di Damiano
Palano
«Uno spettro si aggira per il mondo: il
populismo», scrivevano Ghiţă Ionescu ed Ernest Gellner alla fine degli
anni Sessanta, aprendo un volume frutto di un seminario alla London School. E a
distanza di quasi mezzo secolo è oggi davvero difficile non sottoscrivere
quella frase. A dispetto del successo ottenuto dalle proposte politiche di
solito definite «populiste», è però tutt’altro che agevole chiarire cosa ci sia
sotto una formula adottata per identificare movimenti, leader e stili di
comunicazione in realtà molto diversi. E anche per questo la discussione su quale
sia l’«essenza» del populismo (e se una simile «essenza» esista) si protrae da
decenni.
In questo dibattito si inserisce anche il volume Cos’è il populismo? di Jan-Werner Müller (Università Bocconi Editore, pp. 137, euro 16.00, con una introduzione di Nadia Urbinati), che propone una
soluzione tutto sommato abbastanza semplice. Il populismo ai suoi occhi è
infatti «una particolare visione
moralistica della politica, un modo di percepire il mondo politico che
oppone un popolo moralmente puro e completamente unificato» a «élite ritenute
corrotte o in qualche altro modo moralmente inferiori». Ciò significa che i
populisti sono anti-elitari, ma soprattutto anti-pluralisti, nel senso che
ambiscono a rappresentare la totalità del popolo, inteso come soggetto unitario
e omogeneo. E proprio perché rappresentano il popolo come un «tutto», sono
considerati dallo studioso tedesco come una minaccia per la democrazia.
Scritto nel corso della campagna
elettorale per la Casa Bianca, il volume di Müller, più che un saggio
scientifico, è un pamphlet che si
propone di suggerire alcune misure concrete per ‘difendersi’ dal populismo. Ma,
osservato con attenzione, a risultare quantomeno sfuocato è lo stesso criterio che
dovrebbe consentire di identificare i ‘veri’ populisti. Gli esempi cui ricorre
Müller non possono infatti non alimentare qualche perplessità. Nell’affollata
galleria allestita da Müller figurano per esempio Juan Domingo Perón e Hugo
Chavez, Geert Wilders e Marine Le Pen, Silvio Berlusconi e Beppe Grillo, Donald
Trump e Nigel Farage, Vladimir Putin e Recep Tayyip Erdoğan, ma anche il
fascismo italiano e il nazionalsocialismo tedesco. E per quanto alcuni tratti
accomunino davvero questi leader e questi movimenti, è però legittimo chiedersi
a cosa serva una categoria analitica alla quale possono essere ricondotti casi tra
loro tanto eterogenei. Non può inoltre non apparire singolare che sia escluso
dal novero il People’s Party fondato negli Stati Uniti negli anni Novanta
dell’Ottocento, e cioè proprio quel movimento in relazione al quale fu coniato
il termine populism. Ed è anche
piuttosto discutibile che non siano ricondotti al populismo Bernie Sanders, gli
Indignados o Occupy Wall Street, solo perché – secondo il criterio quantomeno
impressionistico adottato da Müller – si sarebbero appellati alle ragioni del novantanove
per cento (e dunque non alla totalità del popolo, bensì solo alla sua
maggioranza).
Senza riuscire a rispondere in modo
efficace alla domanda su cosa sia davvero il populismo, proposte come quelle di
Müller corrono inevitabilmente il rischio di consolidare il sospetto di chi
pensa che sul termine gravi irrimediabilmente l’ipoteca di un’accezione
fortemente spregiativa. Più che ricercare una presunta «essenza» del populismo,
si dovrebbe d’altronde riconoscere che la «logica populista» e l’appello al
popolo diventano strumenti particolarmente allettanti per leader e movimenti
che intravedano uno spazio vuoto, lasciato libero dalla dissoluzione delle
vecchie identità politiche, dalla disgregazione del sistema partitico, dalla
rottura della relazione fiduciaria tra società e classe politica. E anche per
questo, più che sperare di esorcizzare la minaccia alle istituzioni
democratiche che giunge da leader più o meno spregiudicati e demagogici solo pronunciando la
parola «populismo», dovremmo interrogarci un po’ sulle motivazioni – non solo
economiche – di quel vuoto politico che in molte democrazie occidentali sembra
assumere le proporzioni di una voragine. Perché finché quella voragine non
cesserà di estendersi, movimenti populisti non mancheranno di farsi avanti.
Innalzando ogni volta il vessillo di un popolo immaginato, e proclamandosi invariabilmente
fedeli custodi dei suoi interessi traditi.
Damiano Palano