di Damiano Palano
«È
giunto il momento di pensare in grande: è finita l’epoca dell’establishment e delle idee stantie che
circolano nei palazzi di Washington. È ora che milioni di famiglie di
lavoratori si uniscano per ridare vita alla democrazia americana, eliminare i
privilegi delle oligarchie economico-finanziarie, fermare il collasso della
classe media, garantire ai propri figli e nipoti benessere, salute, sicurezza e
felicità. Gli Stati Uniti devono tornare a guidare la lotta per la giustizia
economica e sociale, per la sicurezza ambientale e per la pace globale. I
problemi che l’America si trova oggi ad affrontare sono i più gravi dall’epoca
della Grande Depressione e probabilmente, se consideriamo anche l’emergenza
globale del cambiamento climatico, siamo di fronte a sfide di una gravità che
non ha uguali nell’intera storia moderna. Al centro di questa campagna non ci
sarà solo la promessa di combattere per proteggere le famiglie che lavorano in
questo paese, ma anche quella di costruire insieme un movimento di milioni di
americani pronti a resistere e a reagire. Dobbiamo fare in modo che questo
messaggio arrivi direttamente alle persone: nelle città, sui social media,
porta a porta, strada per strada. Partiremo dal New Hampshire, dall’Iowa e dal
Minnesota, ma questo sarà solo l’inizio di una grande mobilitazione».
Nel discorso con cui nel maggio 2015 Bernie Sanders
apriva la sua campagna per le primarie democratiche – un discorso ora raccolto,
insieme ad altri testi, in Quando è
troppo è troppo! Contro Wall Street, per cambiare l’America, a cura di Rosa
Fioravante, Castelvecchi, Roma, 2016, pp. 187, euro 15.00) – il senatore del
Vermont fissava chiaramente quali fossero i cardini della «rivoluzione
politica» che si proponeva di innescare. La candidatura di Sanders doveva
apparire allora poco più che un atto di testimonianza, ma nel corso di poco
meno di un anno la «rivoluzione politica» ha preso consistenza, e ha finito col
dare corpo a uno dei fenomeni senza dubbio più interessanti nella politica
americana dell’ultimo mezzo secolo. Agli occhi del pubblico europeo – ormai
assuefatto a squalificare ogni posizione ‘socialdemocratica’ come puramente
nostalgica, statalista o conservatrice – può apparire persino sconcertante il
fatto che un candidato alla Casa Bianca si professi «socialista», un secolo
dopo i tentativi di Eugene Debs (tre volte candidato alla Presidenza nei primi
decenni del Novecento). Ma a ben guardare il successo della campagna di
Sanders, per quanto sorprendente, ha radici tutt’altro che superficiali.
Innanzitutto perché ha alle spalle quasi un decennio di trasformazioni radicali
della società americana, che hanno contribuito alla radicalizzazione delle
posizioni soprattutto tra le fasce più giovani dei ceti medi. Ma anche perché
la candidatura alla Casa Bianca costituisce il culmine di una lunga carriera
politica, durante la quale Sanders ha dato prova quantomeno di una notevole
coerenza su molti temi.
Figlio
di immigrati ebrei, che abbandonarono la Polonia per sfuggire alla persecuzione
nazista, Sanders nacque a New York nel 1941. Per molti versi può essere così
considerato come il frutto di quell’intellighenzia radicale newyorkese,
tutt’altro che immune al fascismo del marxismo, che ha avuto tra i suoi
esponenti più noti personaggi come Paul Baran e Noam Chomsky. Ma
quest’accostamento rischia di essere riduttivo, non solo perché la carriera
politica di Sanders si è svolta in realtà lontana dalla Grande Mela, ma anche
perché il «socialismo democratico» di cui si dichiara alfiere è più vicino a
Franklin D. Roosevelt che a Karl Marx. Dopo la laurea conseguita all’Università
di Chicago, l’impegno per i diritti civili e la battaglia contro la guerra del
Vietnam (con la scelta di dichiararsi obiettore di coscienza), Sanders militò
nell’organizzazione giovanile del Partito Socialista, ma fu con il
trasferimento nel piccolo Stato del Vermont e l’ingresso nel Liberty Union
Party, all’inizio degli anni Settanta, che la sua carriera politica imboccò i
binari che giungono sino a oggi. Negli anni Settanta prese parte infatti a
diversi competizioni elettorali, con l’appoggio del Liberty Union, senza
ottenere risultati eclatanti, fino alla svolta (inattesa) del 1981, quando
Sanders riuscì a conquistare per un manciata di voti di differenza, come
candidato indipendente, la carica di sindaco di Burlington. L’attività di
amministratore della città si contraddistinse subito per l’opposizione alla
cementificazione delle sponde del lago Champlain, trasformate invece in
proprietà pubblica ad alta utilità sociale (e non è certo casuale che la
campagna per le primarie democratiche abbia avuto inizio un anno fa proprio
dalla cittadina del Vermont). Ancora come candidato indipendente Sanders
approdò alla Camera nel 1990, mentre – ormai nella fila democratiche – nel 2006
venne eletto in Senato. La scelta di correre per la Presidenza giunge dunque al
termine di una lunga carriera trascorsa nelle istituzioni, ma anche al culmine di
una trasformazione della politica americana, che forse non dipende solo
dall’impatto che sulla società e sui ceti medi ha avuto la crisi del 2008. La
candidatura di Sanders è infatti al tempo stesso il frutto e la testimonianza
più nitida di una progressiva polarizzazione del dibattito politico americano:
una polarizzazione la cui esemplificazione più chiara negli ultimi dieci anni è
stata offerta dall’esperienza del Tea Party, ma i cui effetti sono visibili
nell’andamento delle primarie, sia sul fronte democratico, sia sul fronte
repubblicano.
Leggere
i discorsi di Sanders raccolti in Quando
è troppo e troppo! è utile forse non tanto per comprendere le coordinate
del suo «socialismo», quanto per cogliere come la sua proposta politica – certo
dirompente rispetto alla retorica dell’ultimo trentennio – si inscriva
piuttosto fedelmente all’interno della tradizione ‘progressiva’ e ‘populista’
americana. E cioè di una tradizione che – a partire almeno da Lincoln –
denuncia il potere della «plutocrazia» e propone un ritorno a quelle antiche
garanzie di libertà che possono garantire un futuro al «sogno americano».
Proprio nel discorso inaugurale della campagna
Sanders indicava i punti essenziali della sua iniziativa proprio nella difesa
della democrazia americana contro le conseguenze della diseguaglianza di
reddito, largamente approfonditasi nel corso dell’ultimo trentennio, e contro
le implicazioni di un sistema che – abolendo qualsiasi limite al finanziamento
dei privati alle campagne elettorali – di fatto consegna a una ristretta
oligarchia il potere di influire su tutte le decisioni politiche. «In pratica»,
ha affermato per esempio Sanders, «ciò che la Corte Suprema ha affermato è che
i miliardari non sono possono controllare la gran parte della nostra economia,
ma anche lo stesso governo degli Stati Uniti». A giudizio di Sanders, un
assetto di questo è infatti solo un’oligarchia travestita di abiti democratici,
come ripete spesso nei suoi comizi, ribadendo la necessità di un finanziamento
pubblico delle campagne elettorali e dell’introduzione di un tetto ai
finanziamenti privati: «Secondo i dati forniti dai media, in questa tornata
elettorale una sola famiglia, quella dei fratelli Koch, spenderà più soldi di
entrambi i partiti, Democratico e Repubblicano, messi assieme. Questa non è
democrazia, è oligarchia. Tutti sanno come dovrebbe essere fatta la democrazia
americana: ogni persona dovrebbe valere un voto e avere uguale peso. È questo
il tipo di sistema politico per il quale bisogna combattere» (Una rivoluzione politica, in Quando è troppo è troppo!, cit., p. 13).
Ma strettamente connessa alla deriva oligarchica, è anche la tendenza verso la
crescente «alienazione politica», su cui Sanders – che d’altronde ha trovato un
punto di forza nell’elettorato giovanile – ha battuto costantemente, osservando
per esempio, sempre nel discorso di avvio della campagna: «Un’altra grande
questione della quale bisogna discutere è il grande malcontento oggi diffuso
nei confronti della politica americana. Alle elezioni di metà mandato di
novembre, il 63% degli americani e i l’80% dei giovani non ha votato. Sondaggio
dopo sondaggio emerge che i nostri cittadini non hanno più fiducia nelle
istituzioni, nutrono seri dubbi sull’efficacia del loro voto per via
dell’enorme influenza del denaro sul sistema politico, e si chiedono infine se
i politici siano al corrente delle loro condizioni di vita. Non sarà certo
semplice combattere contro quest’alienazione politica, il cinismo e la rabbia
legittima, ma è ciò che va fatto per cambiare questo paese» (p. 14).
Dinanzi a questo quadro, il programma di Sanders si articola
su misure classicamente ‘keynesiane’, centrate soprattutto sull’adeguamento di
infrastrutture (ponti, strade, sistema idrico, aeroporti) deterioratesi negli
ultimi decenni, sull’innalzamento del salario minimo (con concessione di
permessi di malattia pagati e ferie garantite), sull’introduzione di un sistema
fiscale progressivo, sulla riforma di Wall Street, sull’adozione del
finanziamento pubblico delle campagne elettorali (e la limitazione del
finanziamento privato), su politiche di riconversione del sistema energetico
nella direzione di energie sostenibili, sull’estensione dell’assistenza sanitaria
a tutti, sulla gratuità dell’accesso alle università pubbliche. In un paese in
cui lo stesso Obama è stato a lungo attaccato come ‘socialista’, è quasi
scontato che le misure proposte da Sanders debbano apparire per molti come una
sorta di proclama rivoluzionario. Pur definendo se stesso come «socialista
democratico», Sanders ha però chiarito come l’intento di questi progetti
radicali di riforma vada inteso nel senso di un ‘ristabilimento’ delle
condizioni che hanno storicamente reso solida la democrazia americana. Nella
conferenza Cos’è il socialismo,
tenuta alla Georgetown University nel novembre 2015, per esempio ha affermato,
richiamandosi tanto a Papa Francesco quanto al New Deal di Roosevelt: «Quando si bollano queste idee come
socialiste bisogna ricordare che nessuno vuole che il governo si impossessi del
negozio di alimentari in fondo alla strada o possegga i mezzi di produzione. La
convinzione alla base di queste idee è piuttosto che la classe media e la
classe lavoratrice, che producono la ricchezza di questo paese, meritino uno
standard dignitoso di vita e che il loro reddito debba aumentare anziché
diminuire. Bisogna credere e avere fiducia nelle compagnie private che
prosperano, investono e crescono in America, nelle compagnie che creano lavoro
qui, piuttosto che nelle compagnie che chiudono stabilimenti negli Stati Uniti
e aumentano i loro profitti sfruttando a basso costo i lavoratori all’estero» (Cos’è il socialismo, in Quando è troppo è troppo!, cit., p. 65).
Senza
alcun dubbio simili proposte devono apparire oggi radicali, forse persino
‘rivoluzionarie’. Ma non è certo difficile ritrovare nelle parole di Sanders
l’eco delle antiche polemiche condotte dai muckrakers
contro il mondo degli affari, della corrosiva analisi svolta da Thorstein
Veblen sulla «classe oziosa», degli attacchi contro la «plutocrazia» di Lincoln
Steffens. E forse si può anche ritrovare nelle parole di Sanders qualcosa del «nuovo
nazionalismo» auspicato da Herbert Croly al principio del Novecento, o persino
qualcosa del giovane Reinhold Niebuhr di Moral
Man and Immoral Society. Perché la polemica contro l’«oligarchia»
si richiama alle stesse radici ‘jacksoniane’ della democrazia americana, e a
quella «promessa» americana che secondo Sanders è stata tradita dalle trasformazioni
degli ultimi decenni: «Come alcuni di voi sanno», affermava d’altronde al
termine del discorso di apertura della campagna, «sono nato in una terra
lontana chiamata Brooklyn, New York. Mio padre è venuto in questo paese dalla
Polonia senza un penny e senza un’adeguata istruzione ha lavorato per quasi
tutta la vita come venditore di vernici. Mia madre si è diplomata a New York
City. Appartenevamo alla classe medio-bassa. I miei genitori, mio fratello e io
vivevamo in un piccolo appartamento dall’affitto calmierato. Mia mamma sognava
di trasferirsi in una casa tutta nostra, ma è morta giovane e il suo sogno non
si è mai realizzato. Da giovane ho imparato, in molti modi, cosa significa per
una famiglia la mancanza di denaro, ed è una lezione che non ho mai
dimenticato. Ho visto la promessa realizzarsi nella mia stessa vita. I miei
genitori non avrebbero mai potuto sognare che il loro figlio sarebbe diventato
Senatore degli Stati Uniti, figurarsi che avrebbe corso per diventare
Presidente. Ma per troppi dei nostri connazionali questo sogno di progresso di
opportunità per tutti è stato schiacciato nella morsa di un’economia che fa
confluire tutta la ricchezza verso il vertice. A chi sostiene che non possiamo
rinnovare il sogno, dobbiamo rispondere: guardate dove siamo ora» (Una rivoluzione politica, cit., pp.
17-18).
Quando negli anni Settanta,
dopo essere stato sfrattato, Sanders si trovava ospite a casa dell’amico
Richard Sugarman, ogni mattina – invece di un normale «buongiorno» – salutava
il coinquilino con la stessa identica frase: «Non siamo pazzi». Quella frase,
come ricorda la curatrice del volume Rosa Fioravante, può essere per molti
versi considerata oggi come la prova di una passione politica, di una tenacia e
di una coerenza che, un po’ come accadeva all’idealista Mr. Smith del vecchio film
di Frank Capra, hanno portato Bernie Sanders a varcare le porte del Congresso e
a correre alle primarie per la Casa Bianca. E sono forse proprio la tenacia e la
passione che rendono Bernie Sanders un fenomeno a suo modo straordinario, che
ha davvero pochi eguali nella storia politica dell’ultimo mezzo secolo.
Naturalmente il suo programma politico è tutt’altro che privo di elementi
critici, che non sono principalmente quelli relativi alla politica estera, che
spesso vengono sottolineati dai suoi detrattori (negli Usa e in Europa), ma
soprattutto quelli che hanno a che vedere con il suo «socialismo democratico»:
e non certo perché non sia ‘ragionevole’ pensare a politiche redistributive, a
misure capaci di ridurre le diseguaglianze, alla revisione dei trattati di
libero commercio, a grandi investimenti infrastrutturali, ma perché è probabilmente
ingenuo pensare che strumenti sostanzialmente ‘keynesiani’ in un’economia
fortemente frammentata e precarizzata come quella degli Stati Uniti di oggi possano
produrre effetti paragonabili a quelli del New Deal rooseveltiano. Ma tutte queste
perplessità non rendono l’esperimento di Sanders meno significativo. Così come
non lo rende meno significativo il fatto che, quasi sicuramente, il senatore
del Vermont non otterrà la nomination democratica e che alla fine soccomberà
dinanzi a Hillary Clinton (e ai suoi granitici appoggi). Il significato
principale dell’esperienza di Sanders va infatti probabilmente persino al di là
del successo della sua campagna, degli effetti che lascerà sulla politica
americana o del peso che le sue proposte avranno sul programma della sua rivale.
Perché l’entusiasmo che il settancinquenne Bernie Sanders ha incontrato nel suo
viaggio elettorale attraverso l’America è in fondo una prova tangibile che la
politica non è morta, e che – anche nell’era della democrazia
spettacolarizzata, dominata dalle logiche della comunicazione e dal cinismo dei
professionisti – la passione, la militanza e le idee hanno ancora una possibilità.
Ed è forse per questo che tutti quelli che credono ancora nella politica, e
nella possibilità di ridare sostanza a una democrazia al collasso, guardando al
settantacinquenne senatore del Vermont (persino senza condividerne le idee e i
programmi), potranno tornare a ripetersi ogni mattina: «Non siamo pazzi».
Damiano Palano
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