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sabato 19 marzo 2016

Se la guerra non è più un "affare di Stato". Un libro curato da Carlo Altini su pace e guerra nel pensiero occidentale




di Damiano Palano

Questa recensione al volume a cura di Carlo Altini, Guerra e pace. Storia e teoria di un’esperienza filosofica e politica (Il Mulino, pp. 334, euro 26.00), è apparsa, in un versione leggermente diversa, sul quotidiano "Avvenire" il 18 aprile 2016.

In poco meno di due secoli, la celebre frase di Carl von Clausewitz, secondo cui «la politica non è altro che la continuazione della guerra con altri mezzi», è diventata quasi un luogo comune. In quella massima così popolare, come ebbe modo di rilevare anche Raymond Aron, erano però implicite due differenti concezioni. Per un verso, Clausewitz intendeva infatti sottolineare come la logica della guerra rischiasse sempre di soverchiare la politica e dunque di trascinare verso l’utilizzo della forza. Per l’altro però puntava anche a mettere in evidenza come la guerra potesse sempre essere ‘limitata’, e cioè regolata, grazie agli strumenti offerti dalla politica e dal diritto. Nel corso dei secoli il pensiero occidentale si è interrogato a lungo sui legami che avvicinano la politica alla guerra e sulle modalità che consentono di ‘imbrigliare’ la conflittualità all’interno di vincoli giuridici. Oggi i termini di quella vecchia riflessione si ripropongono ancora una volta, ma in forma nuova rispetto al passato. La “terza guerra mondiale combattuta ‘a pezzi’, con crimini, massacri distruzioni”, di cui ha parlato più volte Papa Francesco, segna infatti anche la conclusione definitiva di quella modalità di regolazione dei conflitti garantita dallo jus publicum europaeum. Innanzitutto perché sembra dissolversi il presupposto del monopolio della forza fisica da parte degli Stati.
Un utile strumento per comprendere da un’ampia prospettiva le trasformazioni che stiamo vivendo è offerto dal testo curato da Carlo Altini Guerra e pace. Storia e teoria di un’esperienza filosofica e politica (Il Mulino, pp. 334, euro 26.00). I saggi accolti nel volume – che partono dall’antropologia di Tucidide per giungere fine all’approccio mimetico di René Girard – riflettono infatti sul rapporto tra guerra e pace concentrandosi principalmente sui modi in cui, nelle diverse epoche, sono stati considerati tanto i conflitti armati, quanto la pace. E, in questo modo, non possono evitare di affrontare il tema del potere politico. Perché in fondo, come sottolinea il curatore, al cuore del rapporto tra guerra e pace sta il problema cruciale del “male” e della sua relazione ambivalente con un potere che, di volta in volta, può diventare lo strumento per frenare la violenza, oppure il mezzo con cui incrementarla. Dall’indagine emergono in filigrana le grandi trasformazioni che, dalla strategia primitiva, conducono sino alle guerre “postmoderne”. Ma in parallelo si delineano anche le modificazioni che intervengono nel modo di concepire la pace, e che conducono, a partire dal Settecento, alla nascita di un pensiero propriamente pacifista, per esempio con l’Abbé de Saint-Pierre e Kant. 
Benché ognuno di questi classici contributi meriti di essere rimeditato, è però evidente che molte delle soluzioni avanzate nel passato sono inadeguate dinanzi alla realtà odierna. La guerra “postmoderna” pone infatti sfide radicalmente nuove, se non altro perché, come sottolinea nel volume Elisabetta Brighi, è del tutto inedito il processo di “individualizzazione” e di “informalizzazione” della violenza che abbiamo di fronte, per esempio nel caso del fenomeno terroristico. E forse proprio per questo torna di nuovo al centro la vecchia domanda sulla “natura umana” e sulle radici antropologiche della violenza. Quella stessa domanda che la modernità aveva potuto dimenticare, quando aveva fatto della guerra un “affare di Stato”.

Damiano Palano

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