo periodo della storia italiana
che inizia con il 1968 e giunge fino all’inizio degli anni Ottanta. Nel
dibattito pubblico, e nella memoria collettiva, la durata degli «anni
di piombo» si è così progressivamente dilatata. Ha cessato di
identificare soltanto la stagione del terrorismo e della lotta armata –
quel periodo in cui il conflitto sociale e politico si trasforma in una
dolorosa, nichilista, «guerra civile a bassa intensità» - ed è diventato
qualcosa di più, la formula con cui rappresentare un decennio di
follia, in cui l’Italia si muta in una fucina di violenza
incontrollabile, di odio viscerale, di follia ideologica. Una simile
dilatazione distorce, almeno in parte, la realtà. Quantomeno perché,
proprio negli anni a cavallo tra gli anni Sessanta e gli anni Settanta,
l’Italia vive forse uno dei periodi più vivaci della sua storia, una
stagione di straordinaria creatività pressoché in tutti campi della sua
vita culturale. Ovviamente, l’Italia di quel periodo è anche un paese
lacerato da fortissime passioni politiche, da tensioni ideologiche
capaci di investire in profondità la vita quotidiana, e che in modo non
episodico hanno anche risvolti violenti. Ma gli «anni di piombo» - gli
anni in cui, effettivamente, le armi, lo scontro militare, la
simulazione della guerra civile, si impadroniscono del proscenio –
cominciano solo sul finire di quella stagione, e si consumano, tra
omicidi, esecuzioni, delazioni e vendette, tra la fine degli anni
Settanta e il principio degli anni Ottanta.
Con
ogni probabilità, il 16 marzo 1978 - con la strage di Via Fani - e il 9
maggio 1978 - con l’esecuzione di Aldo Moro - rappresentano in modo
inequivocabile l’ingresso in quella drammatica fase. Ma, prima ancora di
quei giorni tragici, e prima ancora che le Polaroid di Moro prigioniero
delle Br vengano a fissare per sempre il ritratto emotivo di un’epoca,
un’altra foto – anch’essa celebre, e legata a un evento altrettanto
tragico – riesce a restituire il momento preciso in cui hanno inizio gli
«anni di piombo», e in cui finisce la stagione di mobilitazione
collettiva incominciata un decennio prima. Quella foto ritrae un
estremista con il volto coperto da un passamontagna, che, con le gambe
divaricate e leggermente piegate, e con le braccia distese
orizzontalmente, stringe fra le due mani una pistola, puntata verso un
obiettivo che rimane fuori dall’inquadratura.
Nel
corso del tempo, quella foto si è impressa nell’immaginario collettivo
ed è diventata l’«immagine-icona» degli «anni di piombo», perché, come
altre foto celebri del Novecento (alcune delle quali si possono
ritrovare nel recente volume di Hans-Michael Koetzler, 50 icone della fotografia. Le storie degli scatti,
Taschen, pp. 304, euro 19.99), riesce a fissare per sempre, o qualche
volta a ‘costruire’, una condizione emotiva. Non è d’altronde
eccezionale o fortuito che la memoria degli «anni di piombo» sia
condensata in quel fotogramma, o nelle Polaroid di Moro. «Per quanto
l’800 sia il secolo in cui la fotografia è nata», ha scritto Marco
Belpoliti, «è nel ‘900 che il valore d’icona delle foto diventa
centrale, per via della diffusione degli apparecchi di riproduzione, e
della stampa delle foto in giornali e periodici, delle mostre e dei
libri». Così, «diventa naturale affidare alla fotografia la memoria del
passato», «elevare un’immagine a simbolo stesso degli avvenimenti»,
perché, come i ‘simboli’, una foto è in grado «di ‘mettere insieme’,
quello che è accaduto e la comprensione immediata del fatto» (Quando uno scatto diventa un’icona, in «Tuttolibri – La Stampa», 18 giugno 2011, p. VI).
Per
la prima volta, quella fotografia divenuta «icona» e «simbolo» venne
pubblicata il 16 maggio 1977 dal «Corriere d’Informazione», e nei giorni
seguenti fu ripresa da molti altri giornali, in Italia e estero. Nei
trent’anni successivi, quell’immagine è stata d’altronde riprodotta
migliaia di volte, non soltanto perché, molto più di ogni editoriale o
di ogni altro resoconto giornalistico, riesce a dar conto della realtà
di una violenza incontrollabile, estrema. Ma anche perché,
indubbiamente, si tratta di una fotografia esteticamente formidabile,
tanto da suscitare persino il dubbio che sia in qualche modo artefatta o
costruita. Questi caratteri non passarono inosservati a Umberto Eco,
che, pochi giorni dopo la prima pubblicazione, nella propria rubrica
sull’«Espresso», esaminò la fotografia. «Se è lecito (ma è doveroso)
fare osservazioni estetiche in casi del genere», scriveva Eco, «questa è
una di quelle che foto che passeranno alla storia e appariranno su
mille libri» (Una foto, raccolto in Sette anni di desiderio,
Bompiani, Milano, 1983). Quella foto aveva infatti gli stessi elementi
di altre celebri immagini, come quella del miliziano ucciso di Robert
Capa, quella dei marines che piantano la bandiera su un isolotto del
Pacifico, o quella del cadavere di Che Guevara. «Ciascuna di queste
immagini» - continuava Eco - «è diventata un mito ed ha condensato una
serie di discorsi. Ha superato la circostanza individuale che l’ha
prodotta, non parla più di quello o di quei personaggi singoli, ma
esprime dei concetti. È unica ma al tempo stesso rimanda ad altre
immagini che l’hanno preceduta o che l’hanno seguita per imitazione.
Ciascuna di queste foto sembra un film che abbiamo visto e rimanda ad
altri film che l’avevano vista» (ibidem).
Ma la fotografia pubblicata dal «Corriere d’Informazione» non si
limitava a fissare un gesto, un’azione criminale. Al tempo stesso,
‘diceva’ qualcosa di più e di nuovo, contribuiva alla costruzione di un
‘ragionamento’. «Non interessa sapere se si trattava di una posa (e
quindi di un falso); se era invece la testimonianza di un atto di
spavalderia cosciente; se è stata l’opera di un fotografo professionista
che ha calcolato il momento, la luce l’inquadratura; o se si è fatta
quasi da sola, scattata per caso da mani inesperte e fortunate. Nel
momento in cui essa è apparsa il suo iter comunicativo è cominciato: e
ancora una volta il politico e il privato sono stati attraversati dalle
trame del simbolico che, come sempre accade, si è dimostrato produttore
di realtà» (ibidem).
In altre parole – ed era questa la tesi principale di Eco – la
fotografia dello sparatore rivelava il passaggio dall’immagine della
rivoluzione consolidata dall’iconografia (e dunque dall’idea della
rivoluzione come fatto collettivo) a qualcosa di diverso, all’immagine
di un’azione individuale e al modello dell’eroe solitario: «Cosa
ha ‘detto’ la foto dello sparatore di Milano? Credo abbia rivelato di
colpo, senza bisogno di molte deviazioni discorsive, qualcosa che stava
circolando in tanti discorsi, ma che la parola non riusciva a far
accettare. Quella foto non assomigliava a nessuna delle immagini in cui
si era schematizzata, per almeno quattro generazioni, l’idea di
rivoluzione. Mancava l’elemento collettivo, vi tornava in modo
traumatico la figura dell’eroe individuale. E questo eroe individuale
non era quello della iconografia rivoluzionaria, che quando ha messo in
scena un uomo solo lo ha sempre visto come vittima, agnello sacrificale:
il miliziano morente o il Che ucciso, appunto. Questo eroe individuale
invece aveva la posa, il terrificante isolamento degli eroi dei film
polizieschi americani (la Magnum dell’ispettore Callaghan) o degli
sparatori solitari del West – non più cari a una generazione che si
vuole di indiani. Questa
immagine evocava altri mondi, altre tradizioni narrative e figurative
che non avevano nulla a che vedere con la tradizione proletaria, con
l’idea di rivolta popolare, di lotta di massa. Di colpo ha prodotto una
sindrome di rigetto. Essa esprimeva il seguente concetto: la rivoluzione
sta altrove e, se anche è possibile, non passa attraverso questo gesto
‘individuale’» (ibidem).
A trentaquattro anni di distanza, il contesto in cui nacque quel celebre scatto viene oggi restituito da Storia
di una foto. Milano, via De Amicis, 14 maggio 1977. La costruzione
dell’immagine icona degli «anni di piombo». Contesti e retroscena,
un volume ricco di illustrazioni, curato da Sergio Bianchi (Derive
Approdi, pp. 166, euro 20.00). Quel fotogramma ritraeva infatti un
momento delle sequenze più drammatiche di una manifestazione che si
svolse a Milano, il 14 maggio 1977, in occasione della quale, in via De
Amicis, un piccolo gruppo di manifestanti innescò uno scontro a fuoco
con le forze dell’ordine. La sparatoria provocò la tragica morte di
Antonio Custra, venticinquenne Vice Brigadiere di Pubblica Sicurezza,
che lasciava la giovane moglie in attesa di una figlia.
Il
volume curato da Bianchi riporta un cospicuo materiale iconografico –
tra cui spiccano gli scatti relativi proprio ai sessanta secondi di
follia della sparatoria contro gli agenti – che aiuta a comprendere non
solo la dinamica dei fatti, o i restroscena di una celebre fotografia,
ma anche da cosa nascesse quell’attacco, e dunque quali fossero le
motivazioni che condussero una parte (marginale, ma non minoritaria)
dell’estrema sinistra ad abbandonare, di fatto, la piazza e la
mobilitazione per impugnare le armi da fuoco e indirizzarsi verso lo
scontro armato. E, anche per questo, Storia di una foto
considera quegli eventi come il culmine di un crescendo che era
iniziato alcuni mesi prima. In effetti, quella milanese del 14 maggio
non fu la prima manifestazione in cui facevano la loro comparsa le
pistole. Un momento di snodo, da questo punto di vista, era stata la
manifestazione romana del 12 marzo 1977: una manifestazione indetta
all’indomani dell’uccisione a Bologna del militante di Lotta continua
Francesco Lorusso da parte delle forze dell’ordine, che vide sfilare
nella capitale decine di migliaia di persone, e in cui, oltre alle
bottiglie Molotov, furono utilizzati in modo massiccio pistole e persino
fucili. Quello stesso giorno, a Milano un corteo giunse sotto la sede
di Assolombarda, in via Pantano, scaricando pallottole e bottiglie
incendiarie contro le vetrate del palazzo deserto.
Se
quel giorno non si registrarono vittime, due mesi dopo, il 12 maggio,
le cose andarono diversamente. Nel corso di una festa indetta dal
Partito radicale per celebrare l’anniversario del referendum sul
divorzio (e per sfidare il divieto di manifestazioni politiche stabilito
per la città di Roma dall’allora Ministro degli Interni Francesco
Cossiga), alcuni colpi sparati da agenti in borghese uccisero la
studentessa diciannovenne Giorgiana Masi. Proprio in questo clima,
ulteriormente arroventato dall’arresto di due noti avvocati di Soccorso
Rosso, le diverse formazioni della sinistra extra-parlamentare milanese
decisero di organizzare una manifestazione di protesta per il successivo
sabato 14 maggio. Tra i promotori, erano comprese tutte le diverse
anime dell’estrema sinistra, e dunque anche ciò che rimaneva dei
‘gruppi’, come Lotta continua, ormai in via dissoluzione dopo la batosta
elettorale del 20 giugno 1976 e lo scioglimento di qualche mese dopo, e
il Movimento del Lavoratori per il Socialismo, l’organizzazione di
impostazione stalinista, nota soprattutto per il suo servizio d’ordine
quasi paramilitare, che raccoglieva in parte l’eredità del vecchio
Movimento Studentesco di Mario Capanna. All’interno di questa galassia,
in via di rapido disfacimento, un ruolo rilevante era però rappresentato
anche da quanto rimaneva dei collettivi studenteschi e dei collettivi
giovanili, un movimento magmatico ed eterogeneo che, alcuni anni prima,
aveva ottenuto una forte visibilità, ma che, dopo le esperienze
disastrose del Festival del Parco Lambro e della contestazione della
Prima della Scala, nel dicembre del 1976, ormai aveva anch’esso
imboccato la china discendente. A tentare di esercitare una funzione di
indirizzo su forze così eterogenee, si muovevano, in costante
competizione, alcune organizzazioni più o meno informali, che in genere
venivano ricomprese all’interno della cosiddetta ‘area dell’autonomia’.
In particolare, Paolo Pozzi ne individua tre diverse componenti: in
primo luogo, il collettivo del Casoretto, il cui servizio d’ordine
esprimeva ancora una struttura piuttosto consolidata; in secondo luogo,
il gruppo di Rosso, legato all’omonimo giornale, nato alcuni anni prima
dalla confluenza di anime molto diverse, che nel corso degli anni si era
fatto portavoce sia degli organismi autonomi di alcune fabbriche
milanesi, sia dei collettivi giovanili (e delle loro istanze
‘controculturali’); infine, la formazione raccolta attorno al foglio
«Senza Tregua», nata in gran parte da una scissione da Lotta continua e
promossa da gruppi di operai della Magneti Marelli, dell’Innocenti e di
altre fabbriche milanesi (e dalla quale, pochi mesi più tardi, avrebbe
preso forma il gruppo armato Prima Linea).
A
dispetto della complessità degli schieramenti, nel maggio del 1977 gran
parte di queste formazioni appariva ormai in seria difficoltà, sia
perché le inchieste giudiziarie avevano iniziato a colpire i leader più
noti, sia perché l’escalation del livello dello scontro aveva sfoltito
notevolmente la schiera dei militanti. Ma proprio questa situazione di
oggettivo sfaldamento fu all’origine della sparatoria che, il 14 maggio,
ebbe come teatro via De Amicis. Privo ormai di una autentica strategia,
e anche di qualsiasi capacità di mediazione, un gruppo come Rosso si
trovò di fatto imprigionato fra la necessità di evitare che la violenza
si indirizzasse contro lo Stato (ossia, contro le forze dell’ordine) e
l’impossibilità di rinnegare l’esaltazione della violenza.
Un’esaltazione della violenza che «Rosso», sulle sue pagine, aveva
coltivato in modo sempre più ambiguo nel corso del tempo, nel tentativo
di non perdere la guida sulle frange estreme, ormai indirizzate verso la
lotta armata. Al tempo stesso, trovavano uno spazio sempre maggiore le
iniziative, ormai da qualsiasi progetto politico, portate avanti da
alcuni componenti dei collettivi di quartiere, i cui membri erano spesso
studenti delle scuole superiori. E fu in effetti proprio il Collettivo
Romana-Vittoria – composto da giovanissimi come Marco Barbone, allora
diciannovenne – a essere protagonista della folle sparatoria del 14
maggio. Se due mesi prima, in occasione dell’assalto alla sede di
Assolombarda, la violenza si era diretta solo contro le cose, il 14
maggio l’obiettivo divenne infatti tragicamente diverso.
Da
quanto emerge dalle carte processuali, riassunte nel resoconto di
Bianchi, la sparatoria di via De Amicis non fu premeditata, anche se era
stata pianificata un’azione contro il carcere di San Vittore. Se,
dinanzi al carcere, il corteo era sfilato senza incidenti di rilievo
(per l’intervento, pare, dell’ex leader di Potere Operaio Oreste
Scalzone), l’incontro fortuito con una colonna di polizia del III°
Celere, proveniente da via Molino delle Armi e diretta alla caserma di
Sant’Ambrogio, offrì invece alla ‘squadra armata’ Romana-Vittoria
l’occasione per un attacco contro le forze dell’ordine. Mentre il corteo
transitava da via Olona verso via Carducci, una piccola pattuglia di
giovani mascherati, armati di pistole e Molotov, imboccò via De Amicis
per una cinquantina di metri, arrivando fino all’altezza dell’incrocio
con la piccola via Caroccio. A un primo lancio di bottiglie incendiarie,
attribuito dalla ricostruzione giudiziaria ad alcuni studenti
dell’Istituto Cattaneo, seguirono i colpi di arma da fuoco, che, sempre
secondo la sentenza definitiva, furono esplosi dalla componente armata
del collettivo Romana-Vittoria, e in particolare da Marco Barbone,
Enrico Pasini Gatti, Giuseppe Memeo, Marco Ferrandi e Luca Colombo. Ed è
proprio a questi attimi che si riferisce il celebre scatto diventato
l’immagine icona degli «anni di piombo». Il gruppo degli armati fu
infatti seguito in via De Amicis da una pattuglia di ben cinque
fotografi – Dino Fracchia, Paolo Pedrizzetti, Paola Saraceni, Marco Bini
e Antonio Conti – che ripresero, da diverse prospettive, i circa
sessanta secondi dell’attacco armato. E Pedrizzetti, posizionato sul
marciapiede di destra, fissò il momento cui il giovane incappucciato –
in cui in seguito verrà riconosciuto Memeo – sparò in direzione della
polizia, con le braccia unite e le gambe piegate.
Della
foto scattata da Pedrizzetti, il grande pubblico conosce non tanto la
versione pubblicata dal «Corriere d’Informazione», quanto soprattutto
una versione in gran parte tagliata, in cui appare quasi esclusivamente
il giovane incappucciato. Era forse a questa versione che Eco si
riferiva, perché in questo taglio risultano del tutto assenti non solo
la folla dei manifestanti, che fugge lontano dal luogo della sparatoria,
ma anche gli altri fotografi, che, posizionati esattamente dalla parte
opposta della strada, ritraggono la medesima scena da una prospettiva
diversa. Ora, nel libro curato da Bianchi, sono riprodotte tutte le
fotografie scattate in quei momenti da Pedrizzetti, e dunque è possibile
ricostruire i diversi momenti precedenti e successivi alla sparatoria.
Ma nel volume sono presenti anche altri scatti, altrettanto importanti
per ricostruire la dinamica dei fatti.
La
storia di queste foto va d’altronde al di là del semplice interesse
storiografico, perché ha avuto dei risvolti importanti anche nella
vicenda giudiziaria. La ricerca del responsabile non si rivelò infatti
così agevole, non tanto perché non fosse stato piuttosto semplice
ricostruire l’identità dei protagonisti (soprattutto dopo il pentimento
di alcuni di loro), quanto per l’accertamento delle responsabilità dei
singoli nella morte di Custra e nel ferimento di alcuni passanti.
Certamente, gli scatti di Pedrizzetti dovettero facilitare il lavoro
degli inquirenti, e anche la registrazione della cronaca effettuata in
diretta da Radio Canale 96 (la cui trascrizione è riprodotta nel libro)
chiarì non poco la dinamica dei fatti. Ciò nonostante, alcuni degli
indagati contestarono la ricostruzione dei giudici. Ma, soprattutto, le
perizie balistiche scagionarono Memeo, il principale imputato,
dall’accusa di avere ucciso il Vice-Brigadiere. Come in una nuova
versione di Blow-up,
la verità doveva essere cercata proprio nelle fotografie di quei
momenti. Non solo in quelle di Pedrizzetti, ma anche negli scatti degli
altri fotografi presenti il 14 maggio in via De Amicis. Poco dopo i
fatti, gli inquirenti sequestrarono i negativi al fotografo Fracchia, ma
non riuscirono a trovare quelli di Conti, il fotografo che, nel momento
in cui Pedrizzetti fissava lo sparo di Memeo, si trovava sul
marciapiede opposto di via De Amicis, parzialmente riparato dagli
alberi. Quei negativi e quelle foto riemersero solo molti anni dopo, in
seguito a una perquisizione dell’abitazione di Conti, e sono anch’essi
riportati nel libro. Proprio grazie ai negativi di Conti – l’unico dei
fotografi politicamente vicino ai manifestanti, che proprio per questo
non consegnò i negativi – fu possibile ricostruire con maggiore
chiarezza gli eventi. «I suoi scatti (ben 28 negativi) non furono mai
pubblicati: finirono in un cassetto, riposti nel segreto e nella
clandestinità. E, anzi, dodici anni dopo, come ha scritto il giudice
Guido Salvini, sono state proprio quelle fotografie, dopo una
perquisizione a casa di Conti, a trasformarsi in altrettante prove
risolutive per fissare i termini processuali di tutto l’episodio» (G. De
Luna, Controscatto, in «alfalibri – alfabeta 2», n. 2, giugno 2011, p. 3).
Al
di là della vicenda giudiziaria, quegli scatti costituiscono comunque –
per l’osservatore e per lo storico di oggi – un materiale di
straordinario interesse. D’altronde, come ha osservato il curatore:
«l’intento del libro non era un ‘effetto Blow-up’,
cioè far dire alle immagini il contrario di quanto detto sinora
riguardo alla dinamica degli avvenimenti. Oltre al taglio
dell’inquadratura, c’è la situazione di quel tempo» (Storia di ‘Storia di una foto’. Conversazione fra Sergio Bianchi e Andrea Cortellessa,
in «alfalibri – alfabeta 2», n. 2, giugno 2011, p. 3). E la «situazione
del tempo» coinvolge, retrospettivamente, la lettura che Eco fornì a
caldo della celebre foto di Pedrizzetti. A ben vedere, infatti, quello
del giovane incappucciato non appare più come un «gesto isolato», ma
come un gesto – ovviamente folle, insensato, incosciente – che si
inserisce in un determinato contesto, nel quadro di una dimensione
collettiva, non solo rappresentata dal corteo in fuga verso via
Carducci, che si intravede sul fondo della foto. È una dimensione
collettiva che non diminuisce le responsabilità del singolo, e che non
allevia neppure le responsabilità – politiche e umane, ben prima che
giudiziarie – di quanti coltivarono un’ambigua fascinazione per la
violenza. E, d’altronde, fu proprio quella fascinazione a sancire la
fine della mobilitazione collettiva e l’inizio degli «anni di piombo».
Anche se l’interpretazione di Eco era dunque forzata, essa si rivelò
profetica. In qualche misura, come notano nel loro intervento Paolo
Fabbri e Tiziana Migliore, «il ‘frame’ interpretativo di Eco ha
provocato poi il re-frame della foto!». In sostanza, «Eco ha fatto uso
dell’immagine per la sua interpretazione, e questa interpretazione,
sedimentata, è a sua volta stata usata e tradotta in una pratica. A Eco
si è creduto, tanto da ritoccare lo scatto e ripulirlo dalla
partecipazione collettiva, spacciata per superfluo», e, così, «qualcuno,
in sordina, ha creato una trasposizione fotografica ad hoc di quel
verbo, che ha preso a sostituire la versione ufficiale della foto» (14
maggio 1977. La sovversione nel mirino, in Storia di una foto, cit., p.
141).
Ma
l’effetto non si limitò a una re-interpretazione successiva, a una
ri-lettura degli «anni di piombo». L’effetto investì infatti gli stessi
protagonisti, che, in qualche modo, ri-definirono l’immagine di se
stessi sulla base della figura terribile e affascinante dello sparatore
di via De Amicis, dell’«eroe solitario» di cui aveva scritto Eco. «Dal
momento in cui i media attuano la loro operazione di riduzione e
definizione», ha scritto proprio a questo proposito Maurizio Lazzarato,
«il discorso sul terrorismo e la posizione combattentistica dentro al
movimento crescono specularmente, presupponendosi l’un l’altro e
trovando l’uno nell’altro risorse e ragioni per esistere e svilupparsi»,
tanto che, alla fine, «terrorismo e pratiche combattenti
corrispondono». E, in effetti, ciò che rimaneva dell’estrema sinistra
milanese (o della sua frangia estrema) imboccò proprio quel giorno un
rapidissimo processo di decomposizione. Anche se «Rosso» continuò le
pubblicazioni, trasferendo il baricentro fuori da Milano, la sua
funzione di direzione politica venne di fatto superata dall’escalation
militarista che inghiottì le vite di molti giovani e giovanissimi, tra
cui anche quelle dei protagonisti del folle blitz di via De Amicis.
Ferrandi – giudicato, al termine del processo, come l’autore del colpo
di pisola che uccise Custra – aderì a Prima linea, formatasi pochi mesi
dopo sull’ossatura di «Senza Tregua». Memeo entrò invece nei Proletari
Armati per il Comunismo, la piccola formazione armata di cui fece parte
anche Cesare Battisti, e in cui si fusero, senza ormai alcun
collegamento con prospettive di azione politica, militanti di estrema
sinistra e componenti della micro-criminalità. Colombo, De Silvestri e
Barbone - insieme all’ex brigatista rosso Corrado Alunni e ad altri –
diedero vita invece alle Formazioni comuniste combattenti, ma Barbone
avrebbe proseguito la propria attività con la fondazione della Brigata
28 ottobre, la cui principale azione criminale fu l’assassinio di Walter
Tobagi, il 28 maggio 1980. Ma, più in generale, l’immaginario fissato
nella foto di via De Amicis divenne lo specchio in cui quei giovani
potevano ritrovare i contorni di una nuova identità, ri-definendo se
stessi come guerriglieri nichilisti. A partire da quel momento – per
effetto anche della straordinaria e terribile forza suggestiva dello
scatto di Pedrizzetti – quei militanti videro se stessi, sempre di più,
come gli sparatori del cinema poliziesco. E finirono forse per pensare a
se stessi come a un nuovo «mucchio selvaggio». Tanto da gettare il loro
futuro sul piatto di una partita fatale.