di Damiano Palano
Questo testo, apparso su "Cattolica News" il 14 aprile 2016, anticipa alcuni dei temi che saranno al centro del seminario Da "House of Cards" alla Casa Bianca. Lo spettacolo del potere nello specchio della serialità televisiva, che si terrà all'Università Cattolica mercoledì 27 aprile, alle ore 10.30. Il programma completo è disponibile qui. L'incontro si inserisce nel ciclo Democrazia in tensione.
«È
un nuovo giorno in America. Oggi più persone andranno al lavoro, torneranno
dalle loro famiglie e dormiranno più tranquillamente di quanto non abbiano mai
fatto prima. Tutto questo perché un uomo rifiuta di accontentarsi, mettendo le
persone prima della politica». Alcuni mesi fa, mentre negli Stati Uniti si
accendeva la campagna per le primarie e iniziava la lunga corsa verso la Casa
Bianca, queste parole entravano nelle case degli americani, accompagnando le
immagini di un paese laborioso e sicuro. L’«uomo che rifiuta di accontentarsi»
e che mette «le persone prima della politica» non era però Donald Trump, o Ted
Cruz, o un altro aspirante alla poltrona presidenziale, ma Frank Underwood, il
sulfureo protagonista di House of Cards.
E il «nuovo giorno» annunciato dallo spot era in realtà la ripresa della serie,
giunta ormai alla sua quarta stagione.
L’idea di sovrapporre la campagna
elettorale fittizia rappresentata nella serie e la campagna reale – che
peraltro si sta rivelando come la più incerta e combattuta da molti decenni a
questa parte – è senza dubbio una riuscita trovata pubblicitaria. Ma i punti di
intersezione tra realtà e finzione non si esauriscono qui. E non solo perché
gli sceneggiatori della serie sembrano ormai ispirarsi sempre più spesso alla
cronaca politica per imbastire le nuove trame. Ma probabilmente anche perché
nello ‘specchio’ della serialità televisiva e nel mondo di intrighi allestito
da House of Cards si possono
probabilmente riconoscere le tracce del mutamento che negli ultimi anni ha
investito gli Stati Uniti.
Per
comprendere le trasformazioni politiche non è d’altronde mai sufficiente
osservare le istituzioni, ma è sempre indispensabile ricostruire il mutamento
degli immaginari, cioè il modo in cui si modificano le aspirazioni (individuali
e collettive) e dunque ciò che ciascuno di noi si attende (o teme) dalla
dimensione politica. Per questo motivo l’Iliade,
l’Orestea e l’Antigone sono probabilmente importanti – per comprendere il modo in
cui i greci concepivano la polis e la
sua legge – almeno quanto le pagine di Platone e Aristotele. Ed è per questo
stesso motivo che le serie televisive come House
of Cards – che, negli ultimi anni, hanno iniziato a mettere in scena (in
termini sempre più crudi) le bieche lotte di potere che si svolgono nel Palazzo
– offrono uno strumento importante a chi voglia indagare come, nell’età della
«tarda democrazia» (o della «postdemocrazia»), l’immaginario collettivo
concepisca la politica.
Sarebbe
naturalmente ingenuo considerare il mondo raffigurato dalla serialità
televisiva come uno specchio fedele della realtà, anche se certo è difficile
resistere alla tentazione di riconoscere almeno alcuni tratti di Frank
Underwood in alcuni reali protagonisti politici, come per esempio – per
rimanere oltreoceano – nella coriacea volontà con cui Hillary Clinton insegue
da decenni il suo sogno presidenziale. E anche se l’incertezza della
competizione fra i candidati alle primarie (soprattutto sul fronte repubblicano)
potrebbe rendere reale una «brokered
convention», cioè proprio una situazione in cui personaggi come Underwood
potrebbero mettere pienamente a frutto la loro abilità nel tessere intrighi. Ma
– al di là della verosimiglianza, e degli inevitabili accostamenti con la
realtà – l’aspetto più significativo che contrassegna l’operazione compiuta da House of Cards è l’esibizione (spesso
compiaciuta) della dimensione più brutale del potere. In altre parole Frank
Underwood non è altro che il ritratto dell’eterna libido dominandi, il simbolo di quella inestinguibile sete di
potere che spinge gli esseri umani a conquistare, conservare ed estendere il
potere sui propri simili. La sua filosofia non è altro che la vecchia filosofia
di Trasimaco, secondo cui la giustizia non è altro che l’utile del più forte. E –
in spregio a qualsiasi ideale – la sua condotta è invariabilmente guidata dal
più bieco machiavellismo. Per Underwood la politica è infatti solo ed
esclusivamente la sfera della ricerca del potere. Una sfera in cui le uniche
armi consentite sono la menzogna, l’inganno, l’adulazione e l’intrigo. Una
sfera in cui ovviamente non c’è alcuno spazio né per grandi aspirazioni ideali
– siano esse l’uguaglianza, la libertà o il progresso – né tantomeno per una
pallida ombra di bene comune. E una sfera in cui la risorsa su cui far leva è
sempre la paura, perché – come si leggeva nell’incipit del romanzo di Michael Dobbs, da cui trae origine la serie
– «non è il rispetto, ma la paura, a muovere l’uomo».
Naturalmente
ai nostri occhi di europei una simile rappresentazione della politica non
risulta particolarmente sconcertante. Non doveva esserlo per il pubblico
britannico che lesse i romanzi di Dobbs alla fine degli anni Ottanta. E non lo
è a maggior ragione nel paese di Machiavelli, dove, nella lingua di Underwood,
molto spesso riconosciamo anzi quella lingua familiare, quasi una sorta di
dialetto, con cui tra le pareti domestiche parliamo di politica, se non
addirittura quel «familismo amorale» in cui si è fissato il tratto forse più sgradevole
dell’identità italiana. Ma non è invece irrilevante che questa visione cinica
(e spesso persino ambiguamente compiaciuta) della politica come pura volontà di
potenza ci venga oggi dall’altra sponda dell’Atlantico.
Naturalmente si può
leggere in tutta l’operazione di House of
Cards una nuova conferma della vecchia ambizione americana di bandire la
menzogna dalla politica, e così di smascherare le malefatte, gli imbrogli e la
violenza dei potenti. Ma probabilmente – benché, come qualsiasi prodotto culturale,
anche le serie televisive si prestino a mille letture diverse – le cose non
sono così semplici. Perché il mondo che House
of Cards mette in scena finisce col suggerirci non solo che il potere è
cinico, ma anche che la politica non può che essere il regno del cinismo, della
menzogna, della sopraffazione. In altri termini, ci dice che non è possibile
una politica diversa da quella di Frank Underwood, e che tutti i più nobili
ideali non sono altro che semplici mascheramenti di sordidi interessi personali.
Ed è forse proprio per l’ambigua combinazione di disgusto e ammirazione che
alimenta un personaggio come Underwood, che House
of Cards finisce col diventare il formidabile specchio in cui ritroviamo la
condizione delle nostre postdemocrazie. Perché nella politica spettacolo che
riempie le cronache quotidiane, e in cui nulla resta delle vecchie ideologie
novecentesche, si alimentano a vicenda, in un fatale cortocircuito, la più
completa sfiducia nella classe politica e l’ammirazione per quei leader che esibiscono
senza pudore volontà di potenza e disprezzo per le istituzioni. Perché, come il
caso delle primarie repubblicane negli Stati Uniti dimostra largamente, in un
mondo in cui si è bombardati da flussi soverchianti di notizie (e in cui dietro
qualsiasi notizia si sospetta un inganno o una manipolazione), la distinzione
tra il ‘vero’ e il ‘falso’ diventa quasi impercettibile. E perché forse, quando
si è finito di credere a tutto, si finisce col credere a qualsiasi cosa.
Damiano Palano
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