di Damiano Palano
Con questo post prosegue una serie di letture cominciata con Fenomenologia del populismo italiano 1. Un libro di Roberto Biorcio e Fenomenologia del populismo italiano 2. Il "renzismo" secondo Marco Revelli
Se certo il «renzismo» nel corso primi due anni di governo dell’ex sindaco di Firenze ha sollevato più di qualche critica (di cui il libro di Marco Revelli è una delle sintesi più organiche), ha incontrato anche qualche – più o meno convinto – sostenitore. Alcuni stimati politologi hanno indossato gli abiti del pasdaran, rinunciando a ogni cautela e salutando nella «rottamazione» il modo per «liberare la politica» da tutti i vecchi orpelli ideologici. Accanto a queste celebrazioni entusiastiche, non sono mancate analisi più avvertite, disposte comunque a riconoscere nell’esperimento avviato dall’uomo politico fiorentino alcuni meriti. In questa schiera è forse possibile collocare anche Ilvo Diamanti, che negli ultimi due anni – forse proprio per effetto della performance dell’esecutivo Renzi – sembra avere almeno in parte modificato la propria lettura della società italiana, del populismo e delle trasformazioni della democrazia rappresentativa.
Un paio d’anni fa, quando ancora il governo di Matteo Renzi era solo ai primi passi, in Democrazia ibrida, Diamanti scrisse che l’Italia era un laboratorio della «democrazia del pubblico», ma anche un catalogo di ‘nuovi populismi’ e di ‘neo-populismi’. Tra questi collocava infatti «Berlusconi, Bossi e Grillo, l’antipolitica, la xenofobia, l’antiglobalismo e il localismo, la Rete e il ‘popolo’ dei blog (che scende anche nelle piazze, contro la minaccia politica alle libertà» (I. Diamanti, Democrazia ibrida, Laterza – la Repubblica, Roma – Bari, 2014, p. 42). L’assetto che in tal modo prendeva forma si differenziava da quella che era stata la «Seconda Repubblica». Per la fase politica inaugurata dalla fondazione di Forza Italia e dall’ingresso sulla scena di Silvio Berlusconi, Diamanti riprendeva e riarticolava infatti la definizione di «democrazia del pubblico» proposta da Bernard Manin, secondo la quale, in sostanza, le strutture della mediazione politica tendono a dissolversi, mentre gli elettori si trasformano in qualcosa di simile a un pubblico, chiamato a reagire alle sollecitazioni che provengono dal palcoscenico della politica spettacolo: «I partiti si riducono a comitati di dirigenti e funzionari, che controllano i centri di governo e del sistema pubblico. Per mantenere il consenso, attribuiscono spazio crescente alla personalizzazione e alla comunicazione, mentre le identità collettive si indeboliscono e vengono compensate dalla fiducia personale diretta. Il rapporto con la società e gli elettori avviene, sempre più, attraverso i media e i sondaggi. In altri termini, i partiti si allontanano dalla società e, parallelamente, si leaderizzano. Trasformandosi, cioè, in comitato al servizio di un leader, che sviluppa il rapporto con i cittadini e la società servendosi dei media e delle tecniche del marketing politico-elettorale. Si parla, proprio per questo, di ‘democrazia del pubblico’, nella quale lo spazio della rappresentanza coincide con lo scambio diretto fra leader e opinione pubblica. Questa relazione avviene, tuttavia, in modo asimmetrico, perché l’autonomia dell’opinione pubblica è limitata a reagire all’offerta espressa dai leader politici. Non si tratta, cioè, di ‘clienti’ o di ‘consumatori’ che usano la loro moneta (il voto, il consenso) per pagare i prodotti e i produttori dell’offerta politica, secondo le teorie economiche della democrazia (e del mercato elettorale). Da Schumpeter a Downs. Ma di ‘spettatori’, che possono solo decidere di accettare il programma e gli attori politici, oppure di cambiare canale. Peraltro, per questo motivo, non possono organizzarsi, o venire organizzati, collettivamente, per pesare di più. Ma si trovano isolati, soli. Misurati e ‘pesati’ soprattutto, se non solo, in termini di ‘audience’. In un rapporto largamente top down» (ibi, pp. 8-9).
Se la «Seconda Repubblica» aveva senza dubbio offerto tutti i principali elementi della «democrazia del pubblico», con l’irruzione della crisi economica, quell’assetto aveva però cominciato a sfaldarsi, colpendo in primo luogo i partiti che – seppur personalizzati – avevano conservato un ruolo significativo. «Anche la ‘democrazia del pubblico’», osservava Diamanti, «sta cambiando in fretta. E mostra molti segni di usura. Perché i suoi stessi elementi costitutivi appaiono in rapida e profonda trasformazione. I partiti per primi. Lo spazio della politica negli ultimi anni è divenuto, infatti, un campo dove si confrontano partiti senza società e, dunque, leader senza partiti. In rapporto diretto con il pubblico attraverso la televisione. Così, il legame di fiducia fra leader, partiti e società si è consumato. E la crisi economica l’ha logorato ulteriormente» (p. 17). I ‘partiti personali’, che avevano contraddistinto la «democrazia del pubblico» all’italiana, si dissolvevano rapidamente, ma, al tempo stesso, anche la ‘fiducia’ - «una risorsa, anzi, un elemento ‘costitutivo’ della “democrazia del pubblico”», dal momento che «surroga il declino e l’erosione delle ideologie e delle appartenenze» (p. 19) – veniva a mostrare segni di rapidissima erosione.
Proprio il calo della fiducia nei confronti degli attori politici è d’altronde un dato che i rapporti Demos & Pi (insieme a molti altri sondaggi del clima d’opinione) registrano con una impressionante regolarità. Questa crescente sfiducia non comporta però un allontanamento dalla politica, quanto piuttosto un aumento della partecipazione, seppur in forme che appaiono fortemente critiche, se non addirittura ‘sfidanti’, rispetto agli attori della democrazia rappresentativa, e che – almeno in alcuni casi – si incontrano con la prospettiva (e i miti) della «democrazia della Rete», e con l’ambizione di una piena «dis-intermediazione» politica. «Da un lato», scriveva Diamanti in Democrazia ibrida, «si sviluppa una democrazia im-mediata (o ‘in-diretta’), ove gli attori politici saltano le mediazioni servendosi dei media e dei new media»; «dall’altro, si affermano molte spinte alla dis-intermediazione, promosse dal basso, ad opera di gruppi, movimenti, ma anche singole persone, che entrano nel perimetro della politica attraverso la Rete. I ‘popoli’ in movimento, chiamati alla rivoluzione e alla lotta, dunque, si moltiplicano e si propagano. In tutte le direzioni. Il popolo dei blog, della Rete, il popolo viola, il popolo verde, il popolo di Grillo e perfino il ‘popolo delle primarie’ irrompono nell’arena politica, saltando tutti i canali più tradizionali della partecipazione e della mediazione politica. Per non parlare delle diverse versioni di Occupy: altermondialiste oppure interne alla politica nazionale. I diversi ‘popoli’ indignati e determinati a cambiare la politica ‘dal basso’. Rivoluzioni e mobilitazioni che, inevitabilmente, vengono tacciate di ‘populismo’» (ibi, p. 40). Tutti questi mutamenti – secondo Dimanti – tendevano dunque a superare la logica della «democrazia del pubblico», e sembravano piuttosto prefigurare una nuova «democrazia ibrida»: una democrazia che «denuncia la crisi della democrazia rappresentativa, apertamente sfidata dalla democrazia diretta», e nella quale si trova «una miscela di elementi vecchi e nuovi, che si combinano a fatica e continuano a mutare, in modo fluido» (p. 58). Una miscela che non consentiva di prevedere cosa sarebbe accaduto nel futuro: «Perché i segni dell’ibridazione, che dovrebbero caratterizzare le fasi di ‘passaggio’ e di ‘transizione’, in realtà, non accennano a ridursi. Ma, anzi, si riproducono, senza soluzione di continuità. Così ci scopriamo sospesi tra passato e futuro. Senza mappe e senza bussole, che ci permettano di orientarci. Sempre in ritardo e sempre in anticipo rispetto a scenari che non riusciamo a disegnare, tanto meno a prefigurare. La post-democrazia tende, quindi, a diventare in-infinita. Senza fine. E rischia, anch’essa, di invecchiare insieme a noi. Tuttavia, insieme agli spazi politici e comunicativi, è cambiata anche la società. Al suo interno si è fatta largo una componente, i ‘cittadini ibridi’, che sperimentano forme di partecipazione e parlano linguaggi di segno diverso. A loro è affidato il compito (la speranza?) di restituire un futuro alla democrazia rappresentativa. Che è ibrida per ‘costitutizione’. Sospesa fra governo e partecipazione, tra efficienza e passione, istituzione e mobilitazione. Diventare ibridi: non è un vizio, ma una virtù (e una necessità) democratica» (ibi, p. 59).
In questo quadro naturalmente Diamanti aveva già ben presente cosa avesse comportato l’ascesa di Matteo Renzi al vertice del Partito democratico, ma nel corso del tempo la sua lettura si è ulteriormente definita. In particolare, come scriveva a commento dell’elezione al Quirinale di Sergio Mattarella, il politico toscano è diventato, per Diamanti, il «premier liquido» adeguato ai «tempi liquidi» che stiamo vivendo, e cioè il protagonista di una «democrazia liquida», «senza schemi né riferimenti stabili», propria di un «ambiente immateriale e frammentario»: «è il premier dei tempi liquidi. Un ‘premier liquido’. Capace di cambiare forma. E di adattarsi a un sistema politico liquefatto. Renzi. Solo e veloce. Senza veri amici (politici). Questa è la sua forza. Ma anche il suo problema. Perché non ha vincoli. Ma neppure appigli e approdi stabili. Non ha neppure futuro. In questi tempi liquidi: esiste solo il presente. Ogni giorno: un porto nuovo. Un equipaggio diverso. E nuove insidie, nuovi nemici. Il viaggio potrebbe diventare faticoso. E rischioso. Anche per un navigatore liquido» (I. Diamanti, Un premier liquido per tempi liquidi, in «la Repubblica», 2 febbraio 2015, p. 25). Non è certo solo per un’invenzione giornalistica che Diamanti definisce la democrazia odierna come «liquida:, ai suoi occhi, a diventare ‘liquide’ sono infatti tutte le vecchie identità, così come la distinzione destra/sinistra. «La stessa geografia politica» - ha scritto per esempio nell’aprile 2015 – «dopo quasi settant’anni, è cambiata. Fino a pochi anni fa era de-finita da regioni e da culture politiche omogenee e radicate. Zone bianche, rosse, verdi, azzurre…» (I. Diamanti, La solitudine di Matteo, in «la Repubblica», 7 aprile 2015, p. 27). E proprio una simile ‘liquefazione’ rende Renzi l’unico perno di un intero sistema: «resta soltanto lui. Matteo Renzi. Al centro di un sistema politico e partitico che non è un ‘sistema’. Perché non segue logiche, dinamiche e regole precise. Visto che tutto – istituzioni, costituzione, leggi elettorali – è in corso d’opera. Matteo Renzi: è un uomo solo. Affiancato da una cerchia stretta di persone amiche e fedeli. Agisce e decide – prevalentemente – da solo. D’altronde, in Italia, dopo decenni di in-decisione, la maggioranza dei cittadini dimostra consenso verso un premier e un leader che, finalmente, ‘decide’. Anche se da solo. Anzi: proprio perché ‘da solo’» (ibidem). Anche se, naturalmente, la democrazia ‘senza mediazioni’ che il premier pare incarnare non è priva di qualche elemento critico: «Intorno a lui: nessun partito vero, a parte il suo PdR, peraltro molto disorganizzato. Fra lui, il territorio e la società: poche infra-strutture istituzionali, per lo più deboli. E pochi residui di rappresentanza, scarsamente legittimati. Probabilmente, è ciò che interessa al premier. Ma non sono certo che rifletta i suoi interessi. Un sistema dis-intermediato, senza più – o quasi – corpi intermedi, dove i poteri locali appaiono logori: rischia di diventare un serio problema di fronte a possibili, future emergenze. Economiche, sociali, civili. Interne ed esterne. Allora la solitudine potrebbe rendere tutto molto più difficile» (ibidem). Ma, al di là delle difficoltà che la dis-intermediazione potrebbe far affiorare in futuro, il successo dell’esperimento renziano appare a Diamanti tutt’altro che episodico. Tanto che le riforme istituzionali e lo stile decisionale adottato sembrano configurare per il politologo addirittura un nuovo modello di democrazia (o «post-democrazia»), fondato sul premier: «Renzi è per ora il premier di una Repubblica extra-parlamentare. Impegnato a costruire uno specifico modello di democrazia. Maggioritaria e personalizzata. Come prevedono. Maggioritaria e personalizzata. Come prevedono le riforme istituzionali (in particolare, il monocameralismo) e la stessa riforma elettorale. L’Italicum. Che non delineano un “presidenzialismo di fatto” […]. Piuttosto, ancora una Repubblica ancora “indistinta” (per citare Edmondo Berselli). Ma fondata sul premier. Renzi, d’altronde, nel frattempo agisce “come se” fosse già premier-presidente. Agisce e decide – o meglio: promette di agire – in fretta. Veloce. Così, dal Giappone annuncia l’approvazione della riforma della Pubblica Amministrazione. “Entro giovedì”. E si rivolge ai cittadini e agli elettori. Saltando mediazioni e mediatori. Sindacati e sindacalisti. Sindaci e governatori. Scavalca perfino il Parlamento e, soprattutto, i partiti. Compreso il “proprio”. Che, d’altronde, costituisce il principale soggetto-oggetto del suo esperimento. Il Pd. Tradotto e trasformato nel PDR. Il Partito Democratico di Renzi. O, più semplicemente, nel PdR. Il Partito di Renzi. Un post-partito, veicolo e portabandiera della PDR. La post-democrazia di Renzi. Fondata sul premier» (ibidem).
Come sempre, anche in questo caso le analisi di Diamanti offrono preziosi elementi di riflessione, e soprattutto si fondano su una conoscenza approfondita degli ‘umori’ del Paese. Nella descrizione della «post-democrazia fondata sul premier» che Diamanti è andato delineando negli ultimi mesi, ci sono però alcuni elementi problematici che rischiano di sfuggire. In primo luogo, ci si può chiedere se quella democrazia (o post-democrazia) «liquida» – di cui pure Diamanti sottolinea gli elementi critici – non sia molto più debole di quanto non appaia dall’apparente sostegno che l’opinione pubblica sembra offrire al governo Renzi, o se – come sottolinea d’altronde Revelli nel suo Dentro e contro – il «populismo istituzionale» dell’ex sindaco di Firenze non sia in realtà privo di un effettivo sostegno, capace di garantirgli un lungo futuro politico. Ma, in fondo, è proprio sui questo rischio che lo stesso Diamanti attira l’attenzione quando si sofferma sulle incognite della «dis-intermediazione». In secondo luogo, si potrebbe mettere in discussione la stessa consistenza della dis-intermediazione, e ci si potrebbe chiedere in particolare se l’attacco alle forme istituzionale della concertazione e della mediazione con i ‘corpi intermedi’ non lasci il posto ad altre forme di mediazione, ‘informali’, clientelari e spesso occulte. Se proprio questo aspetto viene sovente sottovalutato da quanti esaltano (in positivo o in negativo) la «dis-intermediazione» del renzismo, si tratta invece di un aspetto cruciale, che non può essere sottovalutato ai fini di una ricostruzione delle reali mappe del potere nell’Italia di oggi, e le cui trasformazioni andrebbero riesaminate a partire dalla «grande slavina» dei primi anni Novanta. C’è però un altro elemento problematico nella lettura di Diamanti: un elemento che non riguarda tanto la centralità o meno del premier all’interno della «democrazia liquida», quanto la stessa caratterizzazione del tempo «liquido» in cui stiamo vivendo. Negli ultimi anni – a partire in particolare dal momento di snodo delle elezioni del 2013 – Diamanti, come d’altronde si è visto, ha iniziato a riconoscere i segnali di un totale smantellamento delle identità politiche italiane. Non si tratta certo di una tesi per cui manchino dati empirici. E d’altro canto sarebbe sufficiente quantificare i voti persi in termini assoluti dal Pd e dal Pdl alle elezioni del 2013, rispetto alle precedenti politiche, per avere una conferma del fatto che il voto tenda a diventare ‘fluido’. Ma ci si potrebbe chiedere se questa emorragia – che certo segnala come si rompa il legame fra elettori e partiti – davvero configuri la fine delle tradizioni politiche italiane (e soprattutto territoriali), o non costituisca invece il tassello di un mosaico più complesso, in cui le identità politiche si modificano.
Nel 2009, pubblicando una nuova edizione del suo Mappe dell’Italia politica, Diamanti sottolineava come nel primo decennio del nuovo secolo le cose fossero cambiate rispetto agli anni Novanta, e come, in particolare, si fosse modificato il rapporto tra politica e territorio. Nella prima edizione del volume, Diamanti aveva distinto tre grandi fasi in questa relazione: la prima, dominata dai partiti di massa e dalla «politica nel territorio» delle subculture socialista e cattolica; la seconda, contrassegnata dall’emergere delle Leghe e dunque dall’affiorare di un’opposizione tra politica e territorio (nel senso che le identità locali criticavano i soggetti della politica nazionale); la terza, definibile come una «politica senza territorio», risultava dominata dai partiti personali e ‘presidenzializzati’, che non potevano che essere per loro natura ‘nazionali’ (e dunque privi di forti caratterizzazioni territoriali). Proprio questa tendenza si era affermata sempre più nettamente dopo il 2001. Tanto da mettere in discussione la stessa legittimità teorica di un’analisi fondata sul territorio, come scriveva problematicamente Diamanti nell’introduzione alla nuova edizione: «come individuare uno specifico rapporto con il territorio quando i partiti nuovi emergono dalla confluenza di altri partiti, dotati ciascuno di una propria e definita geografia politica ed elettorale? E, inoltre, da tradizioni sociali e organizzative diverse? Ciò ripropone il dubbio di partenza. Se, cioè, nella seconda repubblica, l’epoca della ‘politica senza territorio’, inaugurata da Berlusconi e Forza Italia, parlare di rapporto fra politica e territorio abbia ancora senso. Se, invece, per parafrasare una formula nota, non siamo giunti alla fine della storia. È la questione che ha disturbato a lungo il tentativo di integrare la mia ricerca, ricostruendo ciò che è accaduto dopo il 2001. Operazione già difficile di per sé, visti i cambiamenti a cui si è già fatto riferimento. Ma a maggior ragione se mette in discussione il principio su cui si fonda questa ricostruzione. Il rapporto con il territorio, appunto» (I. Diamanti, Mappe dell’Italia politica. Bianco, rosso, verde, azzurro… e tricolore, il Mulino, Bologna, 2009, p. 10). In realtà per Diamanti il territorio aveva continuato a rimanere centrale, sia perché tanto il Pd quanto il Pdl si erano trovati ancora a fare i conti con il territorio, ossia con la forza delle tradizioni politiche locali, sia perché il territorio si era trovato costantemente al centro della retorica antipolitica e della protesta contro i vertici nazionali dei partiti, sia perché gli elementi di continuità con il passato non erano affatto scomparsi.
Ed era proprio sulla scorta di una simile convinzione che Diamanti, nel denso volumetto Gramsci, Manzoni e mia suocera, nel 2012 indirizzava un attacco vibrante al ‘senso comune’ politologico, e cioè a quel ‘senso comune’ che riteneva fossero definitivamente tramontate le identità politiche ereditate dal passato. Diamanti allora criticava proprio l’idea che i sistemi democratici contemporanei si fossero trasformati in democrazie del ‘pubblico’, ma soprattutto la tesi secondo cui, nella nuova fase segnata dalla mediatizzazione e dalla personalizzazione, le tradizioni politiche si dissolverebbero e il voto diverrebbe libero di fluttuare nel mercato politico. Il paradigma dominante», scriveva allora Diamanti, «sostiene che il declino delle appartenenze e delle organizzazioni politiche, e la parallela ascesa della comunicazione, riducono l’influenza delle strutture di riproduzione del consenso fondate sulle tradizioni sociali, ideologiche e locali. Accentuando l’importanza degli interessi individuali e di gruppo. In generale, attribuendo rilievo crescente alla razionalità economica, come principio e metro delle scelte personali. Tuttavia, nella ‘democrazia del pubblico’ i comportamenti individuati rischiano di venire riassunti e dedotti a partire da quelli dei leader e dalle strategie manipolatorie dei media» (I. Diamanti, Gramsci, Manzoni e mia suocera. Quando gli esperti sbagliano le previsioni politiche, il Mulino, Bologna, 2012, p. 52). Questa tesi, ormai diventata ‘senso comune’, scaturiva da una serie di distorsioni prospettiche e metodologiche, che rendevano «difficile comprendere fino in fondo ciò che avviene nella società», «interpretare i meccanismi che orientano le decisioni degli individui in tempi di individualizzazione». Così Diamanti sottolineava: «la retorica del cambiamento guidato dalle istituzioni e dalla comunicazione induce a sottovalutare il peso e le resistenze della ‘tradizione’. Da ciò la singolare e sintomatica contraddizione fra previsioni e realtà in alcuni ambiti di ricerca tra politica e società» (ibi, pp. 52-53). Al contrario, il cittadino-elettore non era un elemento del tutto passivo, il voto non era diventato liquido, ma tendeva a muoversi all’interno limiti di area piuttosto circoscritti, mentre le tradizioni politiche non cessavano di orientare i comportamenti politici, benché la colorazione e i contorni di queste tradizioni si fossero talvolta modificati. E proprio per questo Diamanti ammoniva: «L’avvento della comunicazione di massa, della democrazia del pubblico non ha dissolto questo retroterra», e «neppure ha spostato il metro di valutazione degli elettori dai valori agli interessi, dall’identità sociale alla razionalità individuale» (ibi, p. 94).
A pochi anni di distanza Diamanti sembra avere oggi cambiato opinione, e sembra avere adottato pienamente il ‘senso comune’ politologico, contro la saggezza del ‘senso comune delle suocere’. Ma invece non è affatto da scartare l’ipotesi che la proposta formulata allora da Diamanti sia ancora oggi decisiva, persino per ‘decostruire’ quelle immagini della «post-democrazia fondata sul premier», della «dis-intermediazione», della «democrazia liquida» e «ibrida» che Diamanti ha delineato negli ultimi anni. In questo modo, si potrebbe probabilmente riconoscere, dietro l’affascinante (o inquietante) veste del «nuovismo», la resistenza del passato. E forse, esplorando le relazioni micro-sociali e i rapporti inter-individuali, si potrebbe capire anche come le vecchie identità politiche si modifichino, cosa si nasconda dietro l’etichetta «populismo» e quali siano le più profonde ‘basi culturali’ della post-democrazia.
Continua...
Damiano Palano
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