di Damiano Palano
Nel 1974, l’allora giovane Immanuel Wallerstein pubblicò il suo articolo forse più famoso, nel quale esponeva i cardini della teoria dei sistemi-mondo, al centro poi di un’opera quantomeno ambiziosa sulla storia del capitalismo. In quell’articolo Wallerstein forniva una sintetica illustrazione dell’intreccio tra fattori economici e politici che, a partire dal XVI secolo aveva consentito all’«economia-mondo» capitalistica di avere progressivamente la meglio sugli «imperi-mondo», che avevano invece segnato in profondità la storia precedente. In quella vicenda, ovviamente aveva giocato un ruolo importante l’affermazione dello Stato moderno. Ma ancora più rilevante era stata l’affermazione di varie potenze politicamente ed economicamente egemoni, che, di volta in volta, avevano rappresentato il «centro» del sistema dell’economia-mondo. E in particolare, lo studioso newyorkese individuava tre grandi casi di egemonia: le Province Unite Olandesi nel Settecento, la Gran Bretagna nell’Ottocento e gli Stati Uniti nel XX secolo. ovviamente ognuno di questi cicli era segnato da una fase ascendente e da una più o meno prolungata fase discendente. Forse il motivo del successo dell’articolo era però legato al fatto che Wallerstein sosteneva che gli Stati Uniti, dopo aver toccato il culmine della loro parabola, avessero già imboccato la via del declino alla fine degli anni Sessanta. E anche per questo si poteva già intravedere all’orizzonte una quarta fase, dominata da aree ex-periferiche, tra cui non poteva non spiccare la Cina di Mao.
Ma Wallerstein non fu certo l’unico a scorgere il segnali del declino americano. Al principio degli anni Ottanta Robert Gilpin tornò a Tucidide per elaborare un’affascinante teoria della stabilità egemonica, che conduceva a una previsione non troppo fausta per il futuro di Washington. Gilpin individuava come condizione per la stabilità del sistema internazionale la presenza di una potenza egemone, che fosse molto più forte rispetto agli altri Stati dal punto di vista economico, tecnologico e militare. Dopo una fase di ascesa, all’egemone toccava però inevitabilmente il destino del declino. L’esempio paradigmatico non poteva non essere la potenza ateniese, che dopo avere guidato le città greche alla vittoria contro il vicino persiano era rimasta vittima del proprio successo. Ma anche Gilpin non esitava a intravedere nello specchio dell’Atene di Pericle l’immagine degli Stati Uniti usciti dagli anni Settanta. La supremazia economica e tecnologica risultava sempre più insidiata da Europa e Giappone, mentre anche fattori interni alla società americana (e soprattutto il venire meno del patriottismo) sembravano rappresentare un’insidia altrettanto minacciosa.
A distanza di tanti anni è oggi piuttosto semplice liquidare quegli allarmismi come eccessivi, se non del tutto fuorvianti. A dispetto delle previsioni di Wallerstein e Gilpin (ma anche di storici come Paul Kennedy) negli anni Ottanta l’economia americana si riprese e, anche grazie alla rivoluzione microelettronica, riconquistò quel primato che sembrava destinata a smarrire. E, soprattutto, a emergere clamorosamente fu invece il declino della superpotenza sovietica, destinata di lì a poco a dissolversi sotto il peso di un’economia arretrata e della sconfitta militare in Afghanistan. È anche per questo che la tesi del nuovo libro di Joseph S. Nye, Fine del secolo americano? (Il Mulino, pp. 134, euro 13.00), non può che apparire come un antidoto contro le retoriche ‘decliniste’, che prevedono l’imminente conclusione del primato di Washington.
Il politologo – noto in Italia soprattutto come teorico del soft power, ossia il potere di persuasione e attrazione di un determinato modello culturale – passa infatti in rassegna tutti i motivi per cui risulta in gran parte fuorviante pensare non solo che il declino americano sia imminente, ma anche che sia prossima una transizione di potere tra Usa e Cina, simile a quella che si ebbe nella prima metà del Novecento tra l’impero britannico e la nuova superpotenza statunitense. E il punto principale è che nessuno dei potenziali sfidanti sembra in grado di prendere davvero il posto di Washington. L’Europa, a dispetto della sua economia, sembra (come ben sappiamo) molto lontana da una reale unità politica. La Russia, che è ancora dotata di un notevole arsenale nucleare, ha però un’economia fortemente dipendente dalle esportazioni di gas e petrolio e inoltre attraverserà probabilmente nei prossimi decenni un significativo calo demografico. Il Giappone nonostante le difficoltà rimane la terza economia mondiale, ma non sembra avere le caratteristica di una superpotenza globale, per le ridotte dimensioni geografiche e demografiche. L’India, che pure è dotata di un consistente arsenale nucleare, è ancora un paese con una vastissima popolazione povera, e sembra inoltre ancora lontana dalla possibilità di colmare il gap in termini di alfabetizzazione e crescita economica nei confronti della Cina. Il Brasile, che certo negli ultimi vent’anni è cresciuto a ritmi sostenuti, ha però incontrato un brusco rallentamento, ed è ancora alle prese con carenze infrastrutturali, elevata violenza e scarsa produttività. Ma neppure la Cina sembra avere per Nye le carte in regola per ‘succedere’ agli Stati Uniti. E i motivi hanno a che vedere innanzitutto con la dipendenza energetica, il ritardo tecnologico rispetto agli Usa, le peculiarità di un sistema monetario controllato dallo Stato. Ma anche con la diseguaglianza crescente, il degrado ambientale, le migrazioni interne, la corruzione e l’assenza di reti di sicurezza sociale, oltre che con una dotazione militare che – per quanto in crescita qualitativa e quantitativa – sembra molto lontana dal poter insidiare la supremazia di Washington.
È stato principalmente Niall Ferguson a sostenere che il XXI secolo sarà cinese e a prevedere che il declino americano si presenterà molto presto. Anche per questo uno dei bersagli principali di Nye sono proprie le ipotesi dello storico britannico. In realtà, ben pochi osservatori hanno però formulato l’ipotesi di un «declino assoluto» degli Stati Uniti. Molti hanno piuttosto suggerito l’ipotesi di un declino ‘relativo’, su cui lo stesso Nye tende a convergere. In altre parole, il declino non deriverebbe da una diminuzione in termini assoluti di quelle risorse su cui gli Usa possono contare, bensì da un calo in termini relativi, dovuto all’ascesa di nuovi protagonisti. Se questa ipotesi può apparire forse rassicurante, in realtà è tutt’altro che priva di insidie. Il rischio principale del prossimo futuro – e lo stesso Nye lo riconosce – sarà infatti la complessità della politica internazionale. Gli attori in gioco già oggi non sono più solo gli Stati, e inoltre il numero di potenze sullo scacchiere mondiale è destinato a crescere, tanto che per qualcuno sta nascendo un inedito sistema «a-polare», e non semplicemente «multipolare». Ed è forse per questo che le suggestive analogie tra Atene e Washington (o tra l’impero romano e l’«impero americano») tendono quasi sempre a rivelarsi piuttosto maldestre. E che molte delle discussioni sul «declino» finiscono quasi sempre col risultare fuorvianti.
Damiano Palano
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