di Damiano Palano*
Probabilmente
non si dovrebbe interpretare l’esito di un referendum costituzionale come una
consultazione su un governo o un leader politico. Ma nel caso del referendum
del 4 dicembre è davvero impossibile non farlo, sia per le modalità con cui si
è giunti al voto, sia per le proporzioni che ha assunto il risultato finale. La
schiacciante maggioranza di contrari alla riforma costituzionale, prima ancora
che sancire una vittoria del fronte del No, segna infatti una clamorosa
sconfitta di Matteo Renzi. Proprio quello stesso leader che ha sempre vantato
di avere una sorta di ‘filo diretto’ con i cittadini ha compiuto l’errore di
valutazione probabilmente più clamoroso che la storia repubblicana ricordi. Perché
come un dissennato giocatore d’azzardo ha puntato tutto – se stesso, il proprio
partito e persino l’intero Paese – su una carta rivelatasi perdente. E se certo
la carriera politica di Renzi non finisce con questa sconfitta, l’esito del
referendum lascia però un’Italia nuovamente alle prese con la ricerca di un
governo, lacerata da nuove linee di frattura e con un sistema di partiti – se
possibile – ancora più debole (perché è evidente che la principale vittima
della disfatta è proprio il Partito Democratico).
Nell’esito del voto hanno senza dubbio avuto un peso la marcata personalizzazione del quesito e la lunghezza estenuante della campagna. Proprio questi fattori hanno consentito alle composite opposizioni del governo non solo di ‘politicizzare’ il voto, ma anche di mobilitare i rispettivi elettori, e soprattutto molti di quelli che negli ultimi due anni avevano disertato le urne. Alla fine, infatti, l’affluenza (68,48% in Italia, 65,47% tenendo conto anche del voto dei residenti all’estero) è risultata notevolmente superiore a quella delle elezioni europee del 2014. E anche questo ha determinato lo scarto finale di circa sei milioni di voti di differenza a favore del No.
Nell’esito del voto hanno senza dubbio avuto un peso la marcata personalizzazione del quesito e la lunghezza estenuante della campagna. Proprio questi fattori hanno consentito alle composite opposizioni del governo non solo di ‘politicizzare’ il voto, ma anche di mobilitare i rispettivi elettori, e soprattutto molti di quelli che negli ultimi due anni avevano disertato le urne. Alla fine, infatti, l’affluenza (68,48% in Italia, 65,47% tenendo conto anche del voto dei residenti all’estero) è risultata notevolmente superiore a quella delle elezioni europee del 2014. E anche questo ha determinato lo scarto finale di circa sei milioni di voti di differenza a favore del No.
Dalle
proporzioni della sconfitta emerge quello che – al di là del merito della
proposta di riforma – è stato (almeno per ora) il fallimento politico
principale di Matteo Renzi. Se l’ex sindaco di Firenze conquistò prima il
Partito Democratico e subito dopo Palazzo Chigi con la grande promessa di
andare al di là del tradizionale bacino elettorale del centro-sinistra,
‘pescando’ voti nell’area di centro-destra, senza al tempo stesso smarrire consensi
sul versante di sinistra, è evidente che l’esito della consultazione
referendaria ha sancito il tramonto di questa ambizione. Perché è difficile non
notare come, al di là delle percentuali, i voti a favore del Sì (13.432.208)
non siano molto distanti dalla somma dei voti riportati alla Camera nel 2013
dal centro-sinistra e dalla coalizione guidata da Mario Monti (13.640.934).
Naturalmente nel corso di quasi quattro anni le geometrie tra le forze
politiche sono cambiate. Ma in ogni caso Renzi non è riuscito nell’impresa che
si proponeva (o, quantomeno, ha perso verso sinistra quel poco che ha
conquistato sul versante di centro-destra), mentre gli avversari “populisti”
che puntava a indebolire appaiono oggi ancora più forti di quattro anni fa. Ovviamente
un simile bacino elettorale, di questi tempi, non può essere trascurato, specie
dopo mille giorni di governo. Ma non poteva essere sufficiente in
un referendum, tramutatosi ben presto – per volontà di tutti – in un referendum
su un leader e su un’intera esperienza di governo.
Osservata
con distacco, la vicenda politica di Matteo Renzi non può essere però considerata
solo come un’eccezione italiana. Perché in qualche modo conferma ancora una
volta quali sono, al tempo stesso, la forza e i limiti della personalizzazione
della politica. In una fase storica in cui le grandi appartenenze si sfaldano e
in cui i partiti di massa sono ormai un ricordo del passato, la politica può
sopravvivere solo grazie a leadership carismatiche, attorno alle quali
costruire messaggi di cambiamento radicale e uno storytelling entusiasmante. Ma in tempi di crisi – e dinanzi alla
stretta del “vincolo esterno” – qualsiasi storytelling
è destinato a rivelarsi ben presto solo un effimero mantello retorico gettato
sulle spalle di una politica debole, del tutto incapace di modificare la realtà.
Così come altri leader europei hanno visto dissolversi quasi fulmineamente la
loro legittimazione, anche Matteo Renzi – salito meno di tre anni fa a Palazzo
Chigi come “rottamatore” e come paladino del “Paese reale” – ha così finito col
diventare, agli occhi di molti, il simbolo stesso, più che della “casta”, di
una politica incapace di mantenere le proprie solenni promesse. E alla ricerca
di quella legittimazione che le urne non gli avevano mai dato, si è dovuto scontrare
con l’ostilità (che i suoi spin doctor avevano probabilmente sottovalutato)
proprio di quei settori – i giovani, i disoccupati, le fasce marginali della
società – che in teoria dovevano essere gli interlocutori principali del “rottamatore”,
ma che si sono rivelati invece i suoi più strenui e radicali oppositori.
Poco più di cento anni fa, in tempi di partiti di massa e di grandi strutture burocratiche, Robert Michels parlò di una “legge ferrea dell’oligarchia”. Qualsiasi movimento politico che voglia ottenere dei successi, diceva Michels, deve dotarsi di un’organizzazione efficiente. Ma, inevitabilmente, proprio un’organizzazione disciplinata è destinata a produrre un’oligarchia. Quel mondo è per noi ormai lontano. E forse oggi dovremmo parlare invece di una “legge ferrea dell’obsolescenza della leadership”. Perché ogni formazione politica che voglia ottenere dei risultati deve necessariamente dotarsi di una leadership efficace. Ma nessuna (o quasi nessuna) leadership di successo sembra poter resistere a lungo alla prova del governo.
Poco più di cento anni fa, in tempi di partiti di massa e di grandi strutture burocratiche, Robert Michels parlò di una “legge ferrea dell’oligarchia”. Qualsiasi movimento politico che voglia ottenere dei successi, diceva Michels, deve dotarsi di un’organizzazione efficiente. Ma, inevitabilmente, proprio un’organizzazione disciplinata è destinata a produrre un’oligarchia. Quel mondo è per noi ormai lontano. E forse oggi dovremmo parlare invece di una “legge ferrea dell’obsolescenza della leadership”. Perché ogni formazione politica che voglia ottenere dei risultati deve necessariamente dotarsi di una leadership efficace. Ma nessuna (o quasi nessuna) leadership di successo sembra poter resistere a lungo alla prova del governo.
Damiano Palano
* questo testo è stato parzialmente pubblicato su Cattolica News
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