di Damiano Palano
Questa recensione al libro di Luca Baccelli, Bartolomé de Las Casas. La conquista senza fondamento (Feltrinelli, pp. 282, euro 25.00), è apparsa su "Avvenire" il 16 dicembre 2016.
Nei manuali di storia del pensiero politico il nome
di Bartolomé de Las Casas viene di solito ricordato solo fuggevolmente e al suo
contributo – a differenza di quanto accade per grandi esponenti della
scolastica spagnola come Francisco de Vitoria e Francisco Suarez – sono
dedicate solo poche righe. La riflessione di Las Casas occupa invece un posto
cruciale, che andrebbe finalmente riconosciuto. E un passo importante in questa
direzione è rappresentato dal volume di Luca Baccelli, Bartolomé de Las Casas. La conquista senza fondamento (Feltrinelli,
pp. 282, euro 25.00), che ricostruisce le sequenze di un’esperienza destinata a
sfociare nella difesa degli «indiani» e in una spietata critica della
colonizzazione del Nuovo Mondo.
Nato a Siviglia nel 1484,
Las Casas giunse per la prima volta all’Hispaniola nel 1502, e già nel corso di
questa prima spedizione ebbe modo di assistere alle atrocità perpetrate dagli
spagnoli. Tornò però presto in Europa, dove fu ordinato presbitero e
probabilmente conseguì una laurea in Diritto canonico a Salamanca. Quando nel
1509 approdò nuovamente all’Hispaniola erano già maturate le prime critiche
alle violenze contro i nativi, e in particolare i domenicani presenti sull’isola
avevano cominciato a sostenere che i coloni spagnoli vivevano in peccato
mortale a causa della crudeltà con cui trattavano gli indigeni. Las Casas si
avvicinò progressivamente a queste posizioni, ma un’autentica svolta avvenne
mentre preparava l’omelia per la Pasqua del 1514. Da allora prese a predicare
contro la tirannide e la schiavitù. Tornò in Castiglia per perorare la causa
degli indigeni dinanzi all’anziano re Ferdinando. Ottenuta l’approvazione del
proprio modello di colonizzazione, attraversò ancora una volta l’Atlantico,
giungendo nel Nuovo Mondo con il titolo di «Protector universal de todos los
indios de las Indias». Ma subito dovette scontarsi con le opposizioni dei
coloni. A partire dal 1519, di fronte a una serie di fallimenti e nuovi
massacri, interruppe l’attività pubblica. Per circa quindici anni si dedicò
agli studi ed entrò nell’ordine domenicano. Più tardi riprese i vecchi progetti
di colonizzazione pacifica, in particolare nella regione di «Vera Paz».
Nominato nel 1543 vescovo del Chiapas, ebbe un ruolo determinante per la
redazione delle Leyes nuevas, con cui
i nativi venivano riconosciuti sudditi della corona di Spagna e si stabiliva
l’eliminazione della schiavitù. In seguito le Leyes furono ridimensionate, e Las Casas si trovò così impegnato in
nuove battaglie. E ancora pochi mesi prima di morire, nel 1566, inviò a papa
Pio V una petizione in cui chiedeva un decreto che scomunicasse coloro che
dichiaravano «giusta» la guerra contro gli indigeni.
L’originalità del contributo
di Las Casas è legata soprattutto a un’idea dell’eguaglianza che (giungendo
anche a rompere con Aristotele) esclude la schiavitù e richiede che ogni forma
di potere si fondi sul consenso. Ma proprio il nodo della «guerra giusta» –
allora al centro di infuocate discussioni – era fondamentale nella sua
riflessione. A questo proposito Las Casas seguiva la critica che Vitoria aveva
indirizzato a Sepùlveda, ma – come mostra efficacemente Baccelli – la
radicalizzava ulteriormente. Anche Las Casas, come Vitoria, faceva infatti
discendere i diritti dalla nozione aristotelica dell’uomo come «animale
politico». Ma se Vitoria legittimava la presenza degli spagnoli in America, per
Las Casas i nativi erano invece i signori naturali, che avevano diritto di
opporsi all’occupazione dei loro territori. E dunque riconosceva anche alle
comunità indigene la titolarità dello jus
belli. Ma ciò nonostante, soprattutto in alcuni passaggi, anche la stessa
nozione di «guerra giusta» era svuotata di ogni significato. Perché la guerra
appariva ai suoi occhi solo come «multorum
homicidium commune et latrocinium». E cioè solo come un omicidio di massa,
senza alcuna possibile giustificazione.
Damiano Palano
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