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sabato 4 marzo 2017

Il filo tetro della storia. La nascita del filo spinato in un libro di Oliver Razac






di Damiano Palano

Questa recensione al volume di Olivier Razac, Storia politica del filo spinato. Genalogia di un dispositivo di potere (ombre corte, pp. 157, euro 14.00), è apparsa su "Avvenire", 3 marzo 2017.

Nel 1874 Joseph Farwell Glidden, un contadino dell’Illinois, brevettò un’invenzione destinata a un successo imprevedibile. In quegli anni l’avanzata verso Ovest dei pionieri era giunta sino alle grandi pianure oltre il Mississippi, in territori che fino a quel momento avevano offerto una sterminata area di pascolo alle grandi mandrie di bovini controllate dai cow-boy. Proprio per preservare i loro terreni dalle scorribande delle mandrie di long horns, i coloni avevano la necessità di recintare le loro proprietà. E l’invenzione di Glidden fornì loro una soluzione formidabile. Intrecciando due fili di ferro e una serie di spine, il contadino costruì infatti il primo prototipo di filo spinato, di cui avviò nel giro di poco tempo anche la produzione su grande scala. Quel filo doveva dare ai coloni uno strumento molto economico, oltre che efficace e agevole da posizionare, per impedire le incursioni delle grandi mandrie e dunque preservare il raccolto. 
Ma si trattava solo del primo capitolo di una lunga vicenda, che viene ricostruita da Olivier Razac in Storia politica del filo spinato. Genalogia di un dispositivo di potere, pubblicato ora in versione integrale (ombre corte, pp. 157, euro 14.00). Dopo essere stato utilizzato dai pionieri nelle pianure del Middle-West per respingere degli animali, il filo spinato venne adoperato per ostacolare o rinchiudere essere umani. Ben presto, i militari impegnati sui fronti opposti della Prima guerra mondiale si resero conto infatti che il filo inventato da Glidden – ma in una versione molto più elaborata, aggrovigliato in un «rovo artificiale» – poteva rafforzare le linee di trincea e ostacolare dunque gli attacchi avversari. E in seguito doveva diventare l’elemento onnipresente dell’architettura del campo di concentramento. Per molti versi, scrive anzi Razac, il recinto di filo spinato può essere considerato in questo caso addirittura centrale. Perché il campo non è costruito per durare e non deve entrare nella memoria. Perché può definire rapidamente linee di separazione, cunicoli, corridoi, capaci di dividere i prigionieri. E ovviamente perché può diventare letale, specie quando è carico di corrente elettrica. Nella ricostruzione ‘genealogica’ proposta da Razac, il filo è d’altronde inteso come un elemento cruciale all’interno del progetto biopolitico totalitario, finalizzato ad ‘animalizzare’ il nemico. In questo quadro diventa infatti «l’operatore spaziale emblematico della separazione netta tra chi deve vivere e chi deve morire», anche se al tempo stesso rappresenta «ciò che riunisce i due spazi, la linea lungo la quale essi si incontrano».
Proprio l’utilizzo che ne venne fatto nei campi di sterminio ha reso il filo spinato un simbolo, ai nostri occhi davvero insostenibile, della violenza politica. Il costo politico del suo utilizzo è diventato cioè troppo elevato, almeno in gran parte delle democrazie occidentali. Ma ciò non significa ovviamente che la sua storia si sia davvero conclusa. Piuttosto, l’invenzione di Glidden viene letta come una tappa all’interno di un processo di virtualizzazione delle tecnologie di delimitazione. Una delle implicazioni di questa dinamica – che Razac sottolinea energicamente – è che la violenza del potere oggi non dipende più tanto dalla brutalità fisica, quanto dalla virtualizzazione della sua azione. Ma c’è forse una conseguenza ancora più significativa del processo di virtualizzazione. Primo Levi scrisse che per gli internati nei campi di sterminio nazisti, «la breccia nel filo spinato» era l’immagine concreta della libertà. Se gli strumenti della sorveglianza e del controllo diventano progressivamente più immateriali, se le linee di separazione diventano invisibili, e se le barriere sono sottratte al nostro sguardo, forse diventa davvero inafferrabile anche la libertà. Ma rischiamo comunque di non riuscire più a riconoscere quella violenza brutale di cui il filo spinato, in un secolo e mezzo di storia, è diventato il simbolo.

Damiano Palano

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