di Damiano Palano
Questo ricordo di Giovanni Sartori è apparso, in una versione leggermente diversa, sul quotidiano "Avvenire" il 5 aprile 2017.
Noto al grande pubblico per le polemiche giornalistiche e per gli interventi in materia di «ingegneria costituzionale», Giovanni Sartori si definiva soprattutto uno «scienziato politico». E lo studioso scomparso martedì notte fu per molti versi davvero il fautore della ‘rinascita’ della scienza politica italiana, dopo che la disciplina, fondata da Gaetano Mosca sul finire dell’Ottocento, era di fatto scomparsa, sconfitta da agguerriti rivali intellettuali e accademici.
Nato nel 1924 a Firenze, si laureò alla Facoltà di Scienze politiche “Cesare Alfieri”, dove mosse i primi passi della sua carriera, sotto l’ala protettrice di docenti come Giuseppe Maranini. Subito dopo la laurea trascorse però un periodo di studio negli Stati Uniti che si rivelò per molti versi cruciale nel suo itinerario di studio. Benché provenisse da una formazione crociana (e al pensiero del filosofo di Pescasseroli erano dedicati i suoi primissimi scritti), al di là dell’Atlantico venne infatti a contatto con la nascente «rivoluzione comportamentista»: un movimento che stava ripensando radicalmente il metodo delle ‘vecchie’ scienze politiche, in nome di una ricerca che fosse soprattutto «empirica». Superando la condanna che Croce aveva pronunciato contro le scienze sociali (e in particolare contro la sociologia di Vilfredo Pareto), Sartori divenne così in Italia – dagli anni Cinquanta agli anni Settanta – il paladino di una scienza politica che rivendicava un profilo «empirico», pur senza rinunciare al rigore nell’utilizzo dei concetti e degli strumenti teorici.
Il suo testo più importante per la ricerca politologica rimane Parties and Party Systems, apparso nel 1976, un libro in cui sistematizzava in modo originale e pionieristico una tipologia dei sistemi partitici, e in cui sosteneva che il ‘caso italiano’ era riconducibile a un assetto di «pluralismo polarizzato» (non differente da quello della Repubblica di Weimar). Ma all’interno del dibattito intellettuale un peso probabilmente ancora più significativo ebbe Democrazia e definizioni, pubblicato nel 1957 e pochi anni dopo tradotto negli Stati Uniti. Quel libro importava infatti in Italia una nuova concezione della democrazia, di cui Joseph Schumpeter aveva delineato i tratti già negli anni Quaranta e che più tardi i critici ribattezzarono «elitismo democratico». In sostanza, Sartori puntava a ‘depurare’ dalle incrostazioni ideologiche, filosofiche e polemiche il concetto di democrazia. La democrazia non andava dunque intesa come autogoverno del popolo, o come l’espressione della volontà popolare, bensì come un metodo per selezionare i governanti mediante elezioni competitive. La democrazia doveva infatti essere considerata come «un sistema etico-politico nel quale l’influenza della maggioranza è affidata al potere di minoranze concorrenti che l’assicurano». O meglio – con le parole che Sartori avrebbe scritto molti anni dopo in Democrazia cosa è – come «il meccanismo che genera una poliarchia aperta la cui competizione nel mercato elettorale attribuisce potere al popolo, e specificamente impone la responsività degli eletti nei confronti dei loro elettori».
Dal punto di vista del dibattito politico-culturale, Sartori appartenne a quegli ambienti liberali che, all’indomani della fine della Guerra, si trovarono in una posizione minoritaria rispetto ai grandi partiti di massa. E non è difficile ritrovare le tracce di questa estraneità – che spesso diventava ostilità – anche nei suoi interventi. Oltre che un testo di teoria politica, Democrazia e definizioni era infatti una sorta di pamphlet anti-marxista, in cui veniva smantellata la convinzione che i regimi comunisti fossero «democrazie popolari». Nei suoi scritti degli anni Cinquanta, sulla scorta del 1984 di Orwell, paventò inoltre la possibilità che la propaganda totalitaria si tramutasse in una vera e propria «psicagogia»: una manipolazione psicologica ottenuta mediante l’impoverimento degli strumenti linguistici. E molto più tardi riprese questa tesi pessimista, senza più riferimento al rischio totalitario, ma per mettere in guardia dagli effetti della televisione e dalla perdita di capacità cognitive dell’«homo videns». Sartori fu inoltre spietato critico della contestazione studentesca, che dalle pagine del «Corriere della Sera» di Giovanni Spadolini interpretò come l’avanzata di una prepotente «asinocrazia». E proprio temendo che per effetto degli opposti estremismi l’Italia subisse la medesima sorte di Weimar, il politologo alla metà degli anni degli anni Settanta si trasferì a insegnare negli Stati Uniti, prima a Stanford e in seguito alla Columbia University.
A partire dagli anni Novanta – e soprattutto a partire da Pluralismo, multiculturalismo e estranei (2000) – Sartori rivolse i suoi attacchi verso nuovi bersagli. Che divennero soprattutto il multiculturalismo, i flussi migratori, l’estremismo islamico e la Chiesa cattolica. Le responsabilità che il politologo imputava al mondo cattolico erano in particolare di ostacolare quelle misure di controllo delle nascite (che a suo avviso l’Occidente avrebbe invece dovuto incoraggiare e sostenere nei paesi in via di sviluppo) e di impedire lo sviluppo delle tecnologie di manipolazione della vita, che – in nome di una sorta di esasperato illuminismo, tale da spingersi persino verso derive eugenetiche – ai suoi occhi doveva essere invece incoraggiato. E anche per questo, i suoi interventi negli ultimi anni diventavano spesso simili a scomposte invettive. Offuscando così il passato di un intellettuale e di uno studioso che – a dispetto di posizioni non sempre condivisibili – aveva spesso mostrato, insieme a una invidiabile vis polemica, un’indubbia lucidità.
Damiano Palano
Questo ricordo di Giovanni Sartori è apparso, in una versione leggermente diversa, sul quotidiano "Avvenire" il 5 aprile 2017.
Noto al grande pubblico per le polemiche giornalistiche e per gli interventi in materia di «ingegneria costituzionale», Giovanni Sartori si definiva soprattutto uno «scienziato politico». E lo studioso scomparso martedì notte fu per molti versi davvero il fautore della ‘rinascita’ della scienza politica italiana, dopo che la disciplina, fondata da Gaetano Mosca sul finire dell’Ottocento, era di fatto scomparsa, sconfitta da agguerriti rivali intellettuali e accademici.
Nato nel 1924 a Firenze, si laureò alla Facoltà di Scienze politiche “Cesare Alfieri”, dove mosse i primi passi della sua carriera, sotto l’ala protettrice di docenti come Giuseppe Maranini. Subito dopo la laurea trascorse però un periodo di studio negli Stati Uniti che si rivelò per molti versi cruciale nel suo itinerario di studio. Benché provenisse da una formazione crociana (e al pensiero del filosofo di Pescasseroli erano dedicati i suoi primissimi scritti), al di là dell’Atlantico venne infatti a contatto con la nascente «rivoluzione comportamentista»: un movimento che stava ripensando radicalmente il metodo delle ‘vecchie’ scienze politiche, in nome di una ricerca che fosse soprattutto «empirica». Superando la condanna che Croce aveva pronunciato contro le scienze sociali (e in particolare contro la sociologia di Vilfredo Pareto), Sartori divenne così in Italia – dagli anni Cinquanta agli anni Settanta – il paladino di una scienza politica che rivendicava un profilo «empirico», pur senza rinunciare al rigore nell’utilizzo dei concetti e degli strumenti teorici.
Il suo testo più importante per la ricerca politologica rimane Parties and Party Systems, apparso nel 1976, un libro in cui sistematizzava in modo originale e pionieristico una tipologia dei sistemi partitici, e in cui sosteneva che il ‘caso italiano’ era riconducibile a un assetto di «pluralismo polarizzato» (non differente da quello della Repubblica di Weimar). Ma all’interno del dibattito intellettuale un peso probabilmente ancora più significativo ebbe Democrazia e definizioni, pubblicato nel 1957 e pochi anni dopo tradotto negli Stati Uniti. Quel libro importava infatti in Italia una nuova concezione della democrazia, di cui Joseph Schumpeter aveva delineato i tratti già negli anni Quaranta e che più tardi i critici ribattezzarono «elitismo democratico». In sostanza, Sartori puntava a ‘depurare’ dalle incrostazioni ideologiche, filosofiche e polemiche il concetto di democrazia. La democrazia non andava dunque intesa come autogoverno del popolo, o come l’espressione della volontà popolare, bensì come un metodo per selezionare i governanti mediante elezioni competitive. La democrazia doveva infatti essere considerata come «un sistema etico-politico nel quale l’influenza della maggioranza è affidata al potere di minoranze concorrenti che l’assicurano». O meglio – con le parole che Sartori avrebbe scritto molti anni dopo in Democrazia cosa è – come «il meccanismo che genera una poliarchia aperta la cui competizione nel mercato elettorale attribuisce potere al popolo, e specificamente impone la responsività degli eletti nei confronti dei loro elettori».
Dal punto di vista del dibattito politico-culturale, Sartori appartenne a quegli ambienti liberali che, all’indomani della fine della Guerra, si trovarono in una posizione minoritaria rispetto ai grandi partiti di massa. E non è difficile ritrovare le tracce di questa estraneità – che spesso diventava ostilità – anche nei suoi interventi. Oltre che un testo di teoria politica, Democrazia e definizioni era infatti una sorta di pamphlet anti-marxista, in cui veniva smantellata la convinzione che i regimi comunisti fossero «democrazie popolari». Nei suoi scritti degli anni Cinquanta, sulla scorta del 1984 di Orwell, paventò inoltre la possibilità che la propaganda totalitaria si tramutasse in una vera e propria «psicagogia»: una manipolazione psicologica ottenuta mediante l’impoverimento degli strumenti linguistici. E molto più tardi riprese questa tesi pessimista, senza più riferimento al rischio totalitario, ma per mettere in guardia dagli effetti della televisione e dalla perdita di capacità cognitive dell’«homo videns». Sartori fu inoltre spietato critico della contestazione studentesca, che dalle pagine del «Corriere della Sera» di Giovanni Spadolini interpretò come l’avanzata di una prepotente «asinocrazia». E proprio temendo che per effetto degli opposti estremismi l’Italia subisse la medesima sorte di Weimar, il politologo alla metà degli anni degli anni Settanta si trasferì a insegnare negli Stati Uniti, prima a Stanford e in seguito alla Columbia University.
A partire dagli anni Novanta – e soprattutto a partire da Pluralismo, multiculturalismo e estranei (2000) – Sartori rivolse i suoi attacchi verso nuovi bersagli. Che divennero soprattutto il multiculturalismo, i flussi migratori, l’estremismo islamico e la Chiesa cattolica. Le responsabilità che il politologo imputava al mondo cattolico erano in particolare di ostacolare quelle misure di controllo delle nascite (che a suo avviso l’Occidente avrebbe invece dovuto incoraggiare e sostenere nei paesi in via di sviluppo) e di impedire lo sviluppo delle tecnologie di manipolazione della vita, che – in nome di una sorta di esasperato illuminismo, tale da spingersi persino verso derive eugenetiche – ai suoi occhi doveva essere invece incoraggiato. E anche per questo, i suoi interventi negli ultimi anni diventavano spesso simili a scomposte invettive. Offuscando così il passato di un intellettuale e di uno studioso che – a dispetto di posizioni non sempre condivisibili – aveva spesso mostrato, insieme a una invidiabile vis polemica, un’indubbia lucidità.
Damiano Palano
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