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martedì 29 marzo 2016
La “morale della saggezza” del realista Aron. Un libro di Alessandro Campi
Di Damiano Palano
Questa recensione al volume di Alessandro Campi, La politica come passione e come scienza. Saggi su Raymond Aron, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2015) è apparsa su "Avvenire" del 26 febbraio 2016, con il titolo La visione politica di Aron: «Poesia ideologica tradotta in prosa realistica».
Non si può certo dire che il nome di Raymond Aron sia sconosciuto al pubblico italiano. Lo studioso francese è però noto nel nostro Paese più che altro come alfiere del pensiero liberale e come antagonista, in mille polemiche giornalistiche, dell’antico compagno di studi Jean-Paul Sartre. Aron fu invece anche molto altro. E soprattutto fu uno studioso originale, che – a dispetto del costante impegno giornalistico – non abbandonò mai né l’insegnamento né il lavoro di ricerca. Forse è anzi proprio la sua fluviale produzione, dedicata peraltro a temi molto eterogenei, a rendere complesso approcciarsi alla sua opera.
Anche per questo è prezioso il volume di Alessandro Campi, La politica come passione e come scienza. Saggi su Raymond Aron (Rubbettino, pp. 200, euro 14.00), che riconduce il profilo dell’intellettuale francese nell’affollata (e tutt’altro che omogenea) famiglia del realismo politico. Come ebbe modo di dire nelle sue Memorie, Aron si assunse infatti come obiettivo quello di “riportare la poesia ideologica alla prosa realistica”. Ciò non significa comunque che Aron non sia stato per decenni uno “spettatore impegnato”, insensibile alle passioni politiche. Ma, riuscendo a coniugare spesso felicemente le due dimensioni della “passione” e della “scienza”, non perse mai la freddezza indispensabile per esplorare l’universo politico. Sulle orme dei grandi realisti del passato – da Tucicide a Weber, da Machiavelli a Pareto – tentò così di sviluppare un metodo di indagine ancora estremamente prezioso. Al tempo stesso, fu anche severo nei confronti delle varie forme di “realismo ingenuo” e di “pseudo realismo”, e cioè verso quelle visioni che approdano a un cinismo compiaciuto e alla celebrazione della politica di potenza. Nel corso della sua lunga carriera, non puntò d’altronde a isolare le “tendenze costanti” che influenzano (o ‘determinano’) la vita dei sistemi politici. Ma vide piuttosto nella politica “l’arte delle scelte senza ritorno e dei lunghi disegni”, nella convinzione che la realtà dovesse essere compresa nella sua condizione storica. E soprattutto fu tutt’altro che insensibile – come invece accade talvolta ai realisti – alla dimensione morale della politica. Tanto che, come mette bene in luce Campi, l’autentico realismo appariva agli occhi di Aron fondato sulla “morale della saggezza”. Quella morale, come scrisse in Pace e guerra tra le nazioni, che “si sforza non soltanto di prendere in considerazione tutte le particolarità concrete di un singolo caso, ma anche di non trascurare nessuno degli argomenti di principio e di opportunità, di non dimenticare né il rapporto delle forze né la volontà dei popoli”.
Damiano Palano
sabato 19 marzo 2016
Se la guerra non è più un "affare di Stato". Un libro curato da Carlo Altini su pace e guerra nel pensiero occidentale
di Damiano Palano
Questa recensione al volume a cura di Carlo Altini, Guerra e pace. Storia e teoria di un’esperienza filosofica e politica (Il Mulino, pp. 334, euro 26.00), è apparsa, in un versione leggermente diversa, sul quotidiano "Avvenire" il 18 aprile 2016.
In poco meno di due secoli, la celebre frase di Carl von Clausewitz, secondo cui «la politica non è altro che la continuazione della guerra con altri mezzi», è diventata quasi un luogo comune. In quella massima così popolare, come ebbe modo di rilevare anche Raymond Aron, erano però implicite due differenti concezioni. Per un verso, Clausewitz intendeva infatti sottolineare come la logica della guerra rischiasse sempre di soverchiare la politica e dunque di trascinare verso l’utilizzo della forza. Per l’altro però puntava anche a mettere in evidenza come la guerra potesse sempre essere ‘limitata’, e cioè regolata, grazie agli strumenti offerti dalla politica e dal diritto. Nel corso dei secoli il pensiero occidentale si è interrogato a lungo sui legami che avvicinano la politica alla guerra e sulle modalità che consentono di ‘imbrigliare’ la conflittualità all’interno di vincoli giuridici. Oggi i termini di quella vecchia riflessione si ripropongono ancora una volta, ma in forma nuova rispetto al passato. La “terza guerra mondiale combattuta ‘a pezzi’, con crimini, massacri distruzioni”, di cui ha parlato più volte Papa Francesco, segna infatti anche la conclusione definitiva di quella modalità di regolazione dei conflitti garantita dallo jus publicum europaeum. Innanzitutto perché sembra dissolversi il presupposto del monopolio della forza fisica da parte degli Stati.
Un utile strumento per comprendere da un’ampia prospettiva le trasformazioni che stiamo vivendo è offerto dal testo curato da Carlo Altini Guerra e pace. Storia e teoria di un’esperienza filosofica e politica (Il Mulino, pp. 334, euro 26.00). I saggi accolti nel volume – che partono dall’antropologia di Tucidide per giungere fine all’approccio mimetico di René Girard – riflettono infatti sul rapporto tra guerra e pace concentrandosi principalmente sui modi in cui, nelle diverse epoche, sono stati considerati tanto i conflitti armati, quanto la pace. E, in questo modo, non possono evitare di affrontare il tema del potere politico. Perché in fondo, come sottolinea il curatore, al cuore del rapporto tra guerra e pace sta il problema cruciale del “male” e della sua relazione ambivalente con un potere che, di volta in volta, può diventare lo strumento per frenare la violenza, oppure il mezzo con cui incrementarla. Dall’indagine emergono in filigrana le grandi trasformazioni che, dalla strategia primitiva, conducono sino alle guerre “postmoderne”. Ma in parallelo si delineano anche le modificazioni che intervengono nel modo di concepire la pace, e che conducono, a partire dal Settecento, alla nascita di un pensiero propriamente pacifista, per esempio con l’Abbé de Saint-Pierre e Kant.
Benché ognuno di questi classici contributi meriti di essere rimeditato, è però evidente che molte delle soluzioni avanzate nel passato sono inadeguate dinanzi alla realtà odierna. La guerra “postmoderna” pone infatti sfide radicalmente nuove, se non altro perché, come sottolinea nel volume Elisabetta Brighi, è del tutto inedito il processo di “individualizzazione” e di “informalizzazione” della violenza che abbiamo di fronte, per esempio nel caso del fenomeno terroristico. E forse proprio per questo torna di nuovo al centro la vecchia domanda sulla “natura umana” e sulle radici antropologiche della violenza. Quella stessa domanda che la modernità aveva potuto dimenticare, quando aveva fatto della guerra un “affare di Stato”.
Damiano Palano
lunedì 14 marzo 2016
Mr. Sanders va a Washington. «La rivoluzione politica» di Bernie Sanders in un'antologia di discorsi
di Damiano Palano
«È
giunto il momento di pensare in grande: è finita l’epoca dell’establishment e delle idee stantie che
circolano nei palazzi di Washington. È ora che milioni di famiglie di
lavoratori si uniscano per ridare vita alla democrazia americana, eliminare i
privilegi delle oligarchie economico-finanziarie, fermare il collasso della
classe media, garantire ai propri figli e nipoti benessere, salute, sicurezza e
felicità. Gli Stati Uniti devono tornare a guidare la lotta per la giustizia
economica e sociale, per la sicurezza ambientale e per la pace globale. I
problemi che l’America si trova oggi ad affrontare sono i più gravi dall’epoca
della Grande Depressione e probabilmente, se consideriamo anche l’emergenza
globale del cambiamento climatico, siamo di fronte a sfide di una gravità che
non ha uguali nell’intera storia moderna. Al centro di questa campagna non ci
sarà solo la promessa di combattere per proteggere le famiglie che lavorano in
questo paese, ma anche quella di costruire insieme un movimento di milioni di
americani pronti a resistere e a reagire. Dobbiamo fare in modo che questo
messaggio arrivi direttamente alle persone: nelle città, sui social media,
porta a porta, strada per strada. Partiremo dal New Hampshire, dall’Iowa e dal
Minnesota, ma questo sarà solo l’inizio di una grande mobilitazione».
Nel discorso con cui nel maggio 2015 Bernie Sanders
apriva la sua campagna per le primarie democratiche – un discorso ora raccolto,
insieme ad altri testi, in Quando è
troppo è troppo! Contro Wall Street, per cambiare l’America, a cura di Rosa
Fioravante, Castelvecchi, Roma, 2016, pp. 187, euro 15.00) – il senatore del
Vermont fissava chiaramente quali fossero i cardini della «rivoluzione
politica» che si proponeva di innescare. La candidatura di Sanders doveva
apparire allora poco più che un atto di testimonianza, ma nel corso di poco
meno di un anno la «rivoluzione politica» ha preso consistenza, e ha finito col
dare corpo a uno dei fenomeni senza dubbio più interessanti nella politica
americana dell’ultimo mezzo secolo. Agli occhi del pubblico europeo – ormai
assuefatto a squalificare ogni posizione ‘socialdemocratica’ come puramente
nostalgica, statalista o conservatrice – può apparire persino sconcertante il
fatto che un candidato alla Casa Bianca si professi «socialista», un secolo
dopo i tentativi di Eugene Debs (tre volte candidato alla Presidenza nei primi
decenni del Novecento). Ma a ben guardare il successo della campagna di
Sanders, per quanto sorprendente, ha radici tutt’altro che superficiali.
Innanzitutto perché ha alle spalle quasi un decennio di trasformazioni radicali
della società americana, che hanno contribuito alla radicalizzazione delle
posizioni soprattutto tra le fasce più giovani dei ceti medi. Ma anche perché
la candidatura alla Casa Bianca costituisce il culmine di una lunga carriera
politica, durante la quale Sanders ha dato prova quantomeno di una notevole
coerenza su molti temi.
Figlio
di immigrati ebrei, che abbandonarono la Polonia per sfuggire alla persecuzione
nazista, Sanders nacque a New York nel 1941. Per molti versi può essere così
considerato come il frutto di quell’intellighenzia radicale newyorkese,
tutt’altro che immune al fascismo del marxismo, che ha avuto tra i suoi
esponenti più noti personaggi come Paul Baran e Noam Chomsky. Ma
quest’accostamento rischia di essere riduttivo, non solo perché la carriera
politica di Sanders si è svolta in realtà lontana dalla Grande Mela, ma anche
perché il «socialismo democratico» di cui si dichiara alfiere è più vicino a
Franklin D. Roosevelt che a Karl Marx. Dopo la laurea conseguita all’Università
di Chicago, l’impegno per i diritti civili e la battaglia contro la guerra del
Vietnam (con la scelta di dichiararsi obiettore di coscienza), Sanders militò
nell’organizzazione giovanile del Partito Socialista, ma fu con il
trasferimento nel piccolo Stato del Vermont e l’ingresso nel Liberty Union
Party, all’inizio degli anni Settanta, che la sua carriera politica imboccò i
binari che giungono sino a oggi. Negli anni Settanta prese parte infatti a
diversi competizioni elettorali, con l’appoggio del Liberty Union, senza
ottenere risultati eclatanti, fino alla svolta (inattesa) del 1981, quando
Sanders riuscì a conquistare per un manciata di voti di differenza, come
candidato indipendente, la carica di sindaco di Burlington. L’attività di
amministratore della città si contraddistinse subito per l’opposizione alla
cementificazione delle sponde del lago Champlain, trasformate invece in
proprietà pubblica ad alta utilità sociale (e non è certo casuale che la
campagna per le primarie democratiche abbia avuto inizio un anno fa proprio
dalla cittadina del Vermont). Ancora come candidato indipendente Sanders
approdò alla Camera nel 1990, mentre – ormai nella fila democratiche – nel 2006
venne eletto in Senato. La scelta di correre per la Presidenza giunge dunque al
termine di una lunga carriera trascorsa nelle istituzioni, ma anche al culmine di
una trasformazione della politica americana, che forse non dipende solo
dall’impatto che sulla società e sui ceti medi ha avuto la crisi del 2008. La
candidatura di Sanders è infatti al tempo stesso il frutto e la testimonianza
più nitida di una progressiva polarizzazione del dibattito politico americano:
una polarizzazione la cui esemplificazione più chiara negli ultimi dieci anni è
stata offerta dall’esperienza del Tea Party, ma i cui effetti sono visibili
nell’andamento delle primarie, sia sul fronte democratico, sia sul fronte
repubblicano.
Leggere
i discorsi di Sanders raccolti in Quando
è troppo e troppo! è utile forse non tanto per comprendere le coordinate
del suo «socialismo», quanto per cogliere come la sua proposta politica – certo
dirompente rispetto alla retorica dell’ultimo trentennio – si inscriva
piuttosto fedelmente all’interno della tradizione ‘progressiva’ e ‘populista’
americana. E cioè di una tradizione che – a partire almeno da Lincoln –
denuncia il potere della «plutocrazia» e propone un ritorno a quelle antiche
garanzie di libertà che possono garantire un futuro al «sogno americano».
Proprio nel discorso inaugurale della campagna
Sanders indicava i punti essenziali della sua iniziativa proprio nella difesa
della democrazia americana contro le conseguenze della diseguaglianza di
reddito, largamente approfonditasi nel corso dell’ultimo trentennio, e contro
le implicazioni di un sistema che – abolendo qualsiasi limite al finanziamento
dei privati alle campagne elettorali – di fatto consegna a una ristretta
oligarchia il potere di influire su tutte le decisioni politiche. «In pratica»,
ha affermato per esempio Sanders, «ciò che la Corte Suprema ha affermato è che
i miliardari non sono possono controllare la gran parte della nostra economia,
ma anche lo stesso governo degli Stati Uniti». A giudizio di Sanders, un
assetto di questo è infatti solo un’oligarchia travestita di abiti democratici,
come ripete spesso nei suoi comizi, ribadendo la necessità di un finanziamento
pubblico delle campagne elettorali e dell’introduzione di un tetto ai
finanziamenti privati: «Secondo i dati forniti dai media, in questa tornata
elettorale una sola famiglia, quella dei fratelli Koch, spenderà più soldi di
entrambi i partiti, Democratico e Repubblicano, messi assieme. Questa non è
democrazia, è oligarchia. Tutti sanno come dovrebbe essere fatta la democrazia
americana: ogni persona dovrebbe valere un voto e avere uguale peso. È questo
il tipo di sistema politico per il quale bisogna combattere» (Una rivoluzione politica, in Quando è troppo è troppo!, cit., p. 13).
Ma strettamente connessa alla deriva oligarchica, è anche la tendenza verso la
crescente «alienazione politica», su cui Sanders – che d’altronde ha trovato un
punto di forza nell’elettorato giovanile – ha battuto costantemente, osservando
per esempio, sempre nel discorso di avvio della campagna: «Un’altra grande
questione della quale bisogna discutere è il grande malcontento oggi diffuso
nei confronti della politica americana. Alle elezioni di metà mandato di
novembre, il 63% degli americani e i l’80% dei giovani non ha votato. Sondaggio
dopo sondaggio emerge che i nostri cittadini non hanno più fiducia nelle
istituzioni, nutrono seri dubbi sull’efficacia del loro voto per via
dell’enorme influenza del denaro sul sistema politico, e si chiedono infine se
i politici siano al corrente delle loro condizioni di vita. Non sarà certo
semplice combattere contro quest’alienazione politica, il cinismo e la rabbia
legittima, ma è ciò che va fatto per cambiare questo paese» (p. 14).
Dinanzi a questo quadro, il programma di Sanders si articola
su misure classicamente ‘keynesiane’, centrate soprattutto sull’adeguamento di
infrastrutture (ponti, strade, sistema idrico, aeroporti) deterioratesi negli
ultimi decenni, sull’innalzamento del salario minimo (con concessione di
permessi di malattia pagati e ferie garantite), sull’introduzione di un sistema
fiscale progressivo, sulla riforma di Wall Street, sull’adozione del
finanziamento pubblico delle campagne elettorali (e la limitazione del
finanziamento privato), su politiche di riconversione del sistema energetico
nella direzione di energie sostenibili, sull’estensione dell’assistenza sanitaria
a tutti, sulla gratuità dell’accesso alle università pubbliche. In un paese in
cui lo stesso Obama è stato a lungo attaccato come ‘socialista’, è quasi
scontato che le misure proposte da Sanders debbano apparire per molti come una
sorta di proclama rivoluzionario. Pur definendo se stesso come «socialista
democratico», Sanders ha però chiarito come l’intento di questi progetti
radicali di riforma vada inteso nel senso di un ‘ristabilimento’ delle
condizioni che hanno storicamente reso solida la democrazia americana. Nella
conferenza Cos’è il socialismo,
tenuta alla Georgetown University nel novembre 2015, per esempio ha affermato,
richiamandosi tanto a Papa Francesco quanto al New Deal di Roosevelt: «Quando si bollano queste idee come
socialiste bisogna ricordare che nessuno vuole che il governo si impossessi del
negozio di alimentari in fondo alla strada o possegga i mezzi di produzione. La
convinzione alla base di queste idee è piuttosto che la classe media e la
classe lavoratrice, che producono la ricchezza di questo paese, meritino uno
standard dignitoso di vita e che il loro reddito debba aumentare anziché
diminuire. Bisogna credere e avere fiducia nelle compagnie private che
prosperano, investono e crescono in America, nelle compagnie che creano lavoro
qui, piuttosto che nelle compagnie che chiudono stabilimenti negli Stati Uniti
e aumentano i loro profitti sfruttando a basso costo i lavoratori all’estero» (Cos’è il socialismo, in Quando è troppo è troppo!, cit., p. 65).
Senza
alcun dubbio simili proposte devono apparire oggi radicali, forse persino
‘rivoluzionarie’. Ma non è certo difficile ritrovare nelle parole di Sanders
l’eco delle antiche polemiche condotte dai muckrakers
contro il mondo degli affari, della corrosiva analisi svolta da Thorstein
Veblen sulla «classe oziosa», degli attacchi contro la «plutocrazia» di Lincoln
Steffens. E forse si può anche ritrovare nelle parole di Sanders qualcosa del «nuovo
nazionalismo» auspicato da Herbert Croly al principio del Novecento, o persino
qualcosa del giovane Reinhold Niebuhr di Moral
Man and Immoral Society. Perché la polemica contro l’«oligarchia»
si richiama alle stesse radici ‘jacksoniane’ della democrazia americana, e a
quella «promessa» americana che secondo Sanders è stata tradita dalle trasformazioni
degli ultimi decenni: «Come alcuni di voi sanno», affermava d’altronde al
termine del discorso di apertura della campagna, «sono nato in una terra
lontana chiamata Brooklyn, New York. Mio padre è venuto in questo paese dalla
Polonia senza un penny e senza un’adeguata istruzione ha lavorato per quasi
tutta la vita come venditore di vernici. Mia madre si è diplomata a New York
City. Appartenevamo alla classe medio-bassa. I miei genitori, mio fratello e io
vivevamo in un piccolo appartamento dall’affitto calmierato. Mia mamma sognava
di trasferirsi in una casa tutta nostra, ma è morta giovane e il suo sogno non
si è mai realizzato. Da giovane ho imparato, in molti modi, cosa significa per
una famiglia la mancanza di denaro, ed è una lezione che non ho mai
dimenticato. Ho visto la promessa realizzarsi nella mia stessa vita. I miei
genitori non avrebbero mai potuto sognare che il loro figlio sarebbe diventato
Senatore degli Stati Uniti, figurarsi che avrebbe corso per diventare
Presidente. Ma per troppi dei nostri connazionali questo sogno di progresso di
opportunità per tutti è stato schiacciato nella morsa di un’economia che fa
confluire tutta la ricchezza verso il vertice. A chi sostiene che non possiamo
rinnovare il sogno, dobbiamo rispondere: guardate dove siamo ora» (Una rivoluzione politica, cit., pp.
17-18).
Quando negli anni Settanta,
dopo essere stato sfrattato, Sanders si trovava ospite a casa dell’amico
Richard Sugarman, ogni mattina – invece di un normale «buongiorno» – salutava
il coinquilino con la stessa identica frase: «Non siamo pazzi». Quella frase,
come ricorda la curatrice del volume Rosa Fioravante, può essere per molti
versi considerata oggi come la prova di una passione politica, di una tenacia e
di una coerenza che, un po’ come accadeva all’idealista Mr. Smith del vecchio film
di Frank Capra, hanno portato Bernie Sanders a varcare le porte del Congresso e
a correre alle primarie per la Casa Bianca. E sono forse proprio la tenacia e la
passione che rendono Bernie Sanders un fenomeno a suo modo straordinario, che
ha davvero pochi eguali nella storia politica dell’ultimo mezzo secolo.
Naturalmente il suo programma politico è tutt’altro che privo di elementi
critici, che non sono principalmente quelli relativi alla politica estera, che
spesso vengono sottolineati dai suoi detrattori (negli Usa e in Europa), ma
soprattutto quelli che hanno a che vedere con il suo «socialismo democratico»:
e non certo perché non sia ‘ragionevole’ pensare a politiche redistributive, a
misure capaci di ridurre le diseguaglianze, alla revisione dei trattati di
libero commercio, a grandi investimenti infrastrutturali, ma perché è probabilmente
ingenuo pensare che strumenti sostanzialmente ‘keynesiani’ in un’economia
fortemente frammentata e precarizzata come quella degli Stati Uniti di oggi possano
produrre effetti paragonabili a quelli del New Deal rooseveltiano. Ma tutte queste
perplessità non rendono l’esperimento di Sanders meno significativo. Così come
non lo rende meno significativo il fatto che, quasi sicuramente, il senatore
del Vermont non otterrà la nomination democratica e che alla fine soccomberà
dinanzi a Hillary Clinton (e ai suoi granitici appoggi). Il significato
principale dell’esperienza di Sanders va infatti probabilmente persino al di là
del successo della sua campagna, degli effetti che lascerà sulla politica
americana o del peso che le sue proposte avranno sul programma della sua rivale.
Perché l’entusiasmo che il settancinquenne Bernie Sanders ha incontrato nel suo
viaggio elettorale attraverso l’America è in fondo una prova tangibile che la
politica non è morta, e che – anche nell’era della democrazia
spettacolarizzata, dominata dalle logiche della comunicazione e dal cinismo dei
professionisti – la passione, la militanza e le idee hanno ancora una possibilità.
Ed è forse per questo che tutti quelli che credono ancora nella politica, e
nella possibilità di ridare sostanza a una democrazia al collasso, guardando al
settantacinquenne senatore del Vermont (persino senza condividerne le idee e i
programmi), potranno tornare a ripetersi ogni mattina: «Non siamo pazzi».
Damiano Palano
giovedì 10 marzo 2016
La «Guerra Fredda» vista dal Sud. "La Guerra fredda globale. Gli Stati Uniti, l’Unione Sovietica e il mondo" di Odd Arne Westad
di Damiano Palano
Questa recensione al volume di Odd Arne Westad, La Guerra fredda globale. Gli Stati Uniti, l’Unione Sovietica e il mondo (Il Saggiatore), è apparsa su "Avvenire" il 19 febbraio 2016.
Nel 1916, mentre sui campi di battaglia si consumava il massacro di milioni di soldati, Benedetto XV definì la guerra scoppiata due anni prima come il «suicidio dell’Europa civile». Le parole del pontefice intendevano naturalmente esprimere una severa condanna della guerra. Ma rilette a un secolo di distanza possono anche essere intese come il riconoscimento della fine di un mondo. Al di là dei motivi scatenanti del conflitto e delle sue conclusioni, la Grande guerra segnò infatti la fine dello jus publicum europaeum, ossia di quell’assetto politico nato nel 1648 con la pace di Vestfalia. A un secolo di distanza, oggi è chiaro a chiunque che il Vecchio continente non è più il ‘centro del mondo’. Eppure il nostro modo di guardare alle dinamiche internazionali continua a essere segnato da un marcato eurocentrismo. E ciò comporta non solo un disinteresse per quanto avviene lontano dall’Europa, ma soprattutto una visione riduttiva del passato, che ci lascia privi degli strumenti necessari per capire da dove nasca l’odierno disordine internazionale.
Una sollecitazione importante ad allargare lo sguardo giunge invece da La Guerra fredda globale. Gli Stati Uniti, l’Unione Sovietica e il mondo dello studioso norvegese Odd Arne Westad (il Saggiatore, pp. 546, euro 35.00). Il volume ha infatti il merito di rileggere la storia del conflitto bipolare assumendo la prospettiva del Sud, e considerando le conseguenze che l’interventismo delle due superpotenze ebbe sulla nascita politica del «Terzo mondo». Lo storico mostra infatti come l’interventismo di Usa e Urss scaturisse dalle loro stesse matrici ideologiche. Tanto Washington quanto Mosca si sentivano eredi della modernità europea, e ai loro occhi era necessario cambiare il mondo “per dimostrare la validità universale delle loro ideologie”. Di fatto, il loro interventismo non fu percepito in termini molto differenti dal vecchio imperialismo. Eppure secondo Westad le motivazioni che spinsero Usa e Urss a utilizzare la forza fuori dai loro confini non erano lo sfruttamento e l’assoggettamento, bensì la convinzione ideologica di dover imporre il “progresso”, combinata con l’idea che conquistare il controllo anche su aree periferiche fosse indispensabile nel quadro della «guerra civile mondiale».
Un ruolo tutt’altro che secondario in questa dinamica fu ricoperto dalle classi dirigenti locali dei paesi del Sud del mondo, le quali inalberarono la bandiera di un’ideologia internazionale con l’obiettivo di ottenere lo stabile appoggio di una delle due superpotenze. In questo modo le élite post-coloniali sposarono una delle versioni rivali di «alto modernismo» di cui erano portatrici Washington e Mosca. E, soprattutto, vararono piani di modernizzazione forzata della società, che quasi sempre si concretizzarono in una sorta di guerra al mondo contadino (condotta utilizzando le armi della fame e della sete) e non di rado implicavano anche una guerra «culturale». L’interventismo delle superpotenze rese «semipermanente» la condizione di guerra civile in queste aree del pianeta. Ma contribuì anche a far nascere nuove forme di resistenza ideologica, in cui temi come l’appartenenza etnica e religiosa venivano rielaborati e riorganizzati all’interno di una nuova retorica nazionalista, con l’obiettivo politico di opporsi alla modernizzazione occidentale e alle élite locali che se ne erano fatte portatrici. E proprio in questo senso sono molto interessanti i capitoli dedicati all’Angola, al Mozambico, al Corno d’Africa, all’Iran, oltre che naturalmente all’Afghanistan. Perché d’altronde proprio intervenendo militarmente in Afghanistan – un’area all’apparenza tanto lontana dal ‘centro’ della politica globale – l’Urss mostrò al mondo di essere ormai una superpotenza in declino. E perché, nel corso della resistenza all’invasione sovietica, l’ideologia islamista cominciò ad assumere una consistenza politica.
Damiano Palano
sabato 5 marzo 2016
Super Tuesday, l’eclissi del centro. La corsa delle primarie e la "polarizzazione" della politica americana
di Damiano Palano
Questa nota è apparsa il 3 marzo su "Cattolica News".
Di solito il “Super Tuesday” segna uno snodo fondamentale nella corsa delle primarie americane, perché consente di capire quali saranno alla fine i candidati alla Casa Bianca. E anche in questo caso – come i sondaggi avevano anticipato – le consultazioni hanno contribuito a dipanare una matassa molto imbrogliata. Sul fronte democratico, pur senza ottenere una vittoria piena, Hillary Clinton con il migliaio di delegati conquistati fino a questo momento (compresi anche i “superdelegati”) sembra aver maturato un distacco ormai piuttosto rilevante nei confronti del comunque sorprendente Bernie Sanders, che può disporre solo di 427 delegati e che per ora non è riuscito a far breccia tra le minoranze e nell’elettorato femminile. Sul versante repubblicano – dove invece il confronto è senz’altro molto più acceso – il miliardario Donald Trump ha riconfermato la posizione di testa (arrivando per ora a 319 delegati).
Tecnicamente – è bene tenerlo presente – siamo comunque ancora alle fasi iniziali della corsa. Per quanto riguarda il campo democratico, è stato assegnato infatti solo poco più di un quarto (circa il 28%) dei delegati che nella convention di fine giugno a Philadelphia dovranno designare ufficialmente il candidato alla presidenza. E ciò significa che a Hillary Clinton mancano ancora quasi 1400 delegati per raggiungere la maggioranza. La partita è invece ancora più aperta sul fronte dei repubblicani, che finora hanno eletto meno del 25% dei delegati. Per diventare il candidato ufficiale, Trump dovrà dunque ottenere nei prossimi mesi poco meno di un migliaio di rappresentanti (più o meno il triplo rispetto a quelli già conquistati). Anche per questo gli avversari di Clinton e Trump non sono affatto tagliati fuori dal gioco. Certo i margini da recuperare per Sanders sono ormai piuttosto ampi (nonostante affermazioni importanti, che tengono ancora in partita il senatore del Vermont). Ma soprattutto Cruz sembra ancora in grado insidiare la posizione di vertice di Trump (mentre Marco Rubio appare decisamente staccato). E così saranno determinanti le primarie che si terranno nelle prossime settimane soprattutto in Michigan, Florida, Illinois, Ohio, Washington, New York e Pennsylvania, e cioè in Stati che assegnano una quota notevole di delegati.
Se tutti questi elementi inducono a considerare con cautela gli esiti del “Super Tuesday”, molti analisti si sono spinti a prevedere che lo scontro per la Casa Bianca vedrà alla fine come protagonisti proprio Hillary Clinton e Donald Trump. Le primarie assomigliano in effetti a una gara di ‘resistenza’, in cui a contare sono soprattutto le risorse finanziarie. E specialmente per i candidati che non hanno alle spalle appoggi consistenti, le prime tappe del lungo viaggio elettorale diventano spesso decisive. Un successo ottenuto nelle prime tornate – magari anche in Stati poco ‘pesanti’ in termini di delegati – può risultare vitale per attrarre quei finanziamenti indispensabili per proseguire la campagna. Mentre una sconfitta può indurre al ritiro persino candidati con appoggi molto consistenti (come è avvenuto nel caso di Jeb Bush).
Così è effettivamente molto probabile che i due candidati che oggi si trovano in testa saranno davvero i protagonisti delle elezioni di novembre. E qualcuno non ha mancato di sottolineare che, dinanzi al discusso miliardario newyorkese, sarebbe quasi scontata la vittoria dell’ex-Segretario di Stato, che a quel punto potrebbe agevolmente diventare il primo presidente donna nella storia degli Stati Uniti. Secondo molti osservatori (e secondo i sondaggi), Trump sarebbe infatti destinato ad avere la peggio, principalmente perché non riuscirebbe a conquistare interamente il sostegno del tradizionale elettorato repubblicano, il quale anzi lo vedrebbe con un certo sfavore, se non con timore. Anche se le cose potranno davvero andare in questo modo, le sorprese non vanno però essere escluse. E d’altronde sono proprio le indicazioni che giungono da queste anomale primarie a suggerire molta cautela.
Gli ultimi mesi hanno infatti segnalato alcune tendenze interessanti. La prima delle quali è la debolezza delle oligarchie partitiche, che – anche per gli effetti della ‘disintermediazione’ – si sono rivelate del tutto incapaci di fronteggiare e ostacolare la ‘scalata’ di outsider radicali come sono, in modo diverso, Sanders, Trump e Cruz. La seconda è invece una conferma ulteriore – se davvero ce ne fosse stato bisogno – del potenziale delle retoriche ‘populiste’, che hanno peraltro nella cultura politica americana radici ben più profonde che in Europa. Tanto Sanders quanto Trump – con argomentazioni e stile certo molto differenti – hanno infatti conquistato buona parte del loro inaspettato successo attaccando Wall Street e accusando la classe politica di sudditanza nei confronti della finanza. E proprio l’incrociarsi di queste dinamiche – insieme ovviamente alla trasformazione che la società americana ha vissuto negli ultimi dieci anni – ha contribuito a determinare due risultati imprevedibili solo fino pochi mesi fa. E cioè il seguito di un candidato che non esita a definirsi ‘socialista’ come Sanders e il successo – persino sconcertante, specie se visto dall’altra sponda dell’Atlantico – di un personaggio come Trump, che ha fatto della propria ignoranza e della propria volgarità una sorta di “brand”.
Naturalmente le primarie seguono logiche specifiche, che non sono quelle delle elezioni politiche. Ma forse non è da escludere che gli elementi emersi finora debbano tornare nella fase finale della competizione per la Casa Bianca. Anche perché uno degli effetti della ‘disintermediazione’ sembra essere anche l’eclissi (almeno parziale) dell’«elettore mediano». Fino a qualche tempo fa era quasi indiscutibile la vecchia regola secondo cui “le elezioni si vincono al centro”, e cioè conquistando quell’elettorato ‘moderato’ che si trova più o meno al centro del mercato politico. Da almeno dieci anni le cose stanno invece cambiando. In un contesto in cui la centralità della tv viene insidiata da flussi di comunicazione ‘personalizzati’, che vanno a ‘stanare’ il singolo elettore, la competizione tende a ‘polarizzarsi’, nel senso che il messaggio delle forze politiche si radicalizza. In tempi di disaffezione, è infatti diventato sempre più importante convincere ad andare a votare gli elettori (soprattutto quelli più lontani dalla politica), e i messaggi più radicali sono spesso strumenti formidabili di mobilitazione. Ed è probabilmente per questi stessi motivi che i consulenti di Hillary Clinton non potranno permettersi di sottovalutare i rischi di uno scontro con un personaggio come Trump.
Damiano Palano
giovedì 3 marzo 2016
Il «capitale umano» nella fabbrica della vita. «Biolavoro globale» di Melinda Cooper e Catherine Waldby
di Damiano Palano
Chi riveda oggi Traitement de choc – un vecchio polar francese del 1973 firmato da Alain Jessua e noto in Italia con il titolo L’uomo che uccideva a sangue freddo – non può non riconoscere, seppur nella forma esasperata della cinematografia di genere, almeno alcuni dei problemi in cui ci imbattiamo quando consideriamo le potenzialità offerte dalle tecnologie di manipolazione della vita. Nel film la protagonista, una non più giovanissima Annie Girardot, dopo essere stata lasciata dal marito, decide di ricorrere alle cure della dottor Devilars, un medico, impersonato da Alain Delon, celebre per aver scoperto formidabili metodi di ringiovanimento. Ospite della clinica, la donna inizia però a nutrire qualche sospetto sui metodi di cura, che inizialmente sembra si basino sull’utilizzo di una sostanza di origine ovina, che consentirebbe di rigenerare i tessuti. Ma i ripetuti malori dei inservienti, tutti giovanissimi africani che parlano solo portoghese, inducono la protagonista a indagare ancora. Fino al momento in cui scopre – come gli spettatori hanno già intuito – che il misterioso componente in grado di ringiovanire viene estratto da esseri umani, i quali però, prelievo dopo prelievo, si indeboliscono fino a morire. Nel tentativo disperato di mettere a tacere la donna, il dottor Devilars – come vuole il copione di ogni buon film d’azione – ha la peggio. Ma qualcun altro prenderà il suo posto. E il film si conclude così con le immagini di un furgone che conduce verso la clinica un nuovo carico di disperati, provenienti da qualche sperduto Sud del mondo e destinati a rifornire di carne viva l’inquietante fabbrica della giovinezza.
Nei poco più di quarant’anni trascorsi dalla realizzazione del film, l’elisir dell’eterna giovinezza naturalmente non è stato scoperto. Ma certo le tecnologie di manipolazione della vita si sono notevolmente modificate, e hanno preso forma settori potenzialmente molto remunerativi soprattutto per le industrie farmaceutiche. Spesso il dibattito – soprattutto in Italia – si concentra sulle dimensioni ‘bioetiche’ poste da queste nuove tecnologie, e la discussione tende quasi invariabilmente ad assumere il profilo di una contrapposizione tra i sostenitori del ‘progresso’ e della ‘scienza’, da un lato, e, dall’altro, gli alfieri dei valori confessionali e della ‘natura’. Un contributo interessante per uscire dalle secche di questa contrapposizione viene dal volume delle ricercatrici australiane Melinda Cooper e Catherine Waldby, Biolavoro globale. Corpi e nuova manodopera (DeriveApprodi, pp. 253, euro 18.00).
Mentre molti studi sul postfordismo hanno considerato le diverse forme di lavoro immateriale, poche ricerche, scrivono le sue autrici, «hanno […] studiato le nuove forme di lavoro iscritte nei corpi (maternità surrogata, reperimento e vendita di tessuti del corpo, partecipazione a studi clinici), che proliferano ai margini delle economie bio-mediche post-fordiste». Il loro studio si concentra infatti proprio su queste forme di lavoro, che – secondo le due ricercatrici – tendono a far fuoriuscire il processo di produzione biologica dalla sfera privata della famiglia per portarlo verso il mercato. La «bioeconomia» di cui parlano è dunque un tipo di produzione che utilizza i processi biologici in molti campi differenti: «L’industria farmaceutica esige un numero sempre più elevato di soggetti per la sperimentazione, per rispondere all’imperativo dell’innovazione. Il mercato della riproduzione assistita continua a espandersi, dal momento che sempre più persone vogliono avere un figlio proprio ricorrendo alle tecniche di fecondazione assistita o di maternità surrogata, impiegando anche terze persone esterne alla famiglia – i venditori di gameti e le madri surrogate – e che i settori industriali delle cellule staminali necessitano di tessuti riproduttivi. Le industrie delle scienze della vita si basano su un’ingente forza-lavoro ancora non riconosciuta, cui vengono richiesti servizi legati a esperienze molti viscerali, come il consumo di farmaci in via di sperimentazione, la trasformazione ormonale, l’eiaculazione, l’estrazione dei tessuti e la gestazione, con procedure biomediche più o meno invasive. Solo negli Stati Uniti, l’epicentro dell’industria farmaceutica globale, un numero crescente di lavoratrici/ori precarie/i viene impiegato nella fase I, ad alto rischio, dei lavori di sperimentazione clinica in cambio di denaro, mentre le/i pazienti non assicurate/i vengono indotte/i a prendere parte a studi clinici in cambio di farmaci il cui prezzo sarebbe altrimenti insostenibile. Con la diffusione delle tecnologie di riproduzione assistita, la vendita di tessuti come oociti e spermatozoi, o di servizi riproduttivi come la maternità surrogata, appare sempre più come un fiorente mercato del lavoro, in cui la manodopera viene prodotta e selezionata secondo linee di classe e di razza. Il risultato si chiama lavoro clinico» (p. 32).
L’indagine si concentra in realtà soprattutto sui due più grandi mercati transnazionali del «lavoro clinico», ossia i lavori connessi alla fecondazione assistita e quelli legati alla sperimentazione di nuovi farmaci. Particolarmente interessante è proprio la ricostruzione dedicata ai processi di esternalizzazione della fertilità, ai criteri di selezione dei donatori utilizzati dalle banche del seme, allo sviluppo delle tecniche di stimolazione ovarica umana e di prelievo e conservazione degli ovociti, alla nascita delle agenzie di maternità surrogata (agenzie sorte alla fine degli anni Settanta in Florida e California, la cui attività a lungo si limitò, prima del riconoscimento giuridico, all’elaborazione di test per individuare il profilo psicologico adeguato a questo tipo di attività). Ma è importante anche il ruolo che le due ricercatrici riconoscono alla relazione contrattuale, soprattutto in un contesto in cui il contratto tra individui viene celebrato come lo strumento adeguato a garantire la libertà di entrambi i contraenti, e dunque a impedire forme di ‘sopraffazione’, senza che sia in alcun modo necessario l’intervento dello Stato. In realtà, però, sia le madri surrogate sia le venditrici di oociti non partecipano alla contrattazione sul prezzo, che viene gestita dall’agenzia, nonostante gli operatori del settore ricorrano costantemente a retoriche che presentano la maternità surrogata come un «dono»: «Le donne che cercano di stabilire da sole il valore della propria ricompensa sono considerate psicologicamente inappropriate e possono per questo essere scartate. Questo paradosso deriva dalla retorica di marketing tipica delle agenzie di intermediazione, satura di rimandi ai principi astratti del ‘dono della vita’ e della ‘generosità materna’, presentati come prerogative necessarie per divenire madri surrogate e fornitrici di oociti. La mistificazione della compravendita di oociti è evidente. Essa è presentata nei termini di una relazione di dono, perché in questo modo le parti contraenti possono intendere lo scambio in termini meno economici e commerciali di quelli stabiliti dal contratto. Senza questo espediente retorico, la rappresentazione della venditrice di oociti come efficace negoziatrice del proprio capitale riproduttivo minaccia di contaminare il principio della generosità materna che ha formato parte del suo valore sul mercato» (p. 88).
Il ricorso alla retorica del «dono» è legata anche al fatto che alcune organizzazioni professionali che si occupano dell’autoregolazione della medicina riproduttiva sono contrarie per motivi etici alla vendita di oociti e sostengono che alla vendita sia invece preferibile un ‘rimborso’ a beneficio della donatrice. Ma l’enfasi sul «dono» di fatto costituisce solo uno strumento con cui le agenzie di intermediazione hanno nel tempo legittimato una relazione che rimane invece soprattutto ‘contrattuale’. Il contratto d’altronde impone in California – lo Stato che detiene il primato in questo settore – l’esecuzione in forma specifica, e cioè l’adempimento dei doveri previsti dall’accordo siglato dalle parti, secondo una formula in vigore alla fine del Diciannovesimo secolo e in seguito abbandonata per le altre forme di lavoro, su pressione delle lotte sindacali. Ciò significa in sostanza che lo Stato non può intervenire in caso di controversia, se non per far rispettare l’accordo sottoscritto dalle parti. Un caso celebre, che il libro ovviamente menziona, è quello che nel 1993 oppose una donna afroamericana, Anna Johnson, ai committenti bianchi, i Calverts. Benché i Calverts avessero fornito spermatozoi e oocita, Johnson rivendicava di essere la madre legittima, dal momento che aveva portato a termine la gravidanza. Dopo una lunga vicenda processuale, la Corte Suprema, pur riconoscendo Johnson come la «madre naturale», non la considerò come la «madre legittima», e così obbligò la donna a restituire il bambino ai Calverts (anche se non la condannò al pagamento della sanzione economica prevista dal contratto). Questo caso, secondo Cooper e Waldby, mostra in modo chiaro la differenza tra normali contratti di lavoro e contratti di lavoro riproduttivo, una differenza che discende dal fatto che «la madre gestazionale incarna letteralmente i mezzi di produzione: lavora grazie alla stessa biologia femminile della riproduzione» (p. 91). Se i proprietari di impianti produttivi hanno raramente fatto ricorso all’esecuzione in forma specifica, questo strumento si rende invece necessario nel campo del lavoro riproduttivo, perché i datori di lavoro non hanno altri strumenti per far rispettare la disciplina e per sostituire la manodopera: «Nonostante le tecnologie di riproduzione assistita taylorizzino la biologia, esternalizzando e razionalizzando le sue componenti, la gravidanza rimane un processo che non può (almeno non ancora) essere completamente esternalizzato» (p. 91).
Se gli Stati Uniti (in realtà solo alcuni Stati) hanno svolto un ruolo da apripista in questi settori, nel corso dell’ultimo decennio sono entrati nel mercato anche alcuni paesi poveri, in cui il costo di una maternità surrogata è sensibilmente più basso. Cooper e Waldby non mancano di compiere una rassegna di queste realtà, e in particolare considerano il mercato degli oociti in Europa (con rimborsi e indennizzi), la vendita degli oociti in Romania e il settore della maternità surrogata in India, un paese che ha adottato un modello simile a quello californiano. In India, il fatto che le donne coinvolte provengano spesso da fasce sociali molto basse rende la maternità surrogata una leva di promozione sociale, in una logica di tipo imprenditoriale in cui al ‘rischio d’impresa’ corrisponde la possibilità di ottenere un guadagno: «La maternità surrogata come modello economico», scrivono infatti le due autrici, «colloca queste donne in un mercato e in un insieme di relazioni transnazionali molto diversi da quelli del villaggio di origine. Diventando una madre surrogata, la donna assume finalmente un ruolo economico imprenditoriale, anche se in questo modo espone a rischi elevati il suo stesso corpo. Per affermare il proprio valore, le donne scelgono la maternità surrogata, in quanto proprietarie della loro capacità riproduttiva. In sostanza, le donne acconsentono alla trasformazione del loro utero in una risorsa, capace di produrre rendite monopolistiche» (p. 117).
Il dibattito su questi temi, e in particolare sulla maternità surrogata, è destinato a protrarsi a lungo, sia perché – nonostante questa pratica sia vietata in quasi tutti i paesi europei e in buona parte del mondo – la ‘domanda’ (che ovviamente proviene dalle fasce più abbienti dei paesi occidentali) è probabilmente destinata a crescere, sia perché i margini di redditività per le agenzie che si occupano dell’intermediazione fra committenti e madri surrogate sono notevoli. Il volume di Cooper e Waldby assume rispetto all’insieme del «lavoro clinico» una posizione interlocutoria, nel senso che, se da un lato certo mostra la realtà di sfruttamento che si cela in questo settore (e anche dietro le retoriche del «dono»), dall’altro non indica strategie politiche o normative da adottare. Le due autrici si limitano infatti a sottolineare la necessità di ripensare i termini dello scambio, solo all’apparenza simmetrico, in vista di una trasformazione «in una prospettiva più equa» del lavoro clinico (p. 203). Una maggiore ambiguità si può leggere forse, almeno tra le righe, nella prefazione e della postfazione all’edizione italiana, firmate rispettivamente da Angela Balzano e di Carlo Flamigni, che si soffermano sui limiti della legislazione italiana in materia di procreazione assistita e che lasciano trapelare anche l’ipotesi di un utilizzo ‘alternativo’ delle tecniche della fertilità, basate su principi di trasparenza, sulla co-resposabilità e sulla libera scelta dei donatori, come strumento per ‘spezzare’ le catene del biolavoro globale. Anche se certo non tutti i casi di maternità surrogata possono essere ricondotti alla logica dello scambio mercantile (per esempio quando a essere coinvolti sono dei familiari), la realtà descritta dal volume di Cooper e Waldby dovrebbe lasciare però davvero poche illusioni sulle possibilità di poter contrastare solo con i buoni propositi la capacità di penetrazione della «bioeconomia». Anzi, proprio la retorica che rappresenta la maternità surrogata come «dono» – o, nei termini in cui l’ha definita recentemente Roberto Saviano, «un atto d’amore» – rischia semplicemente di offrire alimento alla legittimazione del processo di mercificazione della riproduzione biologica e della sua esternalizzazione. In una conversazione di alcuni anni fa, una delle due autrici del volume, Melinda Cooper, metteva d’altronde in guardia dai rischi insiti in quelle prospettive che, esaltando il desiderio di andare «oltre i limiti della vita umana», finivano in realtà per trascurare il peso delle reali dinamiche economiche: «non dovrebbe coglierci impreparate il fatto che alcuni tipi di imprese commerciali nelle scienze della vita si siano dimostrati disposti a sfruttare questi aspetti non riproduttivi delle relazioni (in particolare attraverso rDNA o tecnologie del DNA ricombinante) per espandere la possibilità di autovalorizzazione del capitale. Queste imprese saranno contente di trasgredire i limiti della riproduzione biologica tra le specie almeno fino a quando queste trasgressioni saranno brevettabili. Perché no? L’era postfordista del capitale si mostra abbastanza disposta a interloquire con gli spazi anti-riproduttivi della vita queer, in nuovi mercati di consumo, anche se finora l’ha fatto esigendo un determinato tipo di normatività in cambio» (M. Cooper, La vita come plusvalore. Biotecnologie e capitale al tempo del neoliberismo, Ombre corte, Verona, 2013, p. 15).
Non si tratta peraltro di discussioni nuove. Negli anni Novanta la giurista israeliana Carmel Shalev, mentre presentava le argomentazioni a favore e contro il libero mercato della riproduzione, proponeva una sorta di ‘nuovo contrattualismo’, in grado di far emergere i diritti della maternità surrogata. Ma – come Shalev ha riconosciuto in chiave autocritica – la studiosa aveva notevolmente sottovalutato le capacità espansive del «biobusiness», e cioè di un settore i cui obiettivi sono la ‘produzione’ di bambini per mezzo di madri surrogate e la realizzazione di profitti attraverso la vendita del prodotto. Ed è sufficiente anche una semplice occhiata ai siti delle agenzie che si occupano di surrogazione, per esempio in Ucraina, per rendersi conto di quale sia il livello di organizzazione di queste attività e per immaginare quale posto abbia – almeno nella grande maggioranza dei casi – la dimensione del «dono». Come ha scritto di recente Marco Dotti, sintetizzando il quadro del mercato della «maternità surrogata»: «Quello dell’outsourcing pregnancy è un mercato non solo ad altissimo rischio per i diritti elementari dell’uomo, ma è un rigged market, ovvero un mercato truccato dove la stessa logica liberal-individualista e contrattualista rivela che il proprio portato simbolico è arrivato al fine corsa, a tutto vantaggio di meri rapporti di forza che presto o tardi non avranno imbarazzo a rivelarsi come tali. Diventa molto interessante comprendere che, in molti formulari statunitensi (ovviamente quelli tipizzati dagli studi legali non sono pubblici), là dove costi, “prestazioni” e aspettative dei committenti sono ovviamente molto alte in conformità con la classe sociale di provenienza, i rapporti vengono regolati minuziosamente Non c’è particolare che sfugga: dall’alimentazione alla musica da ascoltare durante la gestazione, dall’eventualità di un aborto alla malnutrizione, dalla morte dei genitori committenti al divieto di fumare, bere, assumere sostanze da parte della madre surrogata, dal caso di una depressione improvvisa della madre a quello della nascita di un figlio con malformazioni o presunte disabilità relazionali. Ci sono anche clausole che permettono l'uscita dal contratto, da parte dei committenti, salvo il pagamento di una penale. Resta il fatto che una serie clausole vessatorie per la madre surrogata permette di “ricusare” il figlio, qualora non conforme alle aspettative della committenza. A proposito di “rischi”, in un formulario standard di agreement leggiamo che i rischi del parto sono interamente a carico della madre surrogata, che dichiara di aver compreso le condizioni contrattuali. Questo, ovviamente, non esclude penali economiche a carico della madre surrogata che, in questo caso, si troverebbe a precipitare in una spirale di indebitamento senza fine, considerando che le “donatrici” sono solitamente donne in difficoltà o studentesse indebitate per i loro corsi all’università. Penali ancora più pesanti sono previste nel caso di rottura del patto di riservatezza che mira a tutelare l’identità dei committenti e impedisce alla madre di dare o cercare informazioni tramite media o altri mezzi (compresa l’investigazione privata), nel caso volesse mettersi sulle tracce del figlio naturale. Si tratta di una gabbia giuridica difficilmente aggirabile, che pone in capo alla madre surrogata una serie di vincoli che, là dove non vi sia sfruttamento a monte (come nei casi di Thailandia e India, Paesi scossi da scandali in tal senso), getta un’ombra oscura sulla logica stessa che presiede questo outsourcing di maternità» (M. Dotti, Derivati di merce umana. Il biobusiness della maternità surrogata, in «Vita», 6 febbraio 2016).
Ovviamente possiamo condannare l’egoismo di chi decide di utilizzare, come un semplice ‘consumatore’, i ‘servizi’ offerti dalle imprese che operano nel campo della maternità surrogata. Ma ci deve essere comunque chiaro che queste riserve morali costituiscono argini debolissimi in un quadro che assegna al dispositivo del mercato il compito (e la capacità) di realizzare le aspirazioni di libertà di ciascun individuo. Un esempio chiaro in questo senso è stato offerto di recente da una storica dirigente del Partito radicale, a suo tempo impegnata all’interno del movimento femminista, la quale, a proposito della discussione sulla liceità del ricorso alla maternità surrogata, ha dichiarato che, se è lecito donare un rene, allora non si può escludere la possibilità di donare l’utero. Affermazioni di questo genere – che trovano peraltro un’accoglienza particolarmente favorevole negli ambienti ‘progressisti’ e di ‘sinistra’ – evidentemente sottovalutano, un po’ come faceva Shalev trent’anni fa, la realtà che ha ormai assunto il «biobusiness»: una realtà in cui la componente del «dono» è evidentemente marginale, e in cui la ‘cessione’ a un’agenzia delle proprie capacità riproduttive da parte di una donna è in realtà una relazione economica, dettagliatamente contrattualizzata e retribuita in misura variabile a seconda dei paesi. Ma in questa ingenua (o forse consapevole) sottovalutazione della realtà si nasconde un aspetto che non può essere sottovalutato, ossia il fatto che la legittimazione di una pratica si rivela tanto più efficace nel momento in cui procede dal riconoscimento della legittimità di un desiderio, e non dagli strumenti che vengono utilizzati per soddisfarlo. E non si tratta certo di una componente irrilevante. A ben guardare, infatti, anche la ricerca di una nuova giovinezza da parte della protagonista del vecchio Traitement de choc era un desiderio comprensibile: un desiderio anzi tanto umano da essere in fondo comune a tutti. Del tutto comprensibili sono anche tutti quei desideri che vanno ad alimentare il mercato della procreazione assistita e la maternità surrogata. E, così, è perfettamente comprensibile il desiderio che una persona in attesa di trapianto ha di ottenere un organo compatibile (un desiderio che può persino spingersi fino al pagamento del ‘donatore’, il quale in questo caso diventerebbe evidentemente un ‘venditore’, come sono di fatto molte madri surrogati, se non certo tutte). Ma in questo modo – sarà persino un po’ fuori moda riconoscerlo – scompaiono, sotto la superficie di una relazione di mercato, tutte le implicazioni di sfruttamento che la relazione ‘contrattuale’ tra acquirente e venditore nasconde. E cioè scompare innanzitutto il fatto che non si tratta quasi mai – almeno nel mercato del «biobusiness» – di una relazione simmetrica. Perché sarebbe a dir poco ingenuo evocare la ‘libertà’ per spiegare il comportamento con cui la madre surrogata decide di ‘vendere’ la propria capacità rigenerativa in cambio di una remunerazione monetaria. A meno di non riconoscere che in fondo ciascun lavoratore è ‘libero’ e ‘sovrano’, perché è del tutto ‘libero’ di vendere la propria forza lavoro al prezzo che ritiene più opportuno. A meno di non riconoscere l’esercizio concreto di questa libertà nella possibilità con cui ciascun lavoratore – manifestando la propria autodeterminazione – può derogare ai vincoli di contratti nazionali e di categoria, prestandosi ‘liberamente’ a lavorare dodici ore al giorno, sette giorni su sette, trecentosessantacinque giorni all’anno. E a meno di non riconoscere la manifestazione suprema della libertà nella decisione con cui molti giovani italiani in cerca di un reddito si prestano a ‘lavorare gratuitamente’, e cioè a ‘donare’ il loro tempo e le loro energie senza avere in cambio nulla. Ma è in fondo proprio per questo che la vicenda del «biolavoro» risulta tanto indicativa.
Al di là degli enormi problemi etici che solleva, il «biolavoro» diventa infatti quasi il paradigma di un quadro generale, nel quale ogni individuo diventa solo il titolare di uno specifico ‘capitale umano’. Un ‘capitale’ che ciascuno è chiamato a preservare, coltivare e accrescere. Un ‘capitale’ che ciascuno può vendere ‘liberamente’ tuffandosi in una immensa distesa di merci. Un ‘capitale’ che ognuno può utilizzare ‘liberamente’ – spremendo dalla propria mente e dal proprio corpo ogni ipotetica possibilità commerciale – per le transazioni più vantaggiose e per ottenere le risorse necessarie per soddisfare i propri desideri. In altre parole, il «biolavoro» è solo la più drammatica testimonianza della logica che si nasconde dietro la retorica del ‘capitale umano’. E forse l’aspetto più sinistro non è che dietro l’utilizzo che ciascuno di noi è chiamato a fare del proprio ‘capitale umano’ si nasconde spesso (o sempre) la realtà dello sfruttamento. Ma è piuttosto che quel formidabile dispositivo – invitandoci a gettare in una sterminata raccolta di merci le nostre energie, le nostre idee e nostri corpi, e a mettere a valore tutte le nostre potenzialità – «ci fa credere che ne va della nostra liberazione».
Damiano Palano
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