«Heroes. Suicidio e omicidi di massa» è probabilmente il libro più inquietante di Franco Berardi. Con il nuovo capitolo della «fenomenologia della fine» giunge infatti a piena maturazione un pessimismo radicale. Un pessimismo che, a ben guardare, non è però il prodotto dello «spirito del tempo» o della «mutazione antropologica» che abbiamo di fronte. Le sue radici affondano infatti nella logica di un percorso intellettuale lungo ormai quasi mezzo secolo, il cui esito paradossale è la ‘rimozione’ della politica e del conflitto dallo spazio della teoria.
di Damiano Palano
I. Il tempo della disperazione
Al termine del Disagio della civiltà, dopo aver mostrato come il processo della civilizzazione fosse il risultato del controllo progressivamente esercitato sul corredo pulsionale degli esseri umani, Freud veniva a contrapporre l’una all’altra le due forze elementari che riteneva di avere scoperto, Eros e Morte. E proprio nelle righe finale, aggiunte nel 1931, segnalava come i pericoli maggiori per il genere umano giungessero dalla pulsione di morte e dalle tendenze aggressive che ne discendevano:
«Il problema fondamentale del destino della specie umana, a me sembra sia questo: se, e fino a che punto, l’evoluzione civile degli uomini riuscirà a dominare i turbamenti della vita collettiva provocati dalla loro pulsione aggressiva e autodistruttrice. In questo aspetto proprio il tempo presente merita forse particolare interesse. Gli uomini adesso hanno esteso talmente il proprio potere sulle forze naturali, che giovandosi di esse sarebbe facile sterminarsi a vicenda, fino all’ultimo uomo. Lo sanno, donde buona parte della loro presente inquietudine, infelicità, apprensione» .
È facile riconoscere in quelle parole il riflesso cupo della stagione di barbarie che si avvicinava. L’insieme delle trasformazioni epocali inaugurate dalla prima guerra mondiale aveva d’altronde indotto il padre della psicoanalisi a rivedere sensibilmente il proprio quadro teorico generale. E anche se l’interesse per i temi politici era affiorato già dal grande affresco di Totem e tabù, le dinamiche della società attrassero l’attenzione Freud soprattutto a partire dallo scoppio del conflitto e dopo il crollo dell’Impero, un evento che rappresentò anche per il medico viennese il tramonto del «mondo di ieri» in cui aveva vissuto (e creduto) e l’inizio di un’era di disordine. Il cammino che doveva condurre Freud al Disagio della civiltà e al riconoscimento sconcertante della «pulsione di morte» – col quale prendeva atto che la tendenza aggressiva «rivela nell’uomo una bestia selvaggia, alla quale è estraneo il rispetto per la propria specie» – era anche un percorso intellettuale di disillusione rispetto ai grandi sogni della scienza positiva. L’ambizione di poter guarire gli esseri umani dal loro disagio, portando alla luce le correnti misteriose che si agitavano nel fondo della psiche, si trovava alla fine a urtare contro un ostacolo insuperabile, aprendo le porte a un cupo pessimismo, per molti versi simile a quello che aveva indotto i grandi realisti del passato a descrivere il «legno storto» della «natura umana».
La pista indicata dal Disagio della civiltà e da altri scritti freudiani degli anni Venti, come soprattutto Massenpsychologie und Ich Analyse, doveva in seguito essere battuta anche da molte altre indagini, più o meno fedeli rispetto agli insegnamenti del padre del psicoanalisi, tra cui è quasi inevitabile ricordare Massenpsychologie des Faschismus di Wilhelm Reich, Escape from Freedom di Erich Fromm, o Eros and Civilisation di Herbert Marcuse, ma tra cui sarebbe ingiusto dimenticare anche suggestivi testi come Psicanalisi della guerra atomica e Psicoanalisi della guerra di Franco Fornari . E anche negli ultimi anni un sentiero di riflessione di questo tipo è stato seguito, seppur ormai marcando una sostanziale distanza da Freud, per esempio da Massimo Recalcati, che in alcuni suoi interventi giornalistici si è spinto a interpretare fenomeni politici come il terrorismo di matrice islamista, alla ricerca di una spiegazione collocata al livello della «psicologia della massa», ossia delle generali condizioni psicologiche che contrassegnano una determinata società . Per quanto suggestive siano le sollecitazioni che provengono da queste indagini, il crinale su cui esse si muovono – al confine tra l’ambito della psicologia del singolo individuo e la sterminata landa delle condizioni economiche, politiche e culturali di una determinata società – non può che essere sempre estremamente scivoloso, ed è così quasi inevitabile cedere a semplificazioni che finiscono con lo smarrire, al tempo stesso, la specificità delle motivazioni individuali e l’autonomia (oltre che la complessità) dei fenomeni politici. Se infatti la ricostruzione ‘psicologica’ del quadro culturale di una determinata fase storica può offrire formidabili elementi per interpretare fenomeni politici o anche le scelte che un singolo individuo si trova a compiere, una simile impostazione rischia quasi sempre di spingere verso il riduzionismo psicologico. Un riduzionismo in base al quale – saltando ogni anello intermedio – non solo fenomeni politici e culturali complessi vengono ricondotti a determinanti psicologiche, ma secondo cui persino la stessa condizione del singolo appare riducibile alle dinamiche della psicologia di massa, proprio secondo quello schema che tracciava Freud al termine del Disagio della civiltà, quando scriveva che la consapevolezza degli esseri umani del potere raggiunto sulle forze naturali spiegava «buona parte della loro presente inquietudine, infelicità, apprensione».
È proprio questo scivoloso crinale, affollato di insidie, che decide di percorrere Franco Berardi nel volume Heroes. Suicidio e omicidi di massa, il suo libro probabilmente più inquietante – se non altro per le storie individuali che vengono considerate come ‘esemplari’ – ma in cui giunge anche a completa maturazione un pessimismo dalle radici profonde . Nel libro di Berardi vengono infatti ripercorse le storie personali di folli criminali che utilizzano armi micidiali per sterminare decine di innocenti, prima di togliersi la vita, ma queste vicende sono assunte come spie di un disagio generale, che non coincide solo con la patologia di casi estremi, perché riflette piuttosto la diffusione di massa di comportamenti patologici. Non è neppure necessario sottolineare come nella lettura che sorregge Heroes si annidino molteplici rischi, che non sono solo quelli di semplificare fenomeni inevitabilmente complessi. E non va neppure mai dimenticato che le ipotesi di Berardi sul disagio dell’«ipermodernità» non hanno – né pretendono di avere – un valore sul piano clinico (un valore che d’altronde non avevano neppure le ipotesi freudiane sul fondamento e sul destino della civiltà), e vanno piuttosto a collocarsi sul terreno di un’interpretazione ‘culturale’ del presente, dalla quale non sono peraltro mai assenti le preoccupazioni più strettamente ‘politiche’ sulle possibili modalità di azione in un contesto tanto fortemente segnato dalla «mutazione» . A dispetto di tutte queste cautele, il pessimismo di Berardi non può essere probabilmente archiviato in modo frettoloso, e non se possono liquidare le estremizzazioni come il semplice vezzo intellettuale di un ‘provocatore’ culturale aduso all’iperbole. Perché a ben guardare, al netto delle estremizzazioni e delle provocazioni (che certo ci sono), il ritratto che Berardi ha delineato, investigando da vicino la mutazione tecnologica degli ultimi due decenni, coglie davvero alcuni aspetti cruciali. E vale dunque senz’altro la pena prendere sul serio le sue ipotesi, evitando di ricondurre le sequenze del suo itinerario all’interno della griglia interpretativa del «post-operaismo» italiano (che almeno nel suo caso appare oggi molto simile a una gabbia distorcente), e rendendo il dovuto merito a uno sguardo che – non da oggi – si è rivelato capace di cogliere tutte le insidie della trasformazione.
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