di Damiano Palano
Questa recensione al volume di Manlio Graziano, Frontiere (il Mulino, pp. 166, euro 13.00), è apparsa su "Avvenire" di sabato 11 marzo 2017.
Del vecchio muro che per tre decenni
divise in due la città, nella Berlino di oggi rimangono ben poche tracce. Ma i
turisti che visitano la capitale tedesca alla ricerca delle memorie della
Guerra fredda non mancano quasi mai di percorrere, sulle sponde della Sprea, la
cosiddetta East Side Gallery, un breve tratto sopravvissuto alle rapide
trasformazioni urbanistiche seguite alla riunificazione. In quella sorta di
galleria d’arte a cielo aperto, sotto il graffito Dancing to Freedom, si può leggere ancora uno slogan celebre: «No
more wars. No more walls. A united worlds». Uno slogan che non possiamo non ricordare
oggi senza qualche amarezza. Nei quasi trent’anni trascorsi dal 1989, la
speranza di un mondo unito, senza più guerre né muri, si è scontrata infatti con
una realtà molto diversa. La globalizzazione certo ha reso il genere umano
molto più unito, ma ha anche riattivato vecchie linee di frattura e originato
nuovi conflitti. E quasi in ogni angolo del pianeta vengono eretti muri, che,
nell’intento di chi li costruisce, dovrebbero respingere ogni genere di
minaccia. Nel suo volume Frontiere (Il
Mulino, pp. 166, euro 13.00), Manlio Graziano – un politologo italiano che
insegna da molti anni a Parigi – cerca di dare un’interpretazione dell’odierno revival
di muri e linee di confine. E la tesi che propone è molto netta. Le campagne
che dopo la crisi del 2008 hanno iniziato a richiedere il ristabilimento della
sovranità nazionale, il ritorno delle frontiere e la sorveglianza delle linee
di confine sembrano all’apparenza testimoniare la rinascita dello Stato-nazione.
Ma in realtà sono solo la manifestazione più acuta della sua crisi. Una crisi
che è apparsa in tutta la sua gravità nel momento in cui tutte le soluzioni
alternative allo Stato nazionale – il mercato liberalizzato, le aree di
libero-scambio, le unioni doganali e ovviamente le unioni politiche monetarie –
si sono rivelate molto meno efficaci nel garantire la sicurezza interna, i
diritti sociali e la prosperità economica. E proprio per questo in molti sono
tornati a guardare alle frontiere, nella convinzione che un loro pieno
ripristino possa riconsegnare il benessere perduto. Ma le cose sono ovviamente
più complesse. Perché, come sottolinea con forza Graziano, la sicurezza e la
prosperità economica degli Stati occidentali non dipendevano tanto (o soltanto)
dall’esistenza di solide linee di frontiera, quanto dal controllo monopolistico
dei mercati mondiali. Una condizione che evidentemente è venuta meno nel corso
dell’ultimo trentennio, e che è del tutto illusorio pensare di riconquistare
nel futuro che ci attende.
Se il revival delle frontiere è destinato dunque a
scontrarsi con l’irreversibile crisi dello Stato nazionale, ciò non significa
che possiamo tornare a brandire il vessillo ottimistico del «mondo piatto», che
solo dieci anni fa innalzava Thomas Friedman. Perché negli anni a venire
secondo Graziano siamo destinati ad assistere agli effetti di un paradosso
dalle implicazioni drammatiche. Per un verso, il mercato trascende le frontiere
nazionali, mentre per l’altro il contatto tra aree diverse – e diversamente
sviluppate – finisce con l’alimentare nuove collisioni e col suggerire di ricorrere
ai vecchi strumenti del protezionismo, dell’isolazionalismo o persino
dell’anarchia.
La
storia del Novecento ci ricorda come la chiusura protezionista sia stata spesso
l’anticamera della guerra, ma naturalmente ciò non significa che non ci siano
margini per regolare in modo più efficace le transazioni economiche e
finanziarie. All’interno di un quadro segnato da una progressiva transizione
geo-politica e geo-economica, molti dei rimedi che promettono di restaurare la
sovranità dello Stato rischiano però di rivelarsi effettivamente inadeguati. E
sta forse proprio in questa inadeguatezza la vera spiegazione del revival delle
frontiere. Incapaci di regolare davvero i flussi economici globali e di
invertire la rotta della transizione geo-politica, gli Stati troveranno infatti
nelle frontiere uno strumento ‘simbolicamente’ formidabile – benché
concretamente inefficace – per
fronteggiare le paure della società globale. E per questo, se i resti del muro
che divideva Berlino forniscono una tangibile testimonianza del fallimento del
socialismo reale, un giorno i muri di oggi saranno probabilmente considerati
solo come un tragico monumento all’impotenza degli Stati.
Damiano Palano
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