di Damiano
Palano
Questa recensione al volume di Olivier Razac, Storia politica del filo spinato. Genalogia di un dispositivo di potere
(ombre corte, pp. 157, euro 14.00), è apparsa su "Avvenire", 3 marzo 2017.
Ma si trattava solo del primo capitolo di una lunga vicenda, che viene ricostruita da Olivier Razac in Storia politica del filo spinato. Genalogia di un dispositivo di potere, pubblicato ora in versione integrale (ombre corte, pp. 157, euro 14.00). Dopo essere stato utilizzato dai pionieri nelle pianure del Middle-West per respingere degli animali, il filo spinato venne adoperato per ostacolare o rinchiudere essere umani. Ben presto, i militari impegnati sui fronti opposti della Prima guerra mondiale si resero conto infatti che il filo inventato da Glidden – ma in una versione molto più elaborata, aggrovigliato in un «rovo artificiale» – poteva rafforzare le linee di trincea e ostacolare dunque gli attacchi avversari. E in seguito doveva diventare l’elemento onnipresente dell’architettura del campo di concentramento. Per molti versi, scrive anzi Razac, il recinto di filo spinato può essere considerato in questo caso addirittura centrale. Perché il campo non è costruito per durare e non deve entrare nella memoria. Perché può definire rapidamente linee di separazione, cunicoli, corridoi, capaci di dividere i prigionieri. E ovviamente perché può diventare letale, specie quando è carico di corrente elettrica. Nella ricostruzione ‘genealogica’ proposta da Razac, il filo è d’altronde inteso come un elemento cruciale all’interno del progetto biopolitico totalitario, finalizzato ad ‘animalizzare’ il nemico. In questo quadro diventa infatti «l’operatore spaziale emblematico della separazione netta tra chi deve vivere e chi deve morire», anche se al tempo stesso rappresenta «ciò che riunisce i due spazi, la linea lungo la quale essi si incontrano».
Proprio l’utilizzo che ne venne fatto
nei campi di sterminio ha reso il filo spinato un simbolo, ai nostri occhi
davvero insostenibile, della violenza politica. Il costo politico del suo
utilizzo è diventato cioè troppo elevato, almeno in gran parte delle democrazie
occidentali. Ma ciò non significa ovviamente che la sua storia si sia davvero
conclusa. Piuttosto, l’invenzione di Glidden viene letta come una tappa
all’interno di un processo di virtualizzazione delle tecnologie di
delimitazione. Una delle implicazioni di questa dinamica – che Razac sottolinea
energicamente – è che la violenza del potere oggi non dipende più tanto dalla
brutalità fisica, quanto dalla virtualizzazione della sua azione. Ma c’è forse una
conseguenza ancora più significativa del processo di virtualizzazione. Primo
Levi scrisse che per gli internati nei campi di sterminio nazisti, «la breccia
nel filo spinato» era l’immagine concreta della libertà. Se gli strumenti
della sorveglianza e del controllo diventano progressivamente più immateriali,
se le linee di separazione diventano invisibili, e se le barriere sono
sottratte al nostro sguardo, forse diventa davvero inafferrabile anche la
libertà. Ma rischiamo comunque di non riuscire più a riconoscere quella
violenza brutale di cui il filo spinato, in un secolo e mezzo di storia, è
diventato il simbolo.
Damiano Palano
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