di Damiano Palano
Se
fino a qualche decennio fa era ancora circondato da un ambiguo fascino
romantico, il gioco d’azzardo a partire dagli anni Novanta ha subito una vera e
propria mutazione genetica. Si è trasformato infatti in un fenomeno di massa,
che coinvolge ogni fascia d’età e ogni strato sociale. E chiunque può rendersi
conto della portata di questa metamorfosi provando a contare le slot machine che proliferano quasi
ovunque, oppure osservando l’ininterrotto flusso di clienti che si affolla ai
punti vendita delle lotterie istantanee. Spesso ci si è finora limitati a
riflettere sui casi più estremi di ‘dipendenza patologica’ dal gioco, sui suoi
aspetti criminali e sulle responsabilità degli Stati. Ma è mancato uno sguardo
d’insieme sul fenomeno. Il volume Ludocrazia.
Un lessico dell’azzardo di massa, curato da Marco Dotti e Marcello Esposito
(ObarraO edizioni, pp. 318, euro 16.00) rappresenta invece un primo tentativo
di indagare in profondità le radici e le conseguenze di un mutamento che non
può essere circoscritto alle forme più estreme della ‘ludopatia’. Ovviamente lo
sguardo è volto a ricostruire i meccanismi su cui si basa l’addiction, la dipendenza dal gioco, e le
dimensione di un fenomeno di cui solo in parte i dati statistici riescono a
dare conto. Ma le voci che compongono questa sorta di dizionario – da Addiction a Videolotteries, passando per Las
Vegas, Gioco e Slot machine – tentano soprattutto di
suggerire l’idea secondo cui l’azzardo di massa, sfondando gli argini della
vita quotidiana, avrebbe innescato profonde conseguenze sulle relazioni sociali
e sul nostro immaginario.
In questa prospettiva la Gamification non è qualcosa che riguarda esclusivamente il gioco
d’azzardo in senso stretto, o solo i comportamenti patologici. Si tratta
piuttosto di una tecnica articolata con cui vengono inseriti nei diversi ambiti
della vita quotidiana elementi propri del gioco (come possono essere punti,
premi, salti di livello). L’obiettivo è ovviamente condizionare e indirizzare i
comportamenti, ma senza che ciò avvenga in modo costrittivo. Trasformando
un’attività in un ‘gioco’ – che mette in palio un premio (da una merendina a un
posto di lavoro) – si può riuscire infatti ad aumentare il coinvolgimento da
parte di un soggetto a una situazione di per sé poco attraente, o addirittura
percepita come sfavorevole e ostile. Nessuno così costringe nessuno a fare
alcunché. Ma, attraverso premi e gratificazioni, si finisce comunque per
apprendere un determinato comportamento. In questo modo la competizione più
aspra può diventare una gara agonistica, mentre il clima del conflitto può
stemperarsi nell’atmosfera ludica. Ed è per effetto di questa formidabile
capacità di influenzare il comportamento individuale che le tecniche legate al
gioco non restano più circoscritte dentro le pareti dei grandi casinò ed escono
anche dal perimetro del «gioco d’azzardo legale», alimentando le nuove
strategie del marketing. Ma questa diffusione epidemica del gioco incide in
profondità sulle relazioni sociali, perché modifica il contesto ambientale
delle nostre relazioni. «Trasformare tutto in gioco (e in azzardo) non annulla
solo le potenzialità del gioco», scrivono infatti Dotti ed Esposito, ma
«annulla l’umano in quanto tale». Perché scompaiono l’Altro, la relazione e il
mondo. E proprio come nel Paese dei Balocchi di Pinocchio, quando tutto diventa
gioco, il gioco cessa di essere tale.
Damiano Palano
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