di Damiano Palano
Il libro di Valentina Pazé, Cittadini senza politica. Politica senza cittadini (Edizioni Gruppo Abele, pp. 157, euro 13.00), verrà presentato a Milano il 9 maggio 2016, all'interno del ciclo di incontri Democrazie in tensione.
«Dove sono cresciuto io credevamo che la democrazia americana fosse ciò che pratichiamo ancora in buona parte nello stato del Vermont: le riunioni cittadine, dove le persone si riuniscono e discutono del bilancio della scuola o di altri bilanci, dove tutti possono prendere la parola e tutto hanno un voto. In queste riunioni cittadine le persone possono entrare e fare tutte le domande che vogliono: quello che costituisce la democrazia sono i rappresentanti eletti che parlano, dialogano con le persone a prescindere dal loro reddito, ascoltando i loro commenti e rispondendo alle loro domande. La democrazia non può essere un sistema nel quale una manciata di miliardari, come i fratelli Koch o come Sheldon Adelson, si possano trovare nella posizione di poter spendere tutto il denaro che vogliono per ogni competizione elettorale in questo paese. È molto difficile per me immaginare come qualcuno possa far passare questo per democrazia: non lo è, oligarchia, è il potere per un piccolo gruppo di miliardari di controllare il processo politico» (B. Sanders, Quando è troppo è troppo!, Castelvecchi, Roma, 2016, pp. 53-54).
Le argomentazioni di Pazé sono in gran parte orientate alla critica del modello della «democrazia immediata», di cui – non senza ragioni – viene visto il lontano progenitore nello Schumpeter di Capitalismo, socialismo e democrazia, ma di cui sono considerati strumenti di concreta realizzazione, nell’Italia di oggi, la riforma costituzionale in corso di discussione e soprattutto la legge elettorale denominata «Italicum», approvata il 6 maggio 2015. Contro un simile modello, Pazé torna a una visione della democrazia centrata sul ruolo centrale della rappresentanza, ma non può non scontrarsi con lo scoglio costituito dalla realtà odierna dei partiti. La prospettiva di rinunciare al loro ruolo sembra infatti destinata a sfociare semplicemente nel «direttismo», e in questo senso gli esempi del Movimento 5 Stelle e dei Piraten tedeschi sono utili quantomeno per prendere atto che la ‘democrazia della rete’ costituisce uno strumento davvero poco efficace. Ma la ‘democratizzazione’ dei partiti risulta un problema tutt’altro che semplice da risolvere, e in questo senso Pazé rivolge una critica tanto al mito dello «spontaneismo», quanto alle rappresentazioni più idilliache della democrazia partecipativa (in particolare quelle che assegnano alla dettagliata regolamentazione formale delle procedure decisionali la democraticità di un’organizzazione). E dunque la soluzione principale – questa forse è una delle conclusioni più interessanti del volume – è il ritorno alla ‘vecchia’ logica della rappresentanza democratica, da realizzare anche dentro i partiti: «Forse si tratta, ancora una volta, di ripartire da quella straordinaria invenzione che è la democrazia rappresentativa. Di riscoprirla, rinnovarla, rivitalizzarla, assumendola come metodo per decidere non solo tra i partiti, ma dentro i partiti. Difendere la democrazia rappresentativa significa ribadire che un’assemblea composta da delegati scelti dal basso, sulla base della presentazione e discussione di diverse piattaforme programmatiche, è più legittimata ad assumere decisioni collettivamente vincolanti di quanto non lo siano assemblee aperte a tutti, o referendum on line senza previsione di quorum. Significa ricordare che il voto a maggioranza, purché preceduto da una discussione approfondita a cui tutti devono poter partecipare, garantisce i dissenzienti più della ricerca del consenso ad ogni costo. E magari anche tenere presente che la trasparenza non è tutto e l’istituto del voto segreto rimane irrinunciabile per garantire la libera manifestazione delle idee. Princìpi semplici e basilari, che in tempi di generose, quanto confuse, ricerche di ‘nuove vie’, è forse necessario ricordare» (p. 102). Ma la difesa della ‘vecchia’ democrazia rappresentativa non può certo trascurare di considerare il peso che – nell’Ue, e in particolare nell’eurozona – ha avuto nell’ultimo quarto di secolo il «vincolo esterno». E nelle pagine conclusive Pazé non può così evitare di porsi alcune domande cruciali, diventate addirittura drammatiche dopo il 2011: «a che cosa serve eleggere dei rappresentanti se non saranno loro a decidere sulle questioni di fondo, come quelle relative alla composizione delle entrate e alla destinazione delle spese dello Stato? Se si sa fin dall’inizio che, chiunque risulti eletto, dovrà attenersi ai dettami del ‘partito unico del rigore’ che regna ormai, incontrastato, in Europa?» (p. 139). E soprattutto: «perché i cittadini di questa Europa governata da ‘poche dozzine di persone’ (tra politici, banchieri, uomini della finanza) dovrebbero continuare a credere nella democrazia e officiarne i riti, se sempre più numerosi indizi dicono loro che le regole sono truccate e gli esiti predefiniti?» (p. 141).
Il libro di Pazé arricchisce una discussione inevitabilmente destinata a proseguire intensamente nei prossimi anni e nei prossimi mesi. E non soltanto perché – come scriveva Pazé introducendo alcuni anni fa il suo In nome del popolo. Il problema democratico (Laterza, Roma – Bari, 2012) – «la democrazia è un regime difficile, che richiede tutta una serie di presupposti sociali e culturali, in assenza dei quali i riti della partecipazione diretta o indiretta rischiano di svuotarsi di significato e di nascondere l’esercizio spregiudicato del potere da parte delle solite élites, in grado di orientare e manipolare il consenso a loro favore» (p. VIII). A rendere oggi ancora più complicato affrontare il «problema democratico» sono una serie di trasformazioni che modificano il quadro in cui i vecchi dibattiti si svolgevano. La stessa enfasi sul ‘decisionismo’, sulla ‘governabilità’, sulla necessità esecutivi ‘forti’, ‘stabili’ e ‘rapidi’ sbaglia completamente il bersaglio, perché trascura del tutto il complesso delle trasformazioni che hanno modificato i sistemi politici europei nel corso di un trentennio. La richiesta di ‘governabilità’ – di cui i fautori dell’«Italicum» e della riforma costituzionale non fanno che brandire ancora una volta le insegne – ci accompagna infatti almeno da un quarantennio, ma in quarant’anni le cose sono radicalmente cambiate. Negli anni Settanta e Ottanta, poteva davvero sembrare che i grandi problemi dell’Italia fossero l’instabilità governativa, la lentezza della concertazione, la difficoltà di decidere dei governi di coalizione. E per questo poteva davvero risultare necessario realizzare una riforma capace di riconsegnare lo scettro al ‘principe’. Ma nel corso di un trentennio le cose sono abissalmente mutate, e oggi tutto ciò che è avvenuto nella lunga stagione che abbiamo alle spalle ci appare sotto una luce molto diversa. Non solo perché il ruolo dei governi e dei primi ministri è notevolmente cresciuto, tanto da ridurre le assemblee elettive a un ruolo quasi marginale, ma perché abbiamo assistito a una sorta di ‘svuotamento’ delle sedi classiche del potere decisionale. Abbiamo cioè assistito a un processo di ‘depoliticizzazione’ che – soprattutto nei paesi dell’Ue – ha implicato la sottrazione di buona parte del potere decisionale alle arene più direttamente responsabili nei confronti degli elettori e il suo trasferimento verso istanze almeno apparentemente ‘neutrali’, ‘tecniche’ e dunque relativamente impermeabili alle pressioni delle opinioni pubbliche. È ovvio che una simile ‘depoliticizzazione’ non sancisce davvero una neutralizzazione della ‘politica’, ma semmai solo l’affermazione di una politica non democratica. Ma il punto sostanziale è che, in questo quadro, chi chiede un rafforzamento degli esecutivi, trascura il fatto che un simile rafforzamento – se certo può andare a limitare il ruolo dei parlamenti (e dunque le voci che provengono ‘dal basso’) – non può incidere minimamente sullo ‘svuotamento’ del potere subito dai governi. In altre parole, con un’espressione di Massimo Luciani, il rafforzamento degli esecutivi in nome della ‘governabilità’ punta solo a realizzare «la massima concentrazione del minimo potere», ma non certo all’inversione di questa tendenza. Ed anche per questo che la prospettiva della «democrazia immediata» non può rappresentare una soluzione adeguata alle sfide che abbiamo di fronte. Se il rafforzamento degli esecutivi non può dunque dare una risposta significativa alle tensioni cui oggi sono sottoposti i regimi democratici, sarebbe però anche ingenuo ritenere che il semplice ‘ritorno all’antico’ – quel ritorno all’antico che legittimamente auspicano tanto gli alfieri della vecchia «democrazia dei partiti», quanto lo stesso Bernie Sanders, nei suoi accorati appelli elettorali – possa davvero rappresentare una soluzione sufficiente per rimettere in sesto un equilibrio di poteri ormai lacerato. Lo Stato che abbiamo di fronte oggi infatti non è più quello che ha segnato l’esperienza del Novecento, il capitalismo contemporaneo non è più quello della golden age postbellica, e forse anche il cittadino protagonista delle nostre ‘postdemocrazie’ ha davvero subito una radicale ‘mutazione antropologica’. È in fondo proprio per tutti questi motivi che il ‘vecchio’ e ‘nuovo’ «problema democrazia» è destinato a rimanere ancora del tutto aperto. E che le istituzioni, le forme e gli attori della democrazia del XXI secolo rimangono in gran parte da inventare.
Damiano Palano
Il libro di Valentina Pazé, Cittadini senza politica. Politica senza cittadini (Edizioni Gruppo Abele, pp. 157, euro 13.00), verrà presentato a Milano il 9 maggio 2016, all'interno del ciclo di incontri Democrazie in tensione.
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