giovedì 19 gennaio 2017

Un «approccio profano» alle guerre mediorientali. «Contro il conflitto di civiltà» di George Corm





di Damiano Palano

Nel suo famoso saggio La rivincita di Dio, pubblicato ormai quasi trent’anni fa, Gilles Kepel segnalò come in molte aree del pianeta (e anche in Occidente) fossero ormai ben visibili le tracce del ritorno della religione sulla scena pubblica. Un ritorno forse non improvviso, ma comunque inaspettato, e soprattutto inatteso dalla gran parte degli studiosi delle trasformazioni sociali, i quali, per buona parte del Novecento, avevano condiviso l’idea che la «morte della religione» fosse una conseguenza pressoché scontata della modernizzazione. Ciò che allora Kepel metteva in luce non era tanto una semplice rinascita del ‘sacro’, quanto un ritorno della religione sulla scena pubblica. Sul finire degli anni Settanta, fenomeni tra loro molto diversi – tra cui in particolare la rivoluzione islamica in Iran – iniziarono infatti a sancire la nascita di un nuovo discorso religioso, che non cercava più «un adeguamento ai valori secolari», ma esaltava invece «il superamento di una modernità fallita, attribuendo insuccessi e disorientamenti all’allontanamento da Dio». 
Nonostante le tesi proposte da Kepel abbiano incontrato più di qualche critica, l’idea della «rivincita di Dio» è stata adottata e discussa fondo da molti studiosi, anche nel quadro delle nuove problematiche che il pluralismo incontra in un contesto «post-secolare». Ma quella stessa formula, soprattutto dopo l’11 settembre 2001, è andata a confondersi (e talvolta persino a sovrapporsi) con la tesi dello «scontro delle civiltà», generando fraintendimenti, semplificazioni e vere e proprie distorsioni. E sono proprio questi fraintendimenti che costituiscono la premessa di Contro il conflitto di civiltà. Sul «ritorno del religioso» nei conflitti contemporanei del Medio Oriente (Guerini e Associati, pp. 235, euro 19.50), il nuovo libro dell’intellettuale e politico libanese George Corm, già noto in Italia per alcuni studi sulla storia del Vicino e del Medio Oriente. Il libro di Corm – «fervente nostalgico dell’era del nazionalismo arabo», come scrive nell’introduzione la curatrice dell’edizione italiana Marina Calculli– è infatti una sorta di dura requisitoria contro tutte le spiegazioni della politica internazionale che chiamano in causa il «ritorno del sacro». In altre parole, secondo l’autore, per comprendere i conflitti il ricorso agli elementi religiosi finisce col diventare fuorviante, perché le guerre devono essere spiegate semplicemente ricostruendo la pressione di fattori ‘materiali’ come la demografia, la geografia e l’economia. Il fattore religioso viene semplicemente utilizzato per fini strumentali da élite politiche che perseguono una politica di potenza e ricercano una legittimazione. «Se mi sono così tanto dedicato a questi temi», scrive infatti nelle prime pagine, «è perché ritengo che i conflitti mediorientali, moltiplicatisi negli ultimi anni fino ad assumere proporzioni allarmanti (un’incontenibilità che mette a sua volta in pericolo la pace nel mondo), siano principalmente dovuti alla manipolazione politica del religioso e della memoria storica, responsabile dell’intensità crescente dei conflitti in questa regione del mondo». Ma soprattutto avverte: «dietro questa vergognosa copertura, non ci sono che sordidi interessi di potenza, assieme alle passioni umane e alle ambizioni che esse possono sprigionare». È per questa specifica chiave di lettura che Corm definisce «profano» il proprio approccio all’analisi dei conflitti: si tratta infatti di un approccio «che rifiuta di analizzare conflitti attraverso l’antropologia religiosa o etnica, attraverso diverse forme di spiegazione essenzialista delle cause dei conflitti, individuando un fattore unico o un unico colpevole del conflitto», e dunque di un approccio che «tenta di ristabilire una conoscenza delle cause reali dei conflitti che hanno le loro radici nella storia delle differenti società – una storia sempre complessa e che non si presta ad alcuna semplificazione». In particolare, nel passare in rassegna i fattori che non possono essere dimenticati, Corm sottolinea l’importanza delle tendenze demografiche, delle pressioni economiche, delle determinanti geografiche, oltre che delle radici storiche. 
Il libro raccoglie una serie di saggi che risalgono in prevalenza a una decina di anni fa. Proprio questa origine spiega probabilmente una foga polemica che va intesa anche come reazione alla retorica apocalittica della «guerra al terrorismo» della presidenza di George W. Bush. Forse anche il fatto che in questi anni il contesto sia tanto mutato contribuisce a evidenziare le forzature di cui il volume risente. Nel momento in cui richiama l’attenzione sui fattori ‘materiali’ alla base dei conflitti, sicuramente Corm mette in guardia dagli eccessi del ‘culturalismo’, o dalla tentazione di guardare alle religioni come ‘essenze’ monolitiche e immutabili. Ma, al tempo stesso, finisce con l’adottare un quadro riduzionista, se non addirittura determinista: un quadro in cui tutte le mediazioni culturali scompaiono, e in cui rimangono padrone della scena solo le risorse materiali che spingono gli Stati al conflitto e all’estensione della loro potenza. Se le risorse hanno naturalmente sempre un peso rilevante, sarebbe però quantomeno ingenuo ritenere che gli elementi culturali – che orientano le élite, ma che nutrono anche gli immaginari delle popolazioni – siano del tutto irrilevanti. D’altronde lo stesso Corm attribuisce buona parte delle responsabilità dell’odierno disordine internazionale proprio a fattori eminentemente ‘culturali’, come per esempio gli errori di interpretazione imputati all’amministrazione statunitense, dovuti o a stereotipi culturali, o l’influsso dell’ideologia dello «scontro delle civiltà», o la tesi del «ritorno del sacro» proposta da Leo Strauss e Jacques Lacan, o il dibattito sulle «radici» religiose dell’Europa (un dibattito cui peraltro è oggi molto difficile imputare i fallimenti dell’Unione europea). Ed è forse anche per questo che l’«approccio profano» delineato da Corm, che certo serve come antidoto alle mille scorciatoie essenzialiste proliferate in questi anni, rischia talvolta di restituire – prima che una visione stilizzata del «ritorno del sacro» – soprattutto un’immagine della politica impoverita. Se il ricorso agli strumenti dell’antropologia culturale e religiosa non è probabilmente così inutile come pare suggerire Corm (anche perché non implica necessariamente l’adozione di una visione delle culture e delle religioni come ‘essenze’), adottare fino in fondo una "visione profana" - specie da parte di noi europei - rischia di aprire la strada verso una facile autoassoluzione per lo stesso Occidente e per la sua cultura. Perché, rinviando tutto alla vecchia logica di potenza, può indurci considerare il fanatismo di matrice religiosa non troppo diversamente da come a lungo si considerò il "dispotismo orientale", e cioè come l'espressione di un mondo totalmente distante dal nostro. Più che difendere il modello francese della «laicità repubblicana», di cui Corm si dichiara e si mostra incrollabile alfiere, ci dovremmo invece chiedere, per esempio, perché quel modello è entrato in crisi, perché molti giovani francesi (ma non solo francesi) non vedono più in quel modello una possibilità di emancipazione, e perché alcuni trovano solo in una versione politica (e quasi sempre schematica) dell'islam l'unico strumento per dare voce alla loro estraneità. Perché, se certo in politica contano le risorse materiali, sarebbe ingenuo dimenticare che la politica si nutre sempre anche di simboli, di miti e immaginari.

Damiano Palano

domenica 8 gennaio 2017

Lo Stato non è morto, ma la democrazia? "Territori e poteri" di Sabino Cassese





di Damiano Palano

Questa recensione al volume di Sabino Cassese, Territori e poteri. Un nuovo ruolo per gli Stati? (il Mulino, pp. 130, euro 12.00), è apparsa su "Avvenire" il 5 gennaio 2017, con il titolo Democrazia al bivio nell’era della globalizzazione

«Lo Stato personale e sovrano è morto o è sul punto di morire», scrisse nel 1908 il giurista francese Léon Duguit. Da allora, nel corso di più di un secolo, prognosi del medesimo segno sono state riproposte quasi ciclicamente, e ogni volta l’attenzione si è fissata su tendenze destinate a condannare lo Stato alla senescenza. Naturalmente è sin troppo facile smentire simili profezie. Gli Stati sono infatti ancora i principali protagonisti della politica internazionale. Tutti i 193 membri delle Nazioni Unite sono Stati sovrani. E il numero degli Stati negli ultimi quarant’anni, invece di diminuire, è aumentato. Ma se questi dati di fatto (insieme a molti altri) sembrano confermare la vitalità dello Stato, non sono però sufficienti per indurre a scartare del tutto l’ipotesi della «crisi». Sabino Cassese, nel suo recente volume Territori e poteri. Un nuovo ruolo per gli Stati? (il Mulino, pp. 130, euro 12.00), tenta di imboccare proprio una simile direzione, riconoscendo per un verso la capacità di resistenza della configurazione statale, ma prendendo atto, dall’altro, che i confini degli Stati sono oggi tutt’altro che impermeabili a flussi di persone, informazioni e capitali. E sottolineando soprattutto che gli Stati non sono più gli unici attori della regolazione internazionale. Nell’ultimo trentennio è infatti cresciuto il ruolo delle organizzazioni internazionali e sovranazionali, con l’obiettivo di regolare e governare quei flussi che oltrepassano i confini (come per esempio il terrorismo o il riscaldamento del pianeta). Queste organizzazioni, comunque, continuano ad affidarsi proprio agli Stati per esercitare le loro funzioni di regolazione. E la Global Polity non è allora un’alternativa agli Stati nazionali. La globalizzazione non ha cioè realmente ‘espropriato’ lo Stato delle sue funzioni, e anzi l’irrompere dei flussi globali ha addirittura innescato il rafforzamento degli strumenti di intervento nazionali. Gli Stati entrano però a far parte di reti globali, e questo incide sul loro ruolo e sul loro potere. Per un verso gli Stati sono cioè i creatori delle organizzazioni globali, mentre per l’altro ne sono gli agenti. E dunque la sovranità – che i classici del pensiero politico moderno consideravano indivisibile – diventa «condivisa».
Se lo Stato sembra destinato a una lunga vita, anche nel contesto della Global Polity, le cose sono invece molto più complicate per la democrazia rappresentativa, almeno per come l’abbiamo conosciuta. Verso il «basso» la democrazia sembra infatti perdere la capacità di rappresentare le domande della società, innanzitutto perché quel «popolo» cui è solennemente affidato il potere «sovrano» non coincide più con la popolazione che vive su un determinato territorio, ma solo con una sua parte. E una fetta rilevante dei residenti – che godono dei diritti civili, sociali ed economici, ma non di quelli politici – rimane così sostanzialmente esclusa dai meccanismi della rappresentanza. Verso l’«alto» la democrazia sembra invece perdere una parte del proprio potere. Dal momento che la sovranità viene «condivisa» e che una parte dei compiti sono devoluti a organismi sovranazionali, il controllo sull’esercizio di questi compiti diventa solo indiretto. Ma proprio per questo i legami di responsabilità diventano più deboli. E il controllo sulla rete di poteri della Global Polity è destinato a rivelarsi molto spesso del tutto inefficace. 

Damiano Palano