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mercoledì 12 aprile 2017

La pace di Max Scheler militarista pentito. Un libro curato da Leonardo Allodi







di Damiano Palano


Questa recensione al volume di Max Scheler L’idea di pace perpetua e il pacifismo, con un’introduzione di Leonardo Allodi (Mimesis, pp. 164, euro 16.00), è apparso su "Avvenire" del 24 marzo 2017.


Nel 1914, quando ebbe inizio la Prima guerra mondiale, Max Scheler aveva da poco compiuto quarant’anni ed era già uno dei principali filosofi tedeschi. Come molti suoi contemporanei si gettò senza esitazioni in un appassionato sostegno degli sforzi bellici del Reich. In termini non molto distanti da quelli utilizzati da Thomas Mann, anche per Scheler la Germania combatteva allora una guerra principalmente culturale, volta a difendere lo spirito nazionale tedesco dal materialismo di cui erano portatrici le potenze avversarie. La guerra era infatti ai suoi occhi un evento in grado di ricostituire l’unità perduta di un popolo e di strappare gli individui all’isolamento della società moderna. E nel suo saggio Il Genio delle guerre e la guerra tedesca si spinse addirittura a vedere nel conflitto (e nella futura vittoria tedesca) l’occasione per una rinascita spirituale dell’Europa, contro la deriva materialista della civilizzazione. L’entusiasmo però non durò molto e gli orrori dei campi di battaglia lo indussero ben presto a rivedere radicalmente le posizioni originarie. Già nel 1917 prese così a considerare la tragedia bellica come la conseguenza del distacco dell’Europa dalle radici cristiane e cominciò a porsi il problema di come costruire, in termini nuovi, una dottrina pacifista. Un problema che tornò ad affrontare anche in uno dei suoi ultimi scritti, L’idea di pace perpetua e il pacifismo, pubblicato ora con un’introduzione di Leonardo Allodi (Mimesis, pp. 164, euro 16.00). Il saggio – scritto di fatto poche settimane prima dell’improvvisa morte di Scheler, avvenuta nel 1928 all’età di cinquantatré anni – si proponeva di tornare criticamente sul progetto di «pace perpetua» che Kant aveva formulato nel 1795. Ma il nodo principale consisteva probabilmente nel delineare un pacifismo che si poggiasse su basi realistiche. E nonostante non si tratti certo di una delle opere più significative di Scheler, proprio questo aspetto ne giustifica ancora oggi la lettura.

La tesi del filosofo era netta e veniva esplicitata proprio nelle righe iniziali: «la pace perpetua è un valore incondizionatamente positivo e pertanto lo deve essere anche idealiter. La guerra e le forme di vita militari e di tipo guerriero non si trovano affatto ‘nella essenza della natura umana’. La pace perpetua è in generale possibile nella storia umana». Per dimostrare il realismo della propria prospettiva, Scheler doveva evidentemente smantellare le basi di quel pensiero militarista verso cui era stato sensibile per molto tempo, e che in Germania aveva avuto cultori influenti come Hegel, Treitschke e Moltke. In primo luogo mostrava dunque come la guerra non fosse l’unica occasione che consentisse atti eroismo e come peraltro una simile possibilità fosse del tutto tramontata nella guerra moderna. Sottolineava inoltre che, se nel passato la guerra aveva avuto effetti positivi per la cultura, ora le guerre erano invece divenute un fattore capace di distruggere le forze culturali. Ma il punto principale consisteva nella critica di quell’idea che faceva scaturire la guerra dalle caratteristiche della «natura umana». 
Anche se l’aspirazione al potere e l’impulso al dominio potevano essere considerati come elementi immutabili, essi non conducevano necessariamente alla guerra. E la linea evolutiva mostrava anzi che l’umanità risultava incamminata verso la riduzione della violenza, verso il tramonto dello Stato di dominio e verso la «pace perpetua». Ma Scheler in realtà non lesinava critiche a tutte principali varianti di pacifismo, di cui biasimava anzi la diffusione tra le giovani generazioni. Evitava comunque di confrontarsi davvero con la vecchia proposta kantiana, che aveva immaginato un assetto istituzionale capace di ridurre la conflittualità tra gli Stati. Tutto il suo discorso rimaneva infatti centrato soprattutto sulla dimensione culturale. Così come la sua difesa della guerra era stata concepita come un rimedio alla decadenza della Kultur dinanzi alla marcia del materialismo, così la sua visione della «pace perpetua» si fondava sulla convinzione risposta in una evoluzione culturale. In questo modo probabilmente pagava il tributo allo Zeitgeist del tempo e alla disillusione nei confronti della Società delle Nazioni. Ma, lungo questa strada, il suo pacifismo non doveva rivelarsi nella sostanza molto diverso da un «militarismo strumentale». 

Damiano Palano

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