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mercoledì 3 febbraio 2016

L’incubo di un mondo sempre connesso. «24/7» di Jonathan Crary




di Damiano Palano

In molte città europee a partire dal XIV secolo fecero la loro comparsa i primi orologi, collocati in cima ai campanili delle chiese e sui palazzi comunali. Ancora per secoli la misurazione del tempo rimase però affidata prevalentemente alla meridiana e al canto del gallo. Fu invece solo sul finire del Settecento, quando presero a diffondersi gli orologi da tasca, che iniziò davvero a modificarsi la percezione sociale del tempo. Se per millenni il trascorrere del tempo era stato scandito dai cicli naturali, dalla posizione del sole e dall’avvicendarsi delle stagioni, dal quel momento il tempo incominciò infatti a essere frazionato, misurato e uniformato. In corrispondenza non casuale con la rivoluzione industriale, il cammino della lancetta sul quadrante venne a scandire quasi ogni momento della vita individuale. E circa un secolo dopo l’introduzione dell’illuminazione artificiale indebolì ulteriormente il legame fra i ritmi della vita sociale e i ritmi naturali. Perché anche le ore notturne, sottratte alle tenebre, poterono tramutarsi in ore dedicate al lavoro, al consumo, allo svago. 
È proprio alla ‘colonizzazione’ del tempo notturno che è dedicato 24/7. Il capitalismo all’assalto del sonno (Einaudi, pp. 134, euro 18.00), un testo in cui Jonathan Crary esplora l’immaginario di un mondo ‘sempre connesso’. Nel volume di Crary, docente alla Columbia University, si possono certo riconoscere i toni classici di una denuncia apocalittica dei danni prodotti dalla tecnica. Ma al di là di alcune forzature il discorso di 24/7 non può essere liquidato semplicisticamente. Lo slogan con i cui negozi annunciano di essere costantemente aperti – 24 ore su 24 e 7 giorni su 7 – è considerato infatti da Crary come il simbolo di una generale tendenza a tagliare ogni legame con le scansioni periodiche dell’esistenza umana. Alcune stime sostengono d’altronde che, nel corso dell’ultimo secolo, il tempo mediamente dedicato al sonno nelle società occidentali si sia costantemente ridotto. Così, se negli Stati Uniti un individuo medio, al principio del Novecento, dormiva mediamente dieci ore per notte, oggi il tempo dedicato al sonno sembra essersi ridotto a circa sei ore e mezzo. Ed è probabile che nei prossimi decenni, anche per effetto dell’abuso di farmaci e stimolanti, le ore riservate al riposo debbano ulteriormente assottigliarsi. 
La formula «24/7» non descrive però solo un mondo in perenne attività, come un centro commerciale sempre aperto, perché coglie soprattutto la portata enorme di una trasformazione che investe la stessa percezione sociale del tempo. Nel mondo «24/7» i flussi ininterrotti dell’informazione e del mercato globale entrano infatti nella nostra dimensione più privata, rendendo tutto uniforme. Il tempo di lavoro – non più rinchiuso dentro i cancelli della fabbrica o tra le pareti dell’ufficio – invade le ore teoricamente di risposo, eliminando ogni distinzione fra tempo di vita e tempo di lavoro. In questo modo diventano sempre più labili anche i confini tra giorno e notte, oltre che tra lavoro e festa. E in questo processo rischiano forse anche di assottigliarsi la trama dei rapporti interumani e lo stesso spazio dell’interiorità. Perché ogni istante diventa potenzialmente un momento in cui lavorare, in cui fare acquisti online, in cui consultare la posta elettronica. O in cui sbirciare lo schermo del nostro smartphone.

Damiano Palano

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