di Damiano Palano
Questa recensione al volume di Max Scheler L’idea di pace
perpetua e il pacifismo, con un’introduzione di Leonardo
Allodi (Mimesis, pp. 164, euro 16.00), è apparso su "Avvenire" del 24 marzo 2017.
Nel
1914, quando ebbe inizio la Prima guerra mondiale, Max Scheler aveva da poco
compiuto quarant’anni ed era già uno dei principali filosofi tedeschi. Come
molti suoi contemporanei si gettò senza esitazioni in un appassionato sostegno
degli sforzi bellici del Reich. In termini non molto distanti da quelli
utilizzati da Thomas Mann, anche per Scheler la Germania combatteva allora una
guerra principalmente culturale, volta a difendere lo spirito nazionale tedesco
dal materialismo di cui erano portatrici le potenze avversarie. La guerra era
infatti ai suoi occhi un evento in grado di ricostituire l’unità perduta di un
popolo e di strappare gli individui all’isolamento della società moderna. E nel
suo saggio Il Genio delle guerre e la
guerra tedesca si spinse addirittura a vedere nel conflitto (e nella futura
vittoria tedesca) l’occasione per una rinascita spirituale dell’Europa, contro la
deriva materialista della civilizzazione. L’entusiasmo però non durò molto e
gli orrori dei campi di battaglia lo indussero ben presto a rivedere
radicalmente le posizioni originarie. Già nel 1917 prese così a considerare la
tragedia bellica come la conseguenza del distacco dell’Europa dalle radici
cristiane e cominciò a porsi il problema di come costruire, in termini nuovi,
una dottrina pacifista. Un problema che tornò ad affrontare anche in uno dei
suoi ultimi scritti, L’idea di pace
perpetua e il pacifismo, pubblicato ora con un’introduzione di Leonardo
Allodi (Mimesis, pp. 164, euro 16.00). Il saggio – scritto di fatto poche
settimane prima dell’improvvisa morte di Scheler, avvenuta nel 1928 all’età di
cinquantatré anni – si proponeva di tornare criticamente sul progetto di «pace
perpetua» che Kant aveva formulato nel 1795. Ma il nodo principale consisteva
probabilmente nel delineare un pacifismo che si poggiasse su basi realistiche.
E nonostante non si tratti certo di una delle opere più significative di
Scheler, proprio questo aspetto ne giustifica ancora oggi la lettura.
La
tesi del filosofo era netta e veniva esplicitata proprio nelle righe iniziali:
«la pace perpetua è un valore
incondizionatamente positivo e pertanto lo deve essere anche idealiter. La guerra e le forme di vita
militari e di tipo guerriero non si trovano affatto ‘nella essenza della natura
umana’. La pace perpetua è in generale possibile nella storia umana». Per
dimostrare il realismo della propria prospettiva, Scheler doveva evidentemente
smantellare le basi di quel pensiero militarista verso cui era stato sensibile
per molto tempo, e che in Germania aveva avuto cultori influenti come Hegel,
Treitschke e Moltke. In primo luogo mostrava dunque come la guerra non fosse
l’unica occasione che consentisse atti eroismo e come peraltro una simile
possibilità fosse del tutto tramontata nella guerra moderna. Sottolineava inoltre
che, se nel passato la guerra aveva avuto effetti positivi per la cultura, ora
le guerre erano invece divenute un fattore capace di distruggere le forze
culturali. Ma il punto principale consisteva nella critica di quell’idea che faceva
scaturire la guerra dalle caratteristiche della «natura umana».
Anche se l’aspirazione
al potere e l’impulso al dominio potevano essere considerati come elementi immutabili,
essi non conducevano necessariamente alla guerra. E la linea evolutiva mostrava
anzi che l’umanità risultava incamminata verso la riduzione della violenza, verso
il tramonto dello Stato di dominio e verso la «pace perpetua». Ma Scheler in
realtà non lesinava critiche a tutte principali varianti di pacifismo, di cui
biasimava anzi la diffusione tra le giovani generazioni. Evitava comunque di
confrontarsi davvero con la vecchia proposta kantiana, che aveva immaginato un
assetto istituzionale capace di ridurre la conflittualità tra gli Stati. Tutto
il suo discorso rimaneva infatti centrato soprattutto sulla dimensione
culturale. Così come la sua difesa della guerra era stata concepita come un
rimedio alla decadenza della Kultur
dinanzi alla marcia del materialismo, così la sua visione della «pace perpetua»
si fondava sulla convinzione risposta in una evoluzione culturale. In questo
modo probabilmente pagava il tributo allo Zeitgeist
del tempo e alla disillusione nei confronti della Società delle Nazioni.
Ma, lungo questa strada, il suo pacifismo non doveva rivelarsi nella sostanza molto
diverso da un «militarismo strumentale».
Damiano Palano
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